Ciò che colpisce di più, in questa lettura desolatamente obsoleta di alcuni processi sociali in corso, è la sostanziale assenza delle discipline territoriali, o almeno di un punto di vista vagamente interdisciplinare, come il tema meriterebbe. La Repubblica, 7 ottobre 2014, postilla (f.b.)
L’esodo dalle città verso la provincia non è un fenomeno solo italiano. Riflette il deterioramento della qualità della vita e dell’ambiente soprattutto nelle periferie urbane. Dove si addensano i flussi migratori. Dove, al tempo stesso, il sistema residenziale e il paesaggio si sono degradati. Così, quelli che possono, se ne vanno. Per echeggiare il linguaggio dell’ecologia sociale: “evadono” dalle città e si “rifugiano” nei paesi più piccoli. Possibilmente, non lontano dai centri urbani, perché, comunque, le città restano il principale luogo di offerta di servizi. L’Italia, d’altronde, è un Paese di compaesani (come ha osservato il sociologo Paolo Segatti). La “provincia”, il mondo dei piccoli paesi e delle piccole città, d’altronde, è, ancora, fonte di soddisfazione, personale e sociale. Anzitutto, perché offre una rete di relazioni più fitta.
Tra coloro che risiedono in comuni con meno di 10 mila abitanti, 7 persone su 10 affermano di avere legami e conoscenze con i vicini di casa. Oltre i 30 mila abitanti, la quota scende a poco più del 50% e negli agglomerati metropolitani, con più di 500 mila abitanti, al 40% (Indagini Demos). Di conseguenza, al crescere della dimensione urbana cresce anche il senso di solitudine. Che affligge il 26% di coloro che vivono nelle metropoli, ma solo il 18% nelle località più piccole. Nei piccoli centri, inoltre, risultano più elevate la soddisfazione economica e la fiducia nel futuro. Perché stare in mezzo agli altri, considerarsi parte di una “comunità”, abbassa il sentimento di vulnerabilità sociale. Proprio la provincia italiana, soprattutto nel Centro-Nord, peraltro, negli ultimi trent’anni, ha espresso il maggior grado di crescita economica, grazie allo sviluppo della piccola e piccolissima impresa, sostenuta dal ruolo della famiglia e dell’associazionismo. E dall’importanza del lavoro come valore. Anche per questo, la “provincia italiana” è divenuta, in effetti, “capitale”. Del benessere sociale e dello sviluppo economico. Tuttavia, i vantaggi del piccolo mondo locale, negli ultimi anni, si sono ridimensionati. Mentre emergono problemi, sempre più evidenti.
Anzitutto, l’ambiente e il paesaggio si stanno degradando. Lo sviluppo economico impetuoso del passato recente oggi è in declino. Ma ha ridotto molte aree di provincia in agglomerati di aziende e capannoni. Altrove, in micro- quartieri dormitorio. La diffusione urbanistica, spesso, è avvenuta senza regole. All’italiana. Così, la provincia ha smesso di essere accogliente come un tempo. Mentre il “localismo”, come sentimento e identità, si è tradotto in “spaesamento”. Tanto più di fronte all’impatto con la globalizzazione — economica, sociale e cognitiva. Ben testimoniata dall’immigrazione. Così, proprio in provincia, nei paesi più piccoli, oggi incontriamo indici di insicurezza crescenti. Che si traducono in reazioni sociali e (anti) politiche di autodifesa. Intercettate da “imprenditori politici” dello spaesamento, come la Lega. Per questo, occorre evitare che la spinta verso la provincia si traduca in “provincialismo”. E riduca le città in periferie. Abbiamo, invece, bisogno di riqualificare le città, ma anche la provincia. Per fare degli italiani un popolo di compaesani e, al tempo stesso, di cittadini.
postilla
In questo articolo firmato da uno dei più noti e ascoltati studiosi di discipline sociali nel nostro paese, colpisce soprattutto la prospettiva scelta per leggere il fenomeno, che pare in pratica piallata su certe santificazioni del Censis a proposito di distretti paesi e dintorni, del tutto ignare (e scarsamente interessate) ad aspetti che invece parrebbero ovvi, dopo mezzo secolo di critica internazionale alla suburbanizzazione, ai suoi rovesci della medaglia ambientali, sociali, economici. Certo, siamo ancora nel paese in cui basta intravedere qualche rudere di campanile piantato in mezzo allo sprawl per evocare lisergiche nostalgie, e cancellare miracolosamente tutto il resto, almeno finché spunterà la prossima emergenza (il terremoto, la crisi economica, il consumo di suolo, i servizi sociali …). Però da uno studioso di rango ci si aspetterebbe almeno un briciolo di consapevolezza, del fatto che quanto noi chiamiamo “borghi” altrove si chiama più o meno nello stesso modo, ovvero “suburbs”, e non evoca affatto di per sé qualcosa di buono, anche quando c'è qualche fienile qui e là a commuovere l'osservatore. L'occhio critico dovrebbe saper cogliere anche il resto, per esempio le tendenze del tutto opposte di contro-suburbanizzazione (f.b.)