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Silvia Truzzi e Stefano Rodotà
“La scissione ha le sue ragioni. Non si sta insieme per forza”
8 Marzo 2017
Sinistra
«Stefano Rodotà. Il professore parla del terremoto a sinistra: “La sconfitta al referendum è stato solo il detonatore. C’era una gestione chiusa del potere”».

il Fatto Quotidiano, 8 marzo 2017 (p.d.)

I tormenti della nostra sinistra, si sa, sono ciclici. Da giorni, sui giornali, grafici e tabelle ricordano tutte le trasformazioni (non solo nominali) dal lontano 1921 fino alla vagheggiata “cosa rosa”. Quali scosse agitano il maggior partito progressista dopo l’umiliazione delle urne di dicembre? Ne abbiamo parlato con Stefano Rodotà, che di quella sinistra è uno dei padri nobili.

Professore, nel Pd il problema è solo “Renzi il rottamatore”?
Renzi ci ha messo molto di suo per arroganza e scarsa considerazione degli altri: non il modo migliore per evitare le separazioni. Ha molte responsabilità ma non è questione di carattere, vorrei che fosse chiaro. Ha fatto una precisa scelta politica decidendo che i toni, i modi e i tempi di questa fase fossero quelli che abbiamo visto.
Che ruolo ha avuto il voto di dicembre nel terremoto a sinistra?
Senza il referendum e senza quel risultato non ci sarebbe stata la scissione. Ma è stato il fattore scatenante, esisteva già una situazione interna al partito completamente predisposta alle lacerazioni. Attorno al leader o presunto tale si è creato un circolo, mi riferisco a quello che viene chiamato il ‘Giglio Magico’, di gestione ristretta, ristrettissima, del potere. Il guaio non è solo Renzi rottamatore, ma una politica che tende a creare giri stretti, quindi escludenti. Un partito è un’entità plurale, dove chi dice ‘noi’ non usa il plurale maiestatis ma parla per una comunità di persone.

Ora si dice: un segretario-premier troppo di destra, un corpo estraneo, si è preso il Pd. Ma che Renzi avesse certe posizioni era chiaro da tempo: basta pensare al Jobs act.
Su questo non c’è dubbio. A chi tardivamente scopre che Renzi non è di sinistra si può solo chiedere, ‘ma dov’eri tu?’. Mi paiono tentativi di autoassoluzione: in che partito sono vissuti quelli che ora si stupiscono? Cosa hanno votato su Jobs act, Italicum, riforma della Costituzione?
Romano Prodi ha detto “dividersi è un suicidio”. È d'accordo?
No, per nulla. Stare insieme a ogni costo è opportuno? Mi pare evidente che non c’è un confronto politico tra i vari soggetti che sia sufficiente a stare insieme. Ma attenzione: separarsi ha senso se la scelta risulta comprensibile, cioè se non appare alla comunità di riferimento una scelta dettata da interessi personali o di corrente. Detto ciò, rimanere insieme senza ragioni condivise mi pare poco sensato.

Basta riproporre la formula della coalizione ulivista?
Ora come ora non si può riproporre meccanicamente proprio nulla. La situazione è cambiata, ci sono altri protagonisti. Sembra una banalità, ma pensiamo alle questioni all’ordine del giorno, per esempio al tema, cruciale, del lavoro. Su questo mi faccia dire una cosa: da giorni Susanna Camusso ha chiesto al governo quando intende fissare la data per i referendum, senza ottenere risposta. Ma questa non è una questione che riguarda il rapporto tra Paolo Gentiloni e Susanna Camusso, riguarda tutti noi. Io voglio sapere cosa intende fare l’esecutivo.
Tutti parlano della necessità di stare uniti in chiave difensiva, contro i cosiddetti populismi. Il presupposto non è dei migliori.
Se si assume un atteggiamento spaventato e difensivo, i Cinque Stelle probabilmente otterranno ancora più consensi. Il punto è interrogarsi sulle ragioni di questi flussi elettorali, quali sono le urgenze e le necessità dei cittadini. Considerare drammaticamente la vittoria dei ‘populismi ’ non è una soluzione politica. Mi pare sia già stata dimenticata l’esperienza di dicembre. È inutile parlare di populismo quando le indicazioni del popolo vengono sistematicamente ignorate. In questo momento i cittadini stanno dicendo di voler essere ‘popolo legislatore’, ma nessuno li ascolta. Sul tema lavoro ci è toccato sentire il ministro Poletti dire che piuttosto di fare il referendum si potevano sciogliere le Camere: questa non può essere la risposta di un ministro.

Come vede il ritorno al proporzionale?
Bene, perché sono proporzionalista da sempre! Se guardo al passato penso che il proporzionalismo ha consentito in momenti difficili – per esempio negli anni Settanta – a gruppi extraparlamentari di avere una scelta rispetto ad altri modi di agire, per esempio alla lotta armata: cioè andare in Parlamento. Oggi il quadro è naturalmente diverso, ma io reputo che sia ugualmente essenziale dare voce e rappresentanza a chi in un sistema maggioritario non ne avrebbe: questo richiede una legge elettorale che non si carichi solo del problema della governabilità. Un buon esempio è la legge tedesca. Nel formulare la nuova legge bisogna che, più di tutto, sia chiaro ai cittadini che nulla viene fatto per limitare il loro potere di esprimersi e il loro diritto di essere rappresentati. Questo sarebbe tragico. Ora bisogna anche dire che non si può tergiversare più di tanto: la richiesta dei cittadini è andare a votare.
Gentiloni ha detto chiaramente che la legislatura arriverà al 2018.
Il presidente del Consiglio fa bene a dire fino a che punto vuole arrivare. Si assume così due responsabilità, la prima delle quali rispetto alle pressioni che ci sono per anticipare le elezioni. Ma soprattutto dovrà dire che cosa vuole fare, perché vuole arrivare a fine legislatura.

Renzi, Orlando, Emiliano: come andrà a finire e per chi tifa?
Sono sempre pessimo nei pronostici... Fino ad ora si dovrebbe dire che Renzi ha più carte in mano. Però i due sfidanti stanno fornendo, in modo molto diverso, risposte diverse da quelle puramente oppositive all’aggressività renziana. Cercano soluzioni politiche, e questa è una buona cosa.

Possiamo definire sconfitto un leader che ha perso malissimo il referendum, le cui politiche del lavoro hanno fallito, che si è visto bocciare dalla Consulta la legge elettorale su cui per tre volte ha posto la fiducia?
Certo che sì. L’unico momento di sincerità che abbiamo visto è stato quando Renzi si è dimesso da premier. Ma come ha ricordato lei, è stato battuto praticamente su tutta la linea: questo sfata un mito, dimostrando che non ha leadership.
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