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Vincenzo Nigro
La rotta dei disperati
17 Maggio 2017
2015-EsodoXXI
«Il Paese africano è una tappa obbligata per chi dalla Libia vuole arrivare in Europa. Ma deve prima subire torture e minacce di trafficanti e criminali».
«Il Paese africano è una tappa obbligata per chi dalla Libia vuole arrivare in Europa. Ma deve prima subire torture e minacce di trafficanti e criminali».

la Repubblica, 17 maggio 2017

Per chi vuole entrare in Libia, per provare a saltare in Europa, il Niger è tutto. È la porta d’ingresso, la rotta di avvicinamento. Ma è anche la via di fuga, il percorso da fare in retromarcia per fuggire al mattatoio. Seny Condjira e Demba Djack ci hanno provato. Sono partiti dal Senegal, sono passati qui in Niger, sono entrati in Libia, hanno provato ad arrivare in Europa. Ma hanno fallito: sono stati torturati, picchiati, hanno assistito a tutto quello che succede da quelle parti. E hanno deciso che non era possibile, che dalla Libia bisognava soltanto fuggire, rientrare in Niger per tornare a casa.

Alla stazione di Niamey dei bus della “Sahelienne”, la compagnia che collega le capitali dell’Africa occidentale, i racconti dei migranti in ritirata dalla Libia sono terrificanti. Nelle foto sui telefonini ti fanno vedere i segni delle torture, i corpi martoriati e mutilati, due decapitati, decine di corpi bruciati non si capisce bene in quale occasione. Seny era partito quasi un anno fa. «Mio cugino è già in Italia, mi ha detto che da voi è assolutamente meglio della povertà assoluta che c’è qui».

Anche Demba ha provato a passare da Sebha e Tripoli per arrivare in Europa. «Vengo dalla regione di Matan, nell’interno del Senegal. Anche io ho visto le torture e la schiavitù in Libia. E sono fuggito». Ma perché questa violenza bestiale? «Adesso ti spiego come funziona in Libia», dice Seny che ha 34 anni e viene dalla regione di St.Louis. «Avevo iniziato il mio viaggio quasi un anno fa: dal Senegal al Mali tutto bene, noi con la carta di identità possiamo viaggiare nei paesi della Comunità dell’Africa occidentale. Poi dal Mali si passava in Burkina Faso, e lì i primi problemi: i poliziotti provano a rapinarti, a prenderti tutto quello che hai, e se non paghi rimani fermo alle stazioni per ore, per giorni. Per cui tu paghi. Siamo arrivati a Niamey, poi ad Agadez, prima di partire per il deserto e la Libia.

Ad Agadez ci attendevano i trafficanti, per giorni siamo rimasti nei ghettos organizzati per noi migranti: si sono fatti pagare e ci hanno assicurato il passaggio in Libia, in 30 su un pick-up Toyota. Il viaggio a noi è andato bene, in tre giorni siamo arrivati prima a Gatrun e poi a Sebha in Libia. Ma lì è l’autista ha detto che il trafficante non aveva pagato per noi, e che quindi doveva venderci, ci doveva portare dove c’erano gli altri migranti. Era una grande piazza, con intorno dei garage, un mercato degli schiavi».

«Noi africani venivamo comprati e venduti da arabi, da libici, che lavorano con la manovalanza di “caporali” nigeriani e ghanesi. Mi hanno venduto e trasferito in una prigione, una grande casa privata con altre 200 persone. Lì è iniziato il terrore: i carcerieri ci picchiavano, ci tagliavano con i machete, alcuni li hanno uccisi davanti agli altri. Perché? Ma perché tutti dovevamo essere terrorizzati e poi telefonare a casa per chiedere soldi, 300, 400 o 500 dollari per essere rimessi in libertà. Quando chiamavamo le nostre famiglie loro ci picchiavano per farci urlare, per terrorizzare i nostri parenti». Seny spiega bene come gli schiavisti libici ordinino ai migranti di chiedere soldi alle famiglie, chiedono di mandare i soldi con money transfer a loro complici in Ghana o in Guinea, così possono incassare senza farli passare dalla Libia.

Demba racconta che durante la prigionia molti ogni mattino venivano caricati per andare a lavorare nei campi, a costruire o riparare edifici, a fare qualsiasi tipo di lavoro fosse utile ai padroni. «Io sono riuscito ad avere un po’ di soldi dalla mia famiglia», dice Seny, «e a migliorare la mia posizione. Poi ho lavorato per loro come traduttore, perché molti di noi non parlavano nessuna lingua, in Libia il francese che parliamo noi non serve. In un modo o nell’altro, sono riuscito a comprami un viaggio per ritornare in Niger, e l’Oim ( l’Organizzazione internazionale per le migrazioni, ndr) mi ha aiutato a tornare in Senegal».

Demba era arrivato fino a Tripoli, dove per settimane è passato da una fattoria-prigione all’altra. È riuscito a sopravvivere, e non sa ancora bene come sia riuscito a rientrare in Niger in rotta per il Senegal. «A Tripoli eravamo in condizioni micidiali. Un libico si è impietosito per uno di noi, lo ha portato in ospedale, ma in ospedale non c’era nulla. È stato fortunato perché un infermiere ha messo un post su Facebook e gli uomini dell’Oim sono andati ad aiutarlo, lo hanno curato e lo hanno rimesso in rotta per il Sud, io l’ho seguito».

I rapitori libici lavorano su grandi numeri: «Fanno fare decine e decine di telefonate, e trovano famiglie che corrono a vendersi la casa, le vacche, un pezzetto di terra pur di trovare i dollari chiesti come riscatto. In Libia è il caos totale, non c’è legge, è la perversione assoluta ». Giuseppe Loprete, il capo dell’Oim in Niger, dice che neppure questi racconti di vero terrore bastano a fermare quelli che dal Niger sono ancora in rotta verso il Nord, verso la Libia, sognando l’Europa: «Da mesi raccontiamo che il viaggio è un incubo, che possono morire in mare, che possono essere torturati e uccisi dai trafficanti.

Da qualche settimana abbiamo iniziato a far incontrare chi sale verso il Nord con chi fugge dagli schiavisti: soltanto i racconti di chi abbandona i campi di concentramento dei trafficanti ogni tanto convincono qualcuno a tornare indietro».

Seny e Demba spiegano però qualcosa di decisivo per capire la disperazione che sale dall’Africa: «Quando un anno fa abbiamo deciso di partire abbiamo mobilitato le famiglie, abbiamo chiesto soldi, abbiamo venduto animali, abbiamo dato una speranza ai nostri cari, abbiamo detto loro che avremmo mandato indietro soldi dall’Europa. Ecco, adesso tornare indietro è ammettere il fallimento, è confessare che i soldi richiesti sono stati perduti. Bruciati! Noi non si sa come siamo riusciti a fuggire dopo quello che abbiamo visto. Tanti non ci provano neppure, perché morire in Libia o in mare è meno grave di tornare indietro. Morire in Libia per tanti è meglio che rivedere una famiglia che non ti perdonerà di avere fallito».

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