«Mi sento di fare un appello affinché questa progettualità comune si concretizzi in forme di accoglienza semplici e minime, ma diffuse in tutto il Paese e molto solide, strutturate e coordinate. Una rete umana in cui ogni soggetto partecipante garantisce di superare le differenze e gli steccati».
La Repubblica, 25 settembre 2015 (m.p.r.)
Traditi da un mercante menzognero, vanno, oggetto di scherno allo straniero. Bestie da soma, dispregiati iloti. Carne da cimitero. Vanno a campar d’angoscia in lidi ignoti». De Amicis nel 1882 cantava così ne Gli emigranti le esistenze di coloro che a Genova facevano la fila per salire sulle navi in partenza per altre terre, per scappare lontano da casa. È certo utile tener presente la nostra storia nel momento in cui non passa giorno in cui i media snocciolino il loro drammatico bollettino sulla tragedia che ben conosciamo. Una moltitudine di persone cerca di varcare confini chiusi, s’imbarca e s’incammina in cerca di futuro, scappa da orrori tremendi, o semplicemente dalla fame. Già, anche la fame causata dal landgrabbing e dall’ingordigia neocolonialista e non soltanto le guerre e la ferocia cieca e idiota di certi fanatici. Perché non si possono fare distinzioni tra migranti, profughi, rifugiati e le cause che li spingono a fuggire. Ciò che si può fare è prendere atto che quest’onda di umanità disperata non si fermerà, si protrarrà per anni e cambierà profondamente la geopolitica europea, la composizione sociale di interi territori e città. Ma rendersi pienamente contro della situazione è ciò che si può fare come minimo, mentre in verità è giunto il momento di non limitarsi ad aprire gli occhi.
Si può fare di più. Una società civile matura deve essere capace di superare ogni ostacolo e appartenenza, deve saper compattarsi e reagire con forza, senza esitazione e senza distinguo. In Italia questo tipo di realtà di base esiste, il terreno è fertile, ma non può dare frutto se non è dissodato. Mi sento di fare un appello affinché questa progettualità comune si concretizzi in forme di accoglienza semplici e minime, ma diffuse in tutto il Paese e molto solide, strutturate e coordinate. Una rete umana in cui ogni soggetto partecipante garantisce di superare le differenze e gli steccati che lo separano dagli altri suoi componenti e quindi in qualche modo rinuncia a un pezzo della propria “sovranità” per condividere - con le altre associazioni, sindacati, parrocchie, comitati locali, partiti e chiunque lo voglia - la missione civile di dare tutta l’assistenza, l’aiuto e l’amicizia di cui ha bisogno chi arriva, disperato, impaurito, scosso, morto di fatica e distrutto nell’anima. Un’aggregazione dal basso che si faccia carico di creare le condizioni per realizzare quell’accoglienza che non può essere lasciata nelle mani di prefetti e sindaci proprio perché non passa solo da strutture e numeri ma richiede una comunità accogliente.
Nel piccolo l’associazione che rappresento, Slow Food insieme alla rete di Terra Madre, sta rispondendo a livello europeo, in particolare in Germania, Francia e Belgio. Perché se da un lato c’è un preoccupante stallo della politica, finora inadeguata, dall’altro c’è anche un diffuso senso di impotenza da parte di chi invece è motivato da un afflato solidale. Tante persone che, al contrario di chi è animato da intolleranza ignorante, vorrebbero fare qualcosa di utile e solidale ma non sanno come agire o a chi rivolgersi. È necessario, improrogabile, auspicabile creare situazioni di accoglienza stabili e durature, per stemperare gli attriti, offrire risposte, lavorare in direzione di un’integrazione civile e pacifica. Bisogna attivarsi.
Nel mio Piemonte, dove in un passato neanche tanto lontano fatto di migrazioni interne si leggeva sui portoni delle case “non si affitta ai meridionali”, sono già tanti gli esempi virtuosi. Associazioni, parrocchie che hanno risposto all’appello del Papa, comitati spontanei, semplici cittadini che si sono mossi, e bene. L’Arci, per esempio, si sta attivando con tenacia accanto alla Caritas attraverso uno straordinario impegno di volontari. Cito ancora, sempre a mo’ di esempio, soltanto il caso del Centro policulturale Baobab in via Cupa a Roma, che ha saputo mettere insieme tante diverse realtà, compreso il quartiere in cui si trova, per accogliere moltitudini di bambini che viaggiano soli e che devono raggiungere le loro famiglie già in Europa, riuscendo anche a coinvolgere i migranti nella gestione del centro stesso. Tanti pezzi di quella che si descrive come società civile si stanno mettendo insieme, in maniera magari disordinata ma spontanea e generosa.
Penso che da questo punto di vista, in considerazione anche della grande tradizione solidaristica della sinistra italiana, si possa ricostruire e far nascere, in un contesto straordinario, per così dire “interassociativo”, un nuovo soggetto che nobiliti la politica nella sua capacità di essere concreta quando è fatta e ispirata dal basso, dall’intraprendenza dei semplici cittadini.
C’è bisogno di concretezza assoluta, velocità nell’agire, totale apertura verso l’altro, vicino o lontano che sia. Dobbiamo affrontare un disastro? Una crisi? No. È il mondo che cambia, che sembra impazzire in fretta. È la nuova Grande Guerra in corso. Non siamo adeguati a rispondere costruttivamente, per come sono organizzate le nostre società. C’è bisogno di generare casi virtuosi che diventino regola, struttura, il definitivo attraversamento dei confini tra le persone dovuti alle ideologie annacquate e al rimbambimento generale e strategico che certi soggetti propugnano ogni giorno. E allora la crisi, la Grande Guerra sparsa per il mondo - come l’ha definita il Papa -, le emergenze, diventeranno subito occasione di riscatto per tutti. Per parafrasare De Amicis, dovremmo fare in modo che i “lidi non siano ignoti” e che non vi si “campi più d’angoscia”. Perché il sollievo che se ne guadagnerà, alla fine, non varrà soltanto per chi arriva, ma anche per gli “indigeni”, i quali hanno finalmente l’opportunità di dare un nuovo senso, o almeno un nuovo orizzonte politico, alle proprie vite.