Il Ministro delle politiche agricole, alimentari e forestali, Mario Catania, ha partecipato all’evento “Costruire il futuro: difendere l’agricoltura dalla cementificazione”, convocato ieri 27/07/2012, dal suo Ministero nella Biblioteca della Camera a Palazzo San Macuto. Con i relatori Sergio Rizzo, del Corriere della Sera e Carlo Petrini, fondatore di “Slow Food” ha presentato un disegno di legge sul tema. Lo stato di fatto delle campagne nostro Paese è da anni ben noto, e il Ministro ne ha dato una spietata sintesi: «Ogni giorno 100 ettari di terreno vanno persi, negli ultimi 40 anni parliamo di una superficie di circa 5 milioni. Siamo passati da un totale di aree coltivate di 18 milioni di ettari a meno di 13. Sono dati che devono farci riflettere sul fatto che il problema del consumo del suolo nel nostro Paese deve essere una priorità da affrontare e contrastare. In un quadro come quello italiano, che da questo punto di vista non è assolutamente virtuoso, dobbiamo invertire la rotta di un trend gravissimo che richiede un intervento in tempi rapidi[...] . In epoca recente, in questa alternanza, si è inserito un fattore che ha reso il consumo del suolo un processo irreversibile: la cementificazione. È un fenomeno che ha un impatto fortissimo sulle aree agricole del nostro Paese, ma diventa ancora di più preoccupante quando lo vediamo concentrato in quelle zone altamente produttive, ad esempio sulle pianure. È qualcosa di devastante sia per l'ambiente sia per l'impresa agricola, con effetti negativi sul volume della produzione. La sottrazione di superfici alle coltivazioni abbatte la produzione agricola, ha un effetto nefasto [...] Tutto ciò avviene in un Paese come il nostro dove il livello di approvvigionamento è molto basso, dato che almeno il 20 per cento dei consumi nazionali è coperto dalle importazioni». Petrini e Rizzo hanno poi ricordato il valore del lavoro agricolo per la tutela dell’ecosistema e i principi costituzionali violati, mettendo in risalto da diversi punti di vista la caratteristica di “salute pubblica” del tema e la sua eccezionalità catastrofica.
In conclusione il Ministro ha invocato la collaborazione di tutte le istituzioni per salvare il salvabile e passare a un nuovo modello di sviluppo: contrastare l’aggressività dei poteri forti, l’assenza di regole e la cecità della politica; cambiare il meccanismo degli oneri di urbanizzazione che vanno ai Comuni. Ha concluso chiedendo suggerimenti e dialogo.
Subito Michele Serra gli ha risposto dalla sua Amaca di Repubblica: «io non ci credo che un ministro, per giunta “tecnico”, per giunta a termine, possa avere la meglio contro l’orda famelica degli speculatori».
Il disegno di legge Catania, già all’articolo 1 parte con il piede sbagliato e limita l’intervento alle aree definite “terreni agricoli qualificati tali dagli strumenti urbanistici vigenti”. Finiremmo col veder salvaguardato solo ciò che lo dovrebbe essere già, impotenti nei confronti delle enormi aree agricole produttive, ma anche naturali, boschive, permeabili, che si possono cementificare “a norma”, col beneplacito di Comuni, Provincie e Regioni.
C’è poi il rischio di continuare a mettere le galline sotto la protezione delle volpi. Infatti, nell’articolo 2, si articola una piramide istituzionale che in 180 giorni dovrà spartire fra le Regioni nuove “quote terra”, cioè quanto del terreno agricolo di cui sopra, finora sottratto alla rendita immobiliare, potrà essere scialato. Speriamo sia poco, ma è certo di troppo rispetto alle già enormi estensioni compromesse con i Piani, anche dalle Amministrazioni che si dichiarano meno sensibili alle lusinghe delle cricche del cemento.
I criteri che il Ministero si darà per determinare le quote di agricoltura da dismettere, non sembrano voler essere quelli di salvare il salvabile, di difendere tutto ciò in cui può vivere e produrre una vigna o un orto, qualche albero da legno o da frutta, un po’ di biodiversità e di paesaggio, nella grave situazione di carenza alimentare a km 0, mantenendo la possibilità di riassorbire in agricoltura di qualità almeno una parte della dilagante disoccupazione. Ci si occupa invece «dell’esistenza di edifici inutilizzati, dell’esigenza di realizzare infrastrutture e opere pubbliche e della possibilità di ampliare quelle esistenti, invece che costruirne di nuove». Tutti urbanisti fai-da-te quindi, ancora una volta, a discutere quale tangenziale sia più comoda, quale sacrificare fra i poderi per farci la discarica o l’inceneritore, quali dei beni comuni venduti per far cassa possa diventare un villaggio turistico.
Se qualcuno azzarda a credere che, piani o non piani, il suolo “agricolo e naturale” sia un bene comune da proteggere collettivamente (meglio se in modo democratico e partecipato) perché da esso dipendono, fra l’altro le riserve idriche, la qualità dell’aria, la sicurezza geologica, il cibo e i luoghi ameni del paesaggio, non trova in questo decreto niente di consolante.Trova invece all’art. 4 un insieme di scoordinate misure di incentivazione alla ristrutturazione dell’edilizia rurale sparsa, con tanto di sconto fiscale e sugli oneri di urbanizzazione che, da come sono messi giù, possono solleticare le voglie villiniche dei ceti benestanti a ciò vocati.
Non insensibile al grido di dolore... il ministro Catania ha denunciato la gravità del problema del paesaggio agrario italiano. Peccato che la risposta costruita con il disegno di legge non risulti conseguente o convincente. Ben diverso è lo stile adottato dal Governo Monti quando tratta a muso duro con altre categorie: i pensionati, gli esodati, i precari. Ci saremmo aspettati un maggior rigore con gli speculatori dell’espansione urbana alla cui avidità dobbiamo almeno una parte dei guai di questa crisi. Data la gravità della situazione del paesaggio agrario, il cui destino si muta non in tempi biblici, ma in annate, il provvedimento indispensabile è la moratoria, di un quinquennio, alla trasformazione edilizia o per infrastrutture di ogni terreno agricolo produttivo o no, naturale o permeabile (con una franchigia, ad esempio, di 1000 o 2000 metri quadrati), destinato o no alla edificazione o all’urbanizzazione da un Piano urbanistico vigente. Con qualche norma di adeguamento che tenga conto delle autorizzazioni concesse, dei cantieri veramente avviati, delle infrastrutture da adeguare. Non sottraendo a tale moratoria le innumerevoli nuove tangenziali, bretelle che minacciano le aree più ubertose delle varie regioni del Paese.
C’è persino un precedente, che possiamo richiamare, nella storia urbanistica Italiana, la legge 765/1967, la Legge Ponte.
Una equa moratoria, senza indennizzo, data la durata canonica, permetterebbe, come nell’occasione citata, di riconsiderare tante scelte megalomani o interessate, arrivando a soluzioni più sagge e sobrie da porre alla base del modello sostenibile cui aspira lo stesso Ministro. E la moratoria potrebbe dare ancora un po’ di fiato a noi cittadini che da anni ci battiamo in massa, con risultati deludenti, per la salvaguardia dei beni comuni, del paesaggio o di ciò che ne rimane.
Dinanzi a un provvedimento di secca moratoria potremo perdonare finanche una lacrima in diretta, da versare sulle rendite e sulle speranze sfumate di qualcuno di coloro che sulle rovine del Bel Paese di tutti vogliono continuare a fondare le loro private fortune.
mercoledì 25 luglio 2012
Sulla fondatezza dell’allarme lanciato, sulla gravità della situazione determinata dalla concezione mercantile del territorio, sulle gravi conseguenze che ne deriveranno (se il processo non s’interrompe e s’inverte), come sulle bune intenzioni del ministro e dei suoi consiglieri non solleviamo dubbi né perplessità: li condividiamo in pieno. Siamo invece fortemente dubbiosi sulle proposte. Intanto, sono viziate le stesse basi conoscitive: i dati di partenza. Da tempo insistiamo per spiegare che è un errore grave misurare il “consumo di suolo” determinato dall’abnorme espansione della “repellente criosta di cemento e asfalto con le statistiche relative riduzione della superficie delle aziende agricole. A nostro parere la superficialità nell’analisi di un fenomeno patologico impedisce di individuare lo soluzioni giuste per correggerlo. . Abbiamo scritto più volte in che direzione deve essere cercata la soluzione efficpace. Le opinioni possono essere diverse. Una cosa er noi è certa: non basta una cosa sola. che si tratti del ripristino delle regole originarie per la finalizzazione degli oneri di costruzione (cosa in sé sacrosanta) o della fissazione di traguardi quantitativi (cosa della quale dubitiamo fortemente, anche dopo l’analisi dei risultati del tentativo tedesco), o della moratoria (quella del 1967 andava nella direzione opposta, caro Toni). Come abbiamo scritto « Il fenomeno deve essere contrastato con un insieme sistematico di azioni, che ne affrontino i diversi aspetti». Lo abbiamo argomentato nell’ eddytoriale n. 136 del dicembre 2009, al quale per ora rinviamo. Torneremo presto sull’argomento.