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Carlo Galli
La strategia della disunione
7 Agosto 2009
Articoli del 2009
L’Unità di Italia è di nuovo un problema politico e sociale: storia di un concetto dalle origini al degrado attuale. Da la Repubblica, 7 agosto 2009 (m.p.g.)

Il discorso pubblico sull’Unità d’Italia è rapidamente scivolato nel discorso sulla sua disunione. Non c’è da meravigliarsene: si parla sempre del medesimo oggetto, del ruolo che la politica ha, o non ha, nella vita del nostro Paese.

Alla sua origine l’Unità fu l’esito di un’azione politica, non di una necessità storica: nonostante le grandi narrazioni delle intelligenze più generose e progressiste, da Mazzini a Manzoni, non vi era un’Unità in potenza, un popolo unito dalla storia, pronto a diventare una realtà effettuale. Quando l’Italia fu fatta, fu chiaro ai suoi stessi artefici che si trattava di una arrischiata scommessa, di uno Stato nazionale senza Nazione.

Fatta l’Italia, toccò alla politica fare anche gli Italiani. Il che avvenne – al prezzo di dolorosissime esclusioni (i milioni di emigranti) – attraverso le istituzioni (dal Parlamento nazionale ai Regi Licei al Regio Esercito), ma anche con la nazionalizzazione delle masse (indotta dalle mitologie patriottiche postrisorgimentali, e dalla Grande Guerra), col nazionalismo sociale e imperialistico del fascismo, e infine con la democrazia. Nella quale la forza civile di una cittadinanza pensata finalmente per tutti si è combinata con la formidabile potenza inclusiva del capitalismo, in un rapporto di dura competizione ma anche di collaborazione con le rappresentanze politiche del lavoro (sindacati e partiti di sinistra), sotto la garanzia della Democrazia Cristiana.

È da questa modernizzazione democratica – all’insegna dello Stato sociale, della produzione, e dei consumi – che sono risultati gli Italiani: che sono oggi una società di massa occidentale, e quindi relativamente omogenei quanto a cultura, lingua, stili di vita, esperienze, aspettative. Ma mentre, durante la Prima Repubblica, venivano fatti gli Italiani, era scarsamente manutenzionata l’Italia politica: la sua esistenza veniva data per scontata, e non era un vero problema. Anche il suo funzionamento pareva accettabile: dopo tutto, le istituzioni democratiche e l’Unità d’Italia sembravano avere retto bene o male, le prove del dopoguerra: i separatismi, le contrapposizioni ideologiche, i terrorismi, le rivoluzioni di costume (anche le Mafie, benché mai sconfitte, parevano entità parassitarie, in fondo subalterne, rispetto alla forza della democrazia).

Che dietro agli Italiani ci fosse in realtà poca Italia – che l’omogeneità della società di massa fosse percorsa da contraddizioni e da scomposizioni che sempre meno trovavano sintesi politica – è apparso chiaro quando, dopo la paralisi dei partiti costituzionali negli anni Ottanta, e dopo le inchieste giudiziarie degli anni Novanta, su questa Italia si è abbattuta una politica giocata sulla forzata contrapposizione e sulla strumentale mobilitazione permanente di una parte degli Italiani contro l’altra (dei ‘liberali’ contro i ‘comunisti’): la politica di Berlusconi. Cioè, paradossalmente, di un uomo che molto ha contribuito con le tv commerciali all’unificazione, e all’omologazione, degli Italiani, a renderli ciò che oggi sono; e che all’Italia – trasfigurata in uno slogan sportivo – ha intitolato il proprio partito, e dedicato la dichiarazione d’amore con cui ha iniziato la sua carriera politica ("l’Italia è il Paese che amo").

Fino a quando Berlusconi ha conservato il suo potere politico, l’italianità fittizia – di cui egli produceva la rappresentazione con le sue televisioni, e con la sua stessa persona, dilatata a icona in cui gli Italiani si immedesimavano – compensava, apparentemente, le divisioni che egli creava, o che acuiva, fra gli Italiani; e col suo populismo egli in parte copriva, o almeno lo pretendeva, anche l’indebolimento delle istituzioni democratiche, il deficit di spirito pubblico e di patriottismo costituzionale dell’Italia politica, che il suo stile di lotta e di governo produceva o accelerava.

Ma oggi il suo potere si è parecchio affievolito, tanto per le sue vicende private (che egli stesso ha da sempre voluto far valere come pubbliche, e che ora gli si rivoltano contro, in patria e all’estero) quanto per la crescente difficoltà che egli incontra a supplire con la sua fittizia immagine unitaria d’Italia le lacerazioni reali che la crisi economica, poco governata, induce e amplifica fra gli Italiani. I quali restano sì uniti dallo stile di vita, dalla cultura, dalla lingua, ma si dividono per redditi, per interessi sempre più parziali e confliggenti, secondo linee di frattura sia sociali sia locali.

Mentre barcolla la sua capacità di produrre identificazione simbolico-emotiva per gli Italiani, Berlusconi si trova di fatto a inseguire i suoi alleati che scommettono sulla frammentazione e sulla divisione d’Italia: ovvero tanto la Lega Nord, alle cui assurde provocazioni su dialetti e territori non ha saputo opporre una risposta dignitosa (e del resto l’incalzante offensiva leghista sulle gabbie salariali e sul tricolore fa parte di una calcolata strategia di disunione), quanto l’embrione della Lega Sud, ricettacolo di antiche e nuove clientele notabilari e frustrazioni popolari, che egli ha per ora tacitato elargendo denari virtuali.

È dunque l’attuale estrema debolezza della politica – prima di tutto del governo e del premier, ma anche dell’opposizione, tutta presa dalle sue interne difficoltà – a far dire che oggi esistono sì gli Italiani, ma che nel frattempo, cosa impensabile ai tempi dell’Italietta del cinquantenario (nel 1911) e dell’Italia del boom del centenario (nel 1961), l’Unità d’Italia è tornata a essere un problema politico, serio e incombente.

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