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Giuseppe Salvaggiuolo
La solitudine del ribelle
7 Gennaio 2010
Articoli del 2010
Storia esemplare di un paese dove vivere secondo le regole significa rovinarsi la vita: un imprenditore calabrese minacciato dall’ ‘ndrangheta. Da La Stampa, 7 gennaio 2010 (m.p.g.)

L’azienda «Saffioti calcestruzzi e movimento terra», alla periferia di Palmi sulla strada che porta a Gioia Tauro, è un bunker: cancelli blindati, muri in cemento armato, decine di telecamere, filo spinato come nelle caserme , un'auto fissa della Finanza. «Come a Guantanamo»: Gaetano Saffioti, 48 anni, gli ultimi otto vissuti sotto scorta per aver fatto arrestare 48 malavitosi della 'ndrangheta che lo taglieggiavano, non ha perso il senso dell'umorismo. Da quando ha denunciato il racket, praticamente non lavora più in Calabria, è riuscito a salvare l'azienda con le commesse all'estero. «Gaetano Saffioti, ovvero la storia di un uomo esemplare» è il capitolo della sentenza del processo nato dalle sue denunce.

«Sono nato cresciuto e pasciuto a Palmi. La mia famiglia aveva un frantoio. La 'ndrangheta l'ho conosciuta a 8 anni. Ero andato in una colonia estiva a Sant'Eufemia, in Aspromonte, riservata ai più bravi della classe. Ci tenevo da morire. Dopo due giorni fui richiamato a casa. Torna perché mi manchi, disse mio padre. Anni dopo ho saputo che era stato minacciato e temeva per me. Morto mio padre, la famiglia era diventata più debole: una donna sola con sei figli minorenni. Arrivavano telefonate e mia madre piangeva. Noi chiedevamo: chi è 'sta 'ndrangheta?».

Nel 1981 Saffioti apre la ditta. «Ero appassionato di mezzi per movimento terra. Prima zappavo con il trattore, poi ho noleggiato la prima autopala, quindi un cingolato, un paio di camioncini. Fatturavo 5 milioni e mezzo di lire. Comincio a lavorare per i privati. Nel 1992 aggiungo l'impianto di calcestruzzo e vinco le prime gare d'appalto pubbliche». E le cosche? «Sempre tra i piedi. Fin da quando raccoglievo le olive. A loro non sfugge niente: persino i professori di scuola pagano il pizzo, costretti a dare voti alti ai figli dei boss. Quando ho cominciato a lavorare, c'era il boom dell'abusivismo: tanto lavoro, i boss lasciavano le molliche e prendevano i grossi appalti. Ora non lasciano nemmeno le molliche».

«Si presentavano a tutte le ore, io preparavo i soldi e li consegnavo a pacchi da dieci milioni. Quando ne arrestavano uno, il giorno stesso si presentava un sostituto. Erano cordiali, sapevano prima di me che mi era arrivato un accredito in banca e venivano a riscuotere la percentuale, dal 3 al 15 per cento. Quando c'era un sequestro dei beni di un boss, automaticamente bisognava "risarcirlo" pagando il doppio. Per arrivare al cantiere al porto di Gioia Tauro dovevo attraversare i territori di tre famiglie. E pagavo per tre. Come i caselli autostradali. Compravo una cava di inerti per fare il calcestruzzo? Non me la facevano usare, imponevano di comprare il materiale da loro. Così per le macchine: le mie restavano ferme e noleggiavo le loro. Pagavo anche se non mi piaceva. Io glielo dicevo: non si può andare avanti così. E loro mi sfidavano: denuncia. Avevo paura: di essere ucciso ma anche di essere considerato un prestanome dei boss e arrestato. Quindi registravo tutto: gli incontri, i colloqui, i pagamenti. Una specie di polizza vita».

L'azienda cresce a ritmi vertiginosi: 20-30 per cento l'anno. E così le tangenti ai boss. Ma anche la frustrazione di Gaetano, anche perché nel frattempo gli attentati intimidatori non cessano. In uno di questi, l'incendio di un mezzo in pieno giorno, il fratello di Gaetano rischia di morire. È la svolta: Saffioti si presenta dal procuratore Roberto Pennisi e consegna tutte le registrazioni.

«All'alba del 25 gennaio 2002, all'arrivo in azienda trovo la Finanza: "Siamo qui per lei, se deve uscire l'accompagniamo noi". Finiva un incubo e ne cominciava un altro. Da allora sono sempre con me e con la mia famiglia. In pochi giorni persi tutte le commesse, 55 dei 60 operai. Il fatturato scese da 15 milioni a 500 mila euro, le banche mi chiudevano i conti attivi, i fornitori mi chiedevano fideiussioni oltre il terzo grado di parentela perché "tu sei un morto che cammina". Mia moglie piangeva. I clienti sparivano, nemmeno le confraternite venivano più a chiedermi i contributi per le feste patronali».

Saffioti, diventato testimone di giustizia, vivrà il resto della sua vita blindato. «Noi stasera non possiamo andare a cena, devo chiedere il permesso, bonificare il ristorante sempre che i proprietari mi vogliano, certi hotel mi respingono. Io ho rifiutato i soldi dello Stato: non sono un pentito. In Calabria non lavoro più, alle gare d'appalto arrivo sempre secondo. Le aziende che mi danno lavoro all'estero qui non mi parlano nemmeno per telefono: come gli amanti. Sopravvivo con i lavori in Spagna, in Francia (all'aeroporto di Parigi), in Romania. Ora sto lavorando a Dubailandia, il più grande parco giochi del mondo: una commessa da 55 milioni di euro battendo le multinazionali americane. Vorrei togliermi la soddisfazione di fare un chilometro della Salerno-Reggio Calabria, ma non mi è consentito. Ho offerto il materiale gratis ma non lo vogliono. In compenso i 48 che ho fatto arrestare, tutti condannati in primo grado, tra patteggiamenti e sconti di pena sono tutti liberi. E qualcuno lavora alla Salerno-Reggio. Però resto qui, anche se non cambia niente e io ho sacrificato la vita, perché io non sono solo condannato a morte, ma anche condannato a vita. Però mi basta sapere che mio figlio ventenne e sotto scorta, a cui ho rovinato la vita perché le ragazze gli dicono "tu sei figlio di un pentito", mi capisce. E qualche giorno fa mi ha detto: "Papà, prendiamo il lato buono, io rispetto ai miei coetanei non ho mai problemi a trovare parcheggio”».

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