Dissento radicalmente da Stefano Fassina ("La sinistra nella morsa del liberismo", il manifesto del 2/9) secondo cui: «il demos europeo non esiste. Il demos è nazionale per radici culturali, storiche e sociali. La democrazia o è nazionale o non è». Per questo non posso che concordare con la critica che Yanis Varoufakis muove a quelle stesse posizioni ("Europeisti contro gli oligarchi", il del 6/9). Non è chiaro che cosa Fassina intenda per demos, che poi vuol dire popolo, gente: verosimilmente coesa e organizzata in corpi intermedi.
Dalle sue parole risulta che condizione della democrazia sia la condivisione di un comune spirito nazionale. Ma mai come ora nella storia dell’Italia repubblicana, ma anche in quella di tutti gli Stati europei usciti dalla seconda guerra mondiale, il conflitto, inteso come non condivisione di un comune sentire, risulta tanto irriducibile da dissolvere l’idea stessa di un demos comune.
Al centro di di quel conflitto c’è una enorme «variabile» che né Fassina né Varoufakis considerano: l’alternativa tra accogliere o respingere profughi e migranti e tra includere o emarginare i cittadini europei con origini in altri paesi. Certo, non c’è modo di accogliere e includere se non si è disposti a riconoscere i più elementari diritti nemmeno a una parte crescente dei cittadini europei. Ma non c’è niente di condiviso, per usare due figure emblematiche, tra Matteo Salvini, capo della Lega, e Domenico Lucano, sindaco di Riace; né tra chi condivide parole e atti dell’uno o dell’altro, anche se Salvini tutti sanno chi è, mentre di Lucano ben pochi hanno sentito parlare, nonostante che la rivista Fortune lo consideri una delle persone più importanti della Terra.
Ma non c’è niente di condiviso neanche tra coloro che non vorrebbero prendere posizione né per l’uno né per l’altro, perché il conflitto tra quelle polarità è destinato comunque a crescere e a decidere il futuro dell’Italia e dell’Europa. Lo vediamo alla prova del voto in Austria, dove i partiti tradizionali sono quasi scomparsi a favore degli opposti schieramenti «accogliere o respingere»; nel Regno Unito dove il voto sulla Brexit si è svolto, in modo più confuso, sullo stesso tema; in Francia e Germania, dove domina ormai la competizione politica; in diversi paesi dell’Europa dell’Est, dove si è già risolto, per ora, a favore del respingere: anche là dove profughi e immigrati quasi non esistono.
Oggi hanno la meglio, anche perché l’establishment europeo è sempre più allineato con le loro pretese, i fautori del respingere: ma anche se la pensano tutti allo stesso modo, non possono costituire un fronte comune e meno che mai un demos europeo, perché ciascuno spinge il proprio paese ad allontanarsi da tutti gli altri: parlano di difendere le frontiere comuni dell’Europa, ma ciascuno difende e rafforza le sue: e qui frontiera non vuol dire solo confine geografico, ma anche culturale, sociale, economico e politico.
Dal lato opposto, nelle pratiche, se non nelle politiche – perché queste non ci sono – di accoglienza, come in quelle di ibridazione culturale e sociale con chi già è insediato in Europa, si sta invece costituendo, anche se scarsamente consapevole di sé, un vero demos europeo: un fronte comune di persone, soprattutto giovani, che si riconoscono al di là dei confini nelle scelte e nelle iniziative di tutti coloro che si adoperano per accogliere e per far incontrare le diverse culture e che hanno come comune punto di riferimento l’Europa: non l’Unione Europea e le sue istituzioni, e meno che mai l’euro; non l’Italia o la Francia, la Grecia o la Germania, ma l’Europa come meta legittima di persone come noi, che cercano in questo continente una sopravvivenza che nel loro paese di origine è negata; un luogo da cui offrire sostegno economico, morale e culturale alle loro comunità rimaste a casa o a metà strada; e forse anche un trampolino per ritornare, in condizioni diverse, da dove sono partiti.
È un sentire comune a profughi, migranti e cittadini europei impegnati a fare dell’Europa non una fortezza, la cui chiusura porta inevitabilmente alla frantumazione, ma uno spazio aperto a una progettazione condivisa di vite, convivenze ed economie completamente diverse.
D’altronde, riempire bocche e schermi di ingiunzioni a respingere e rimpatriare è facile; ma tradurle in pratica è un’altra cosa: nel «migliore» dei casi, significa ributtare coloro che cercano rifugio in Europa tra le braccia – o gli artigli – delle bande da cui cercano di fuggire; le stesse che stanno minando anche la sicurezza dei cittadini europei; nel peggiore, condannarli a morte nei paesi di origine, in quelli di transito, o in mare: uno sterminio.
Dunque in gioco non c’è solo l’Unione Europea, né solo l’euro, ma il progetto di un’Europa che, se ridotta a fortezza, è destinata a dissolversi. Per questo sia gli «spinelliani senza se e senza ma» irrisi da Fassina sia quelli che «se e ma» ne producono dozzine, devono fare i conti con questa evenienza (e non «emergenza») su cui si gioca il destino politico, sociale e culturale del continente.
Dovrebbe però essere chiaro che, anche se i loro confini non combaciano, euro e Unione Europea sono indissolubilmente legati: se crolla l’uno si dissolve anche l’altra. I tentativi di tenerli separati, come quello fatto da Luciano Gallino a cui Fassina si richiama, sono giocati sul piano giuridico: testimonianza di una pervicace volontà di salvare il progetto europeo.
Ma il problema non è giuridico, bensì politico.
Fassina, che da tempo ha abbracciato l’idea che uscire dall’euro porterebbe il paese fuori dalle secche in cui l’hanno arenato le politiche europee, invoca l’autorità di Stighitz, che prospetta due soluzioni per cercare di salvare euro e Unione: un «piano A» con tutti quegli ingredienti, dagli eurobond a politiche fiscali e del lavoro comuni, considerati necessari a rilanciare «la crescita». Ma Stiglitz sa che non verrà mai condiviso da chi governa oggi l’Europa. In subordine, un «piano B»: dividere l’euro in due, uno per i paesi «forti» e uno per quelli dell’Europa mediterranea, così da attenuare la divaricazione prodotta dalla condivisione della stessa valuta.
È l’opzione cui si aggrappa Fassina: una soluzione intermedia rispetto a una competizione a suon di svalutazioni a cui aprirebbe le porte il ritorno alle valute nazionali (e che finirebbe per azzerare i vantaggi di una svalutazione, non meno dell’attuale compressione salariale).
Ma che cosa potrebbe mai indurre a gestire la divisione in due dell’euro governi che non sono in grado, per cultura, interessi costituiti e prassi consolidate, di metterlo in salvo invertendo rotta di 360 gradi?
Abbiamo già visto all’opera la forza di inerzia di quell’establishment, che ha finito convincere anche persone come Fassina a votare e cercare di gestire scelte demenziali come il pareggio in bilancio.
Senza un conflitto per ridisegnare in modo aperto confini e strutture di governo dell’Europa quelle politiche non saranno mai in grado di autocorreggersi. Perché il demos di cui ha bisogno la democrazia non è quello che deriva dal condividere culture e storie nazionali, bensì quello che si sta costituendo nel conflitto che mette in gioco il futuro di tutti.
Invece di cercare di salvare gli assetti esistenti va messa all’ordine del giorno una nuova configurazione dell’Europa, capace di promuovere dal basso, anche al di là dei suoi confini geografici, coinvolgendo i migranti e le loro comunità di origine, e a partire dai movimenti già in atto e dalle città ribelli a cui si richiama Varoufakis, ciò che l’attuale governance europea non riesce né vuole promuovere dall’alto: una radicale conversione ecologica di tutto il tessuto sociale ed economico.