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La satira e il bavaglio della politica
21 Aprile 2009
Articoli del 2009
Umberto Eco, Filippo Ceccarelli, Simonetta Fiori, Plantu e Luciano Canfora commentano uno degli aspetti del regime vigente. La Repubblica, 21 aprile 2009

Satira

di Umberto Eco

Da un po’ di tempo tutto quello che accade in Italia, e che crea subbuglio e inquietudine, è dovuto ai comici, alle molte vignette. Vi ricordate il tempo in cui i mali d’Italia erano denunciati dall’Espresso (capitale corrotta, nazione infetta), dall’opposizione , dalla magistratura? Finito. Che cosa accada in parlamento non interessa più nessuno (Berlusconi dice che non vale la pena di andarci per ripetere cose che sanno tutti). È sano un paese dove solo i comici danno il via alle polemiche, al dibattito, senza ovviamente poter suggerire le soluzioni?

Ma, a ripensarci bene, questo non è dovuto al fatto che i comici stanno andando al parlamento, bensì al fatto che il governo è caduto in mano ai comici, o che molti che in altri tempi sarebbero stati figure da avanspettacolo sono andati al governo.

Chi decide se i comici passano il limite?

di Filippo Ceccarelli

Dopo il caso delle vignette di Vauro si riapre la discussione sui confini di questa arte antica e sul suo rapporto contrastato con il potere politico. «Satira è un piangere antico» proclamava Gaio Fratini, sommo epigrammista. Satira, insisteva, è credere all’arte «come esplosione, rovesciamento, irrisione. Satira è saper correre i cento metri sotto i nove secondi».

Ecco: nel tempo delle vignette proibite, forse è bene che tocchi proprio a un artista della parola, a un poeta, ricordare che questo scatto fulmineo, questa emozione dolorosa e questo potere dissacrante hanno tuttavia un prezzo: la censura, appunto, che della satira certifica il valore al di là di qualunque conseguenza.

E quindi al di là di pressioni, divieti, denunce, oscuramenti, addomesticamenti, soppressioni, emarginazioni, condanne, multe, anche galera, a volte. Tanto più netta e variegata la censura, quanto più ambigua la nozione di satira. E tuttavia, è la minacciata punizione che forgia la creazione satirica e ne alza il livello, e gli dà spessore.

«Alla Rai non esistono organi né attività di carattere censorio»: così, nel 1974, l’allora direttore generale Ettore Bernabei rispose a una pubblica lettera di Alberto Moravia. Non era tanto vero, essendo i dispositivi dissuasivi ieri e oggi in uso a viale Mazzini un po’ più complessi. Eppure colpisce, a distanza di oltre trent’anni, la serena risolutezza disciplinare con cui l’altro giorno l’odierno direttore generale Masi, nel suo primo atto pubblico, ha comunicato a Vauro la sospensione da Annozero.

Di solito i censori non sanno di esserlo, oppure riconoscono il loro ruolo dopo molto tempo; in genere quando è troppo tardi – ammesso che il potere stia lì a controllare l’orologio. Nel 1962 Bernabei bloccò uno sketch di Dario Fo e Franca Rame che a Canzonissima avevano messo in scena – c’era un padrone molto ricco e volgare e la sua vistosa amante impellicciata – la questione degli omicidi sul lavoro. C’erano appena stati dei violenti scontri a Roma tra polizia e lavoratori edili: «Non so se debba chiamarsi censura, del resto io non ho paura delle parole – ha poi ricordato Bernabei – Sì, censurai Dario Fo, non volevo fargli usare la tv per mettere le parti sociali una contro l’altra. Non me ne sono pentito per niente e se tornassi indietro lo censurerei un’altra volta».

Nel caso di Dario Fo, che negli anni a venire ebbe grane anche più serie – intimidazioni fasciste, questori che vietavano gli spettacoli con tanto di poliziotti in sala – molto porta a ritenere che esista una qualche correlazione tra i diversi sbarramenti della censura e successivo trionfo del premio Nobel.

Lo stesso Roberto Benigni, che pure a fatica si può designare autore satirico, ebbe i suoi guai e le sue purghe Rai. Quando all’Altra domenica, per dire, cantò l’Inno del corpo sciolto; e poi nel 1980, a Sanremo, per quel "Wojtylaccio" che gli costò addirittura un’incriminazione, oltre che la messa al bando dal video. E anche per Benigni è possibile che biasimo e controlli abbiano a loro modo affinato l’arte e quindi favorito il successo.

Ora, non si vuole dire che in futuro Vauro sarà studiato nelle scuole e nelle università. Non è obbligatorio farsi piacere la satira. Occorre piuttosto togliersi di mente l’equivoco che debba necessariamente far ridere, perché a volte deve far piangere, e comunque la satira più riuscita, la più tagliente e mordace e corrosiva, è quella che fa scoppiare di rabbia. E se è certo che prima o poi tutti i grandi e veri artisti, da Totò a Sordi passando per Eduardo, sono dovuti passare sotto il giogo della censura, altrettanto sicuro è che da questa prova sono usciti migliori perché le difficoltà frapposte dai censori – ottusi bacchettoni o autentici difensori del sacro che fossero – non solo aguzzano l’ingegno, ma lo purificano anche, rendendo la libertà più sacra della paura.

Fare satira senza rischi e senza sanzioni è troppo comodo, è uno spreco, una furbata che si accartoccia su se stessa. Ma siccome questo accade di rado, va a finire che le vittime non si contano. Per una caricatura di Carletto Manzoni, che sul Candido aveva ritratto il presidente della Repubblica Einaudi mentre passava in rassegna le bottiglie del vino da lui prodotto, Giovannino Guareschi (già condannato per certi falsi scritti di De Gasperi) finì in prigione. Alla Rai Vianello e Tognazzi ebbero diverse grane per aver fatto indignare Gronchi; Alighiero Noschese fu a lungo sorvegliato speciale; Beppe Grillo pagò cara una barzelletta sui socialisti craxiani; e sempre per una vignetta, nel 1999, Forattini si vide chiedere tre miliardi di lire dal presidente del Consiglio D’Alema.

Tra costi e benefici, sbarramenti ed equivoci, blasfemia e autoritarismi, la faccenda ha tutta l’aria di essere cominciata qualche millennio fa; e per uno di quei formidabili cortocircuiti che a volte la cronaca offre su un piatto d’argento nel 2002 accadde che al festival dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa Luca Ronconi avesse messo in scena Le rane di Aristofane arricchendo il fondale della scenografia con i ritratti di Berlusconi, Fini e Bossi, oltre a uno dei loro slogan nell’ultima campagna elettorale "La forza di un sogno". Bene: apriti cielo, insorse il sottosegretario Micciché, si vergogni il regista, disse, via quei personaggi! La questione venne poi risolta, pare su indicazione di Veronica Lario (che ha lavorato con Ronconi), grazie a un comunicato di Berlusconi che inneggiava alla libertà dell’arte, proclamava di «non sapere neanche cosa sia la censura» dichiarandosi addirittura preoccupato dell’«autocensura a dispetto».

Sono dichiarazioni da tenere a mente, sia pure con il dovuto scetticismo perché il potere è pur sempre soggetto alla tentazione di fare il suo oppressivo mestiere; e il colmo dei colmi è che a volte lo fa pure meglio in presenza di un automatico, gratuito e ridanciano cupio dissolvi.

Quella sottile autocensura

di Jean Plantureux, vignettista di "Le Monde"

Vignettista del giornale Le Monde dal 1972, Jean Plantureux - in arte "Plantu" - applica nel suo lavoro il principio della "autocensura". «Mi muovo su una sottile linea rossa, ho imparato a flirtare con il politicamente scorretto senza sposarlo sempre e comunque».

Cosa significa "autocensura"?

«Non esistono regole universali. Esiste un comune senso di responsabilità, che i vignettisti devono tutti avere, ma poi la concezione dell’ironia resta propria di ogni cultura, paese. In Algeria c’è per esempio un fantastico disegnatore, Dilem, che scherza sulle stragi terroristiche e sui morti sgozzati dagli integralisti islamici. Io non potrei mai farlo».

Non è così che, lentamente, si comincia a frenare la critica?

«Ciò che frena la critica e la polemica è piuttosto la dittatura della "fifa", la paura che domina la nostra epoca. Le faccio un esempio. A Parigi è stato appena censurato il manifesto sull’ultima retrospettiva dedicata a Jacques Tati. Nell’immagine si vedeva il suo mitico personaggio, Monsieur Hulot, con in bocca l’inseparabile pipa. I benpensanti si sono opposti».

Se ci fosse stato un terremoto in Francia cosa avrebbe disegnato su Le Monde?

«Nei primi giorni, probabilmente non mi sarei permesso di mischiare tragedia e ironia. Nel 2001, quando c’è stato l’11 settembre, per quindici giorni ho disegnato solo personaggi che piangevano. Al quindicesimo giorno ho pubblicato la mia prima vignetta polemica, per dire che erano stati gli americani ad armare i Taliban».

Subisce molte pressioni o censure nel suo lavoro?

«L’ultima volta mi è successo un mese fa, quando ho disegnato il Cristo dopo la "moltiplicazione dei preservativi", anziché dei pani, assieme al Papa ovviamente critico e al cardinale Williamson che diceva: "Tanto l’Aids non è mai esistito". In redazione, sono arrivate le rimostranze del Vaticano, ma anche da lettori italiani e da associazioni americane».

Una telefonata di Sarkozy l’ha mai ricevuta?

«Il presidente mi ha scritto qualche volta per protestare. Ma quasi sempre si rivolge al direttore e il caporedattore del giornale che, per fortuna coprono e difendono il mio lavoro. A me direttamente ha detto che non gli piaceva essere raffigurato con delle piccole mosche che svolazzano sopra alla sua testa».

E perché ci sono degli insetti sopra alla testa di Sarkozy?

«Perché ha detto di voler parlare con la "pancia". Quando hai le trippe di fuori, basta un po’ di sole per far svolazzare le mosche. Ma non dico che Sarkozy abbia sbagliato a chiamare: è un suo diritto. L’importante è non farsi influenzare. Anche Carla Bruni ha chiamato il direttore dell’Express per lamentarsi di una delle mie vignette».

Quale?

«Una vignetta in difesa di Siné, un disegnatore licenziato da Charlie Hebdo per antisemitismo. Christophe Barbier (il direttore dell’Express, ndr.) ha risposto che io posso fare quel che voglio. Che tra l’altro non è corretto perché io rispetto appunto l’autocensura».

E dov’è che si ferma?

«Le faccio un esempio. Due settimane fa, quando ho visto alla tv Berlusconi che faceva aspettare la Merkel, ho cominciato a lavorarci sopra. Nella notte c’è stato il terribile terremoto in Abruzzo e allora mi sono vietato di divertirmi con il primo ministro italiano. Ma come dicevo prima è una questione culturale peculiare a ogni paese. I disegni di Vauro sul terremoto non mi sono sembrati affatto scioccanti. Anzi, ci tengo a dire che lo sostengo e lo abbraccio».

Il potente è permaloso

Intervista di Simonetta Fiori

allo storico Luciano Canfora

«Nell’età d’oro della democrazia ateniese, oltre duemilaquattrocento anni fa, nella censura incappò anche Aristofane, il massimo comico dell’epoca. Il controllo è connaturato al potere, passa attraverso i suoi mille travestimenti, e non ne sono immuni le repubbliche di Atene e Roma». Neppure l’ironia sferzante del più grande rappresentante della commedia antica riuscì a sfuggire all’ira di Cleone, però Aristofane si vendicò scrivendo un’opera contro il suo persecutore. «La storia della censura comincia in età classica e attraversa i secoli, segnando i regimi autoritari, ma anche le democrazie di ispirazione liberale», dice Luciano Canfora, antichista con passione per l’età contemporanea, autore di innumerevoli saggi su libertà e politica, il più recente La natura del potere appena uscito da Laterza.

Anche le democrazie temono la satira fino a censurarla?

«Sì. Se torniamo indietro alla democrazia ateniese, incappiamo nelle primissime forme di censura. E le troviamo proprio a teatro, là dove impropriamente si ritiene che regnasse la libertà più totale. Si è indotti a questo errore dall’abitudine praticata sulla scena di lasciarsi andare all’ingiuria più imbarazzante. Invece proprio sul teatro comico - ancor più che sulla produzione tragica - veniva esercitato un controllo preventivo».

Esisteva una precisa procedura?

«Nel teatro attico, in occasioni delle celebrazioni lenee o delle feste dionisie, l’arconte re o l’arconte eponimo - le due cariche preposte alla censura - dovevano ispezionare il canovaccio della commedia, prima di concedere il "coro", così si chiamava l’autorizzazione. Anche i grandi tragici - Eschilo, Sofocle, Euripide - si sottoponevano al rituale. Naturalmente c’era sempre la possibilità di eludere la censura con la battuta improvvisata sulla scena».

Senza conseguenze?

«Non proprio. Una volta un Aristofane ventiquattrenne - era il 426 a. C. - mise in scena I Babilonesi, un’opera di denuncia contro l’impero ateniese accusato di opprimere i suoi alleati. Tra gli spettatori c’erano anche molti stranieri. Così il commediografo fu portato davanti al consiglio della città con l’accusa di aver procurato danno al demo ateniese. Aristofane ne parla negli Acarnesi. Cleone, demagogo fazioso, lo strapazzò pubblicamente, esercitando un potere di intimidazione non meno micidiale della censura».

Roma non godette di maggiore liberalità.

«La situazione notevolmente peggiorò. Nel De Repubblica, a proposito degli attacchi di cui era stato bersaglio Pericle, Cicerone scrisse che a Roma quelle critiche non avrebbero mai potuto avere cittadinanza. Nevio che attacca gli Scipioni? Inimmaginabile».

La censura della satira non è un tratto esclusivo dei regimi autoritari.

«Negli anni Venti, nell’Unione Sovietica, furono sottoposti a censura scrittori satirici come Bulgakov e Zoscenko. Ma esiste anche una tradizione censoria di segno schiettamente democratico. Per un lungo periodo, il futuro premio Nobel Dario Fo insieme a Franca Rame fu tenuto distante dalla Tv di Stato». La censura in un’età che promette la massima libertà di parola: non c’è un aspetto paradossale?

«È un problema di difficile soluzione. Scatenarsi oggi per una vignetta mi sembra demenziale. A Mosca, negli anni Cinquanta, usciva un giornale umoristico intitolato Krokodil. Un funzionario politico provvedeva non solo a controllare le vignette, ma anche a spiegarle: sotto il disegno, compariva la didascalia con l’interpretazione. Forse potrebbe essere un modello per i nostri potenti».

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