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Ida Dominijanni
La sicurezza di Obama e quella di Bush
1 Giugno 2010
Articoli del 2010
Il commento, senza sconti, ma positivo dell’ultimo documento di politica internazionale di Obama: un altro mondo si affaccia. Da il manifesto, 1° giugno 2010 (m.p.g.)

E' certamente legittimo leggere il documento di Barack Obama sulla strategia di sicurezza nazionale americana come un'operazione di «cosmesi linguistica» priva di qualsiasi discontinuità reale rispetto all'era Bush, come autorevolmente ha fatto venerdì scorso su questo giornale Tariq Ali misurandola sulla parabola della guerra in Afghanistan e sulla questione israelo-palestinese. Ma è legittimo anche, spero, riconoscere al linguaggio una valenza non meramente cosmetica bensì performativa, e riconoscere nell'impianto culturale del testo di Obama una svolta di 180 gradi rispetto a quello omologo di Bush jr del 20 settembre 2002. Si sa del resto che rispetto all'operato di Obama sempre ci si divide fra il disincanto chi sta agli atti e l'incantamento di chi punta sulla sua visione del mondo; non stupisce dunque che sia così anche stavolta. Ma leggendo in sequenza i due testi, quello di George W. Bush e questo, è davvero difficile non rovesciare la diagnosi della continuità reale che permane sotto il maquillage di una discontinuità apparente in quella, opposta, di una discontinuità radicale che si afferma malgrado la continuità della guerra.

Fra i due testi, del resto, corre meno di un decennio che però vale un'epoca: la discontinuità è nei fatti prima che nelle idee, e l'ha scavata la storia prima che la politica. Il documento di George W.Bush uscì esattamente un anno dopo l'attacco alle Torri gemelle, quando già tutti gli osservatori e i pensatori più avvertiti del pianeta avevano saputo leggere in quell'evento il sintomo della configurazione del mondo globale e delle sue inedite ed esplosive contraddizioni; eppure, a distanza di dodici anni dalla caduta del Muro di Berlino, Bush poteva ancora consentirsi di giocare tutto l'armamentario ideologico della Guerra fredda e tutto il trionfalismo occidentale sulla fine della Guerra fredda per riconfermare arrogantemente la volontà di potenza degli Stati uniti come destino, un destino attaccato ma non intaccato dall'«incidente» dell'11 settembre.

Per Bush, l'ordine mondiale era ancora una creatura nelle mani della potenza americana, uscita trionfalmente vincente dal confronto col Nemico comunista; per ripristinare l'ordine dopo l'attacco di Al Quaeda, bastava ripristinare l'immaginario del Nemico, trasferendolo dal comunismo all'Islam e agli «stati canaglia» e spostando la linea del fronte dalla cortina di ferro al Medioriente. Di nuovo, e terribile, ci mise la dottrina della guerra preventiva e infinita, la prassi della sfigurazione della Costituzione all'interno e del diritto internazionale all'estero, la tortura, Guantanamo, le corti speciali e quant'altro. Era un'analisi completamente sbagliata, in primo luogo perché il nuovo nemico terrorista era reticolare e non statuale, virale e non territoriale, nasceva dall'interno e non dall'esterno dell'Occidente e dei suoi misfatti, e la trasposizione su di esso del vecchio Nemico della Guerra fredda era puramente fantasmatica; ma quell'analisi ebbe la sua nefasta presa sull'immaginario americano e mondiale, e diventò la base della teoria e della pratica dello «scontro di civiltà», corredato di un vessillo - l'esportazione con la forza all'estero dei valori democratici traditi all'interno - e di un corollario - il neoliberismo come braccio economico della guerra all'estero e della de-costituzionalizzazione all'interno.

Niente di questa devastante armatura ideologica sopravvive nel testo di Obama. Non la certezza della potenza come destino, ormai ridimensionata dall'emersione nel frattempo avvenuta delle potenze mondiali nuove, e sostituita dalla consapevolezza che la leadership americana va rifondata in un tempo «di transizione» e di cambiamemnto globale. Non l'arroganza neoliberista, nel frattempo sconfitta dalla «più grande recessione con cui ci siamo trovati a confrontarci dalla Grande depressione in poi». Non l'analisi del nemico, che non è più l'Islam ma «uno specifico network terrorista», e non ha più il volto fantasmatico dell'Altro ma «è tra noi, qui a casa». Non la dottrina nefasta della guerra preventiva e infinita, sostituita da quella della «guerra necessaria e giusta», nefasta anch'essa ma quantomeno meno dilagante, e consapevole che dalle ultime guerre l'America è stata «indurita» e indebolita.

Non lo sfregio della Costituzione, cui viene contrapposto il richiamo imperativo alla legalità. Non la crociata dell'esportazione della democrazia, perché «la nostra leadership morale deve basarsi sulla forza dell'esempio e non sull'imposizione del nostro sistema ad altri popoli». Non lo schema dello scontro di civiltà, perché la forza dell'America sta e resta nella miscela di colori e di culture che l'ha fatta crescere. E nemmeno, infine, quell'idea esclusivamente militare della sicurezza che faceva del testo di Bush la bandiera oscurantista di un paese assediato e senza speranza: per Obama, «sicurezza» vuol dire anche crescita sostenibile, investimento sul futuro, sulla conoscenza e sulle giovani generazioni, il nemico non è fatto solo di terroristi ma anche di armi atomiche, rischi ambientali, trappole tecnologiche. E' vero, la guerra in Afghanistan resta, e tanto più dopo i fatti di ieri il Medioriente si ripresenta come l'«hic Rhodus» di Obama. Ma non è poco quello che è cambiato.

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