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La storia comincia 8 anni fa, venerdì primo luglio 1995, quando F. G., pubblico ministero milanese, ascolta S. A., futura testimone velata dal nome criptico "Omega". I colloqui seguenti evocano un mercato romano della giustizia venale, contiguo al serraglio politico-affaristico; e dialoghi intercettati forniscono conferme, specie su una toga capitolina, ex consigliere a Palazzo Chigi (sub B. Craxi), poi al Quirinale (sub F. Cossiga), ora preposto ai giudici delle indagini preliminari. L’arrestano martedì 12 marzo 1996. Da settembre, sul registro milanese delle notitiae criminis figura B., in compagnia dell’avvocato d’affari P., già suo ministro della Difesa, ed era destinato alla Giustizia o agli Interni, autore dell’icastica battuta: «Stavolta non faremo prigionieri»; siamo nel preludio alla campagna elettorale. L’uomo d’Arcore non lesina i fendenti verbali. Quarantott’ore dopo paragona gli inquirenti alla banda assassina della Uno bianca (14 marzo); indi presenta alla stampa i professori reclutati nel pensatoio forzaitaliota: inter quos l’attuale presidente del Senato stronca «la cultura liberale falsa e imbelle impersonata dal senatore a vita Norberto Bobbio» (i curiosi consultino Gianni Barbacetto, Peter Gomez, Marco Travaglio, Mani pulite, Editori Riuniti, 2002, 419-45). I reperti alimentano tre filoni. Seguiamone due.
Nino Rovelli, petroliere, litiga con l’Imi: un collegio del tribunale presieduto da F. V., ora coimputato, gli dà partita vinta nell’an debeatur (siamo nel 1996); un altro deciderà sul quantum; l’udienza conclusiva è fissata al 4 aprile 1989. Il presidente C. M. vuol disporre una consulenza e l’ha incautamente confidato in alto loco. Quel mattino gli arriva una chiamata perentoria dal ministero, dove F. V. funge da capo-gabinetto: venga subito; e corre, spiegando a chi lo sostituisce che l’udienza va sospesa finché lui torni; in via Arenula perde un’ora conversando sul niente; quando torna, actum est; hanno deciso liquidando 650 miliardi al fortunato litigante. Davanti alla Corte d’appello i miliardi diventano 1000, interessi e spese inclusi. Scrive la sentenza V. M., novembre 1990. L’Imi ricorre: ricorso inammissibile, obietta l’appellato, perché nel fascicolo manca la procura speciale (come se uno uscisse nudo, avendo dimenticato gli abiti); la procura c’era, replica il ricorrente; e l’episodio muore nella solita inchiesta contro ignoti. Senonché M. C., relatore, ritiene ammissibile il ricorso e predispone un appunto segreto: qualcuno lo fotocopia mandando le copie ai quattro colleghi; e un corvo scrive al primo presidente, nonché all’interessato, avvertendolo d’essere ricusabile perché ha scoperto anzitempo quel che pensava.
Lo spiato offre l’astensione, sicuro della risposta negativa: «No, resta, è scrupolo fuori luogo»; nient’affatto, il superiore lo sostituisce. Com’era in votis, la Corte dichiara inammissibile il ricorso. Chiude l’intrigo un gesto schernevole: primo presidente, procuratore generale e l’astenuto ricevono copia della procura sparita; mancano margine sinistro e lembo superiore, dove un timbro suole attestare il deposito. Graziosa historiette. Così i pirati intendono l’arte forense. Sui conti esteri dei tre coimputati affluiscono 67 miliardi, pari al 10% del bottino (Barbacetto-Gomez-Travaglio, 466 ss.).
Qui B. era assente, mentre figura nel secondo caso: contendeva a C. D. B. il controllo della Mondadori e soccombente nel giudizio arbitrale, impugna; la Corte d’appello romana decide a suo favore lunedì 14 gennaio. L’indomani salta fuori la sentenza manoscritta, 168 pagine: vi riuscirebbe sì e no Balzac, scrittore dalla mano miracolosa; l’arto de quo, invece, appartiene al V. M. che abbiamo visto nel caso Imi-Sir, uno le cui gestazioni letterarie durano mediamente dai 2 ai 3 mesi; solo 9 volte su 56 scende sotto tale soglia, scrivendo poche pagine, mentre stavolta consuma un calamaio; donde l’ipotesi che il capolavoro preesistesse (Barbacetto-Gomez-Travaglio, 475 ss.). Secondo dicerie avvocatesche, sarebbe nato nello studio d’uno degl’imputati: i vecchi retori li chiamavano "rumores" e sul tavolo istruttorio valgono pochissimo, anzi niente; ma l’erculeo motivatore commette una seconda gaffe quando esce dalla magistratura collocandosi nello studio P.
Non è affare mio stabilire se le prove raccolte bastino alla condanna. Certo, bastano a «sostenere l’accusa» (art. 125 att.), al qual proposito B. appare benedetto dalla sorte: figura tra gl’imputati; il pubblico ministero ha chiesto il rinvio a giudizio. Imprevedibilmente, il giudice dell’udienza preliminare dichiara non doversi procedere: secondo lui, manca la prova che li inchiodi; può darsi ma deve stabilirlo un dibattimento. Su appello del pubblico ministero la Corte li rinvia a giudizio, salvo B., favorito da una svista legislativa stavolta solo colposa: la l. 26 aprile 1990 n. 86 calca la mano sulla corruzione nel processo (art. 319-ter c.p.), poi dimentica l’art. 321 (pene del corruttore); è «errore materiale» da compilatori disattenti; e vi rimediano con l’art. 2 l. 7 febbraio n. 1992 n. 181. Ora, risultando anteriori i fatti sub iudice, la Corte reputa applicabile l’art - 319-ter solo al corrotto e ai mediatori organicamente insediati nel malaffare togato: grazie alle attenuanti generiche, B. risponde dell’ipotetico delitto meno grave, ormai prescritto; ed esce dal processo quale probabile corruttore esente da pena. Poteva rinunciare alla prescrizione, scegliendo l’alternativa secca condannato-assolto: gli innocenti orgogliosi rifiutano un proscioglimento avvilente; lui se lo tiene stretto.
I due filoni, Imi-Sir e lodo Mondadori, confluiscono. Superfluo raccontare cos’avvenga nelle udienze preliminari, poi al dibattimento aperto tre anni fa: sarabande mai viste d’ostruzionismi, cavilli, tempo perso, leggi ad personam, tempeste mediatiche, fino al tentativo d’una fuga preclusa dalle Sezioni unite (28 gennaio 2003). Dopo tre anni, il dibattimento pare concluso. Nel calendario la decisione è attesa giovedì 27 marzo ma solo l’ottimista Candide poteva aspettarsi un P. rassegnato. Infatti, ripete l’antica mossa, ricusando i tre giudici: è l’ennesima volta; li ricusava uno a uno, poi tutti, d’un colpo. L’ordalia diventa farsa. La ricusazione richiede casi tassativi; uno è l’«inimicizia grave» col giudice; e lui ha tre nemici seduti al banco. Ah sì? Crudelissimi, tanto da negargli quel che chiede. Glielo spieghino i consulenti: sono innumerevoli le questioni controvertibili, seriamente o no; una decisione le risolve; il rimedio all’eventuale errore sta nell’impugnarla; altrimenti i giudizi diventano eterni; chiedo cose stravaganti e me le concedono o li ricuso. A sentire lui, il Tribunale sarebbe incompetente perché la notitia criminis appare a Perugia, 25 ottobre 1994, mentre nel registro milanese arriva 11 mesi dopo. Argomento risibile sotto almeno tre aspetti. Primo, l’ipotesi perugina era che qualcuno avesse svelato segreti d’ufficio: qui è in ballo una sentenza venduta; due avvenimenti piuttosto diversi; e nell’ottobre 1994 solo Nostradamus poteva sapere che 9 mesi dopo, sarebbe trapelato l’allegro mercato romano. Secondo: l’«esposto» invocato dal ricusante come fondamento della competenza umbra figurava nel «registro degli atti non costituenti notizia di reato», alias «modello 44» (art.1 d.m. 30 settembre 1989), mentre l’art. 9, c. 3, contempla il «registro previsto dall’art. 335» o «delle notizie di reato», modello 21 o 44 (contro ignoti). Terzo: quando anche fosse la stessa notizia, iscritta nel posto giusto, contro l’identica persona, da sola non basta: ci vuole un séguito qualunque; e se vi fosse, risulterebbe archiviata o verrebbe sulla scena un imputato. I procedimenti aperti dal pubblico ministero indagante non spariscono nell’aria. Sono cose elementari, procedura piatta. Il Tribunale, longanime, rinvia al 2 aprile. Cosa declamerà P. mercoledì prossimo?