«International Earth Day. Da Silicon Valley alle università californiane, centinaia di migliaia in piazza contro il "maccartismo climatico"». il manifesto, 23 aprile 2017 (c.m.c.)
«Una nazione che distrugge le proprie terre distrugge se stessa. Le foreste sono i polmoni della nostra terra, purificatrici dell’aria e fonte di forza per la nostra gente». Sul sito della associazione Earth Day della California campeggia questa frase di Franklin Roosevelt, quasi a dare una ulteriore misura di quanto sia rimossa questa America etnonazionalista, populista e oligarchica da quella che all’inizio del secolo scorso costruì lo Stato sociale.
Prima ancora un altro Roosevelt – il cugino guerrafondaio Teddy – era stato paladino dei parchi nazionali, tutelando quasi un milione di km quadrati di territorio federale. Il movimento «conservazionista» era nato qualche anno prima, soprattutto nella California esplorata da John Muir, padrino dei parchi della Sierra Nevada e di Yosemite.
Il naturalista scozzese veicolava la riverenza per la natura precedentemente espresso da Thoreau e Walt Whitman, un misticismo contemplativo in perenne tensione, nella storia americana, con l’impulso opposto a sottomettere la natura al «destino manifesto» dello sviluppo e del capitale. Dal lavoro californiano di Muir discende il moderno movimento ambientalista che dai conservatori del Sierra Club si evolverà alla moderna militanza di Greenpeace e agli eco-guastatori di Earth First con le loro azioni contro le dighe e a favore delle antiche foreste dell’Ovest.
La prima mobilitazione della Giornata della Terra avviene attorno ad una perdita di petrolio da una piattaforma nella baia di Santa Barbara. Culla del ambientalismo moderno la California ha tradotto 50 anni di istanze «verdi» in normative ambientali e politiche energetiche all’avanguardia che oggi mettono lo Stato in antitetica controtendenza rispetto alla rottamazione ambientale del governo Trump.
Dal polo solare, eolico e high tech californiano dove fioriscono new company come la Tesla e dove perfino Marchionne è tenuto, controvoglia, a commercializzare Fiat 500 elettriche, l’azzeramento delle norme di consumo sulle auto di Detroit e il «ritorno al carbone» continuamente perorato da Trump appaiono ancora più paradossali. Un atto, tra l’altro, di volontario autolesionismo economico che cede il primato tecnico scientifico ancorato in gran parte proprio qui.
Non sorprendono dunque le dichiarazioni del governatore Jerry Brown, reduce personale delle prime battaglie ambientaliste di 40 anni fa: «Qualunque cosa facciano a Washington, non possono cambiare i fatti… la scienza parla chiaro». Un attacco esplicito al tentativo «di costruire un universo alternativo basato su non-fatti di nostro gradimento. La California – ha assicurato Brown, che gode di ampio consenso elettorale – non tornerà indietro. Né ora né mai!».
Al di là della minaccia retrograda al complesso ambientale-industriale supportato dalla grande rete scientifico-universitaria del suo Stato, Brown ha inquadrato la natura epistemologica dello scontro politico in atto. Il neo oscurantismo trumpista vuole ampliare l’offuscamento già operato dalle fake news alla confutazione dell’indagine scientifica se questa non serve agli interessi industriali.
E la resistenza, col movimento ambientalista in prima linea, si trova oggi a dover difendere la natura stessa dei fatti e le fondamenta della conoscenza. Fra le motivazioni delle centinaia di marce per la scienza di ieri c’era quindi la resistenza al negazionismo climatico, al creazionismo e all’antivaccinismo dilganti con l’appoggio implicito ed esplicito di un potere esecutivo che ha elevato ignoranza e l’approssimazione a valori politici. Una resistenza ontologica al tempo delle bufale.
Le ragioni alla base delle marce per la scienza hanno suscitato molto dibattito. C’è stata, diffusa, la preoccupazione di cadere nella trappola della parte che da sempre cerca di dipingere scienza, educazione, ambientalismo come «ideologie politiche» per elevare simultaneamente oscurantismo e integralismo a legittima «opposizione», meritoria di par condicio. Alla fine è prevalso il consenso sull’urgenza di farsi contare pubblicamente come scienziati nel momento in cui il governo americano sferra un attacco senza precedenti contro la scienza e l’ambiente.
Un attacco che comprende la nomina a direttore dell’Epa (l’agenzia federale per l’ambiente) di Scott Pruitt, un avvocato di petrolieri che da attorney general dell’Oklahoma aveva copia-incollato su carta intestata un comunicato della Devon Energy per denunciare i tentativi della stessa Epa di limitare le emissioni nel suo Stato.
Pruitt ha ripetutamente citato in tribunale la stessa agenzia che ora dirige e intende rottamare. Appena assurto alla direzione ha intimato ai 15.000 scienziati Epa di cessare ogni iniziativa contro il mutamento climatico. Il «maccartismo climatico» dell’amministrazione Trump è tale che brigate di hacker operano oggi per copiare e salvaguardare i dati delle agenzie ambientali prima che i nuovi dirigenti le possano cancellare. Intanto i trumpisti annullano i satelliti per i rilevamenti di Noaa e Nasa.
La scienza è quindi di fatto diventata l’oggetto di una contesa politica a cui le centinaia di migliaia di partecipanti ai cortei hanno valutato di non potersi sottrarre.
Così ieri sono scesi in piazza tecnici, professori, ricercatori e scienziati, hanno lasciato per un giorno i laboratori di Caltech, Berkeley, Jpl, Salk institute, Scripps e da migliaia di altri in tutta America e scesi in prima linea contro l’involuzione autarchica, antitetica alla curiosità e all’intelligenza scientifica che rappresenta oggi una minaccia senza precedenti al nostro pianeta.