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Nadia Urbinati
La retorica delle "riforme"
28 Dicembre 2009
I tempi del cavalier B.
Nel discorso politico attuale, molta ipocrisia e molti pericoli per la nostra democrazia. Su la Repubblica, 28 dicembre 2009 (m.p.g.)

"Riforma" è la parola passepartout della politica italiana. Non c’è discorso politico che non la contempli. Negli anni della cosiddetta prima repubblica era la sinistra parlamentare che la invocava per marcare la fedeltà alla democrazia costituzionale e un’identità non rivoluzionaria. "Riforme di struttura" era una delle espressioni più spesso pronunciate nel Partito comunista (e per qualche tempo anche in quello socialista): voleva dire portare la democrazia oltre le istituzioni politiche; estendere i metodi elettivi di selezione e controllo nei luoghi di lavoro e nelle scuole; fare politiche di redistribuzioni per dare al maggior numero possibilità concrete di esercitare la cittadinanza. Questa è stata dal 1948 in poi, l’utopia riformatrice italiana. Alcune riforme importanti sono state fatte: gli Anni 70, ci hanno dato il decentramento amministrativo, un sistema sanitario e di previdenza nazionali, la pratica della concertazione tra le parti sociali per risolvere contenziosi sulle dinamiche salariali, le politiche occupazionali e la sicurezza nei luoghi di lavoro. Il termine riforma ha per decenni significato incremento e ampliamento della democrazia.

A partire dalla fine della Guerra fredda e del consenso largo che l’ha accompagnata, "riforma" è diventata una formula sulla quale si sono stabilizzati partiti nuovi o rinnovati nella convinzione che la crisi del sistema politico fosse essenzialmente una questione di ingegneria istituzionale e di tecnica elettorale. La retorica della riforma ha così cominciato a transitare dal sociale all’istituzionale. A partire dai referendum elettorali che si sono succeduti negli ultimi due decenni, le "riforme istituzionali" hanno sostituito nel linguaggio partitico le "riforme di struttura", con una modifica radicale: non solo i partiti di opposizione ma anche quelli di governo hanno preso a dirsi riformatori o riformisti.

Oggi, tutti auspicano, propongono, vogliono riforme, con il risultato che il termine ha perso il significato che nella tradizione politica moderna ha generalmente avuto: realizzare le promesse scritte nella carta dei diritti costituzionali. L’esito è che riformare può anche significare smantellare quelle promesse: per esempio decurtando i diritti sociali, impoverendo la scuola pubblica, istituendo un federalismo che ricusa la solidarietà nazionale. Infine, dalla nascita di Forza Italia ad oggi, e con una responsabilità nemmeno troppo velata dello schieramento opposto, la retorica delle riforme ha fatalmente esteso le sue mire sulla Costituzione e il sistema di giustizia. Non c’è settore della vita pubblica sul quale i nostri politici non si dilettino con proposte a volte bislacche e immaginifiche, sempre sollevando lo spettro dell’emergenza. La retorica delle riforme segue i cicli delle fortune politiche di chi la usa, la rilancia o l’atterra. Tutto il paese, noi tutti, dipendiamo da questi cicli e da questi leader guicciardiniani.

Con la recente riorganizzazione del Pd, la retorica delle riforme è tornata a fare da centro magnetico del discorso pubblico. Sul tappeto, non c’è la realizzazione delle promesse della democrazia, ma invece l’urgente bisogno del presidente del Consiglio di tutelarsi da possibili futuri guai giudiziari. L’attacco ai giudici comunisti si sta mescolando, colpevole il recente grave attentato alla sua persona, alla predica buonista della grande riconciliazione: "concordia" è la parola che torna spesso in questi giorni; non perché siamo in clima natalizio e la bontà di cuore è di pragmatica, ma perché si deve riuscire a convincere l’opinione pubblica che senza un intervento urgente per salvare il premier, sarà l’Italia intera a rimetterci. Bisogna far credere agli italiani l’opposto di quel che è, poiché è evidente che non è l’Italia ad aver bisogno di "queste" riforme.

Occorrerebbe aver il coraggio di dire che occorre conservare, non riformare: l’Italia ha urgente bisogno di conservare lo stato di diritto e il governo della legge. Scriveva Massimo Giannini su queste pagine alcuni giorni fa che esiste un condizionamento ferreo per il quale «se non c’è lo scudo processuale a breve per il suo capo, a prescindere dal tempo lungo delle modifiche per via costituzionale del Lodo Alfano e dell’immunità parlamentare, il Pdl non può concepire altre riforme di struttura». In sostanza, la maggioranza non è autonoma; la sua politica è direttamente dipendente dalla necessità di "queste" riforme, e con essa lo è la vita intera del nostro paese.

Questa mancanza di autonomia politica della maggioranza non può essere trascurata dalle opposizioni. Anni fa si cercò con una regìa non dissimile di imbastire una bicamerale. Quale che fosse l’intenzione ragionata, si trattò di una politica improvvida perché ha abituato i politici a usare la nostra costituzione come merce di scambio per creare o affossare alleanze. In quell’occasione, i leader politici (allora al governo) non ebbero l’acume di imbrigliare il potere dell’interlocutore prima di farci compromessi politici. Non fecero caso al fatto che solo tra eguali ci si può accordare perché chi ha un potere sovrastante fa quel che vuole e non onora gli accordi.

Ora si ripropone uno scenario simile, con l’aggravante che quel potere esorbitante governa il paese e l’opinione pubblica. Non si tratta di resistere alle sirene della concordia per ragioni di pragmatismo, una forma nobile di politica che non ha nulla a che fare con il trasformismo ("inciucio" in gergo). E nemmeno di appellarsi alla fiducia nelle buone intenzioni del premier. Il veto viene da un fatto più semplice e che domina l’arena politica con la forza di una legge naturale: chi vuole "queste" riforme non può permettersi di ottenerne altre rispetto a quelle di cui ha urgente bisogno.

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