Le foto sono tratte da “Ville esclusive & Resorts”, edito da Archideos, curato dal fotografo Giancarlo Gardin, scritto da Isabella Brega e Marco Biagi.
Gian Antonio Stella per Corriere della Sera-Magazine
Di camminare sulle acque, per ora, non gli era ancora riuscito. Ma SilvioBerlusconi non è uomo da perdersi d’animo. E si è fatto progettare nella sua tenuta di Porto Rotondo un breve camminamento a pelo d’acqua che solca il magnifico laghetto al centro del cosiddetto «anfiteatro» di duemila piante grasse. Per adesso si allena lì, per Tiberiade si vedrà. Plasmare la natura gli piace. E su questo ha trovato una splendida intesa con il suo Vanvitelli personale, l’architetto Gianni Gamondi, individuando un obiettivo apparentemente ambizioso messo nero su bianco: il «perfezionamento della natura naturans in natura naturata».
Non è che a Dio, infatti, vengano tutte giuste. Ad esempio, raccontano, il Cavaliere si ferma di tanto in tanto davanti a certe grandi rocce dalle parti dell’anfiteatro simil-greco e le guarda perplesso: forse, lavorando di mola e scalpello… Mica facile, correggere le imperfezioni altrui. Lui ci prova. E lo dimostra un libro straordinario in vendita nelle migliori librerie specializzate. Si intitola Ville esclusive & Resorts, è edito da Archideos, curato dal fotografo Giancarlo Gardin, scritto da Isabella Brega e Marco Biagi e illustra ville e giardini progettati dall’architetto Gianni Gamondi, figlio della nobile colonia italiana di Alessandria d’Egitto ma cresciuto, laureato e affermatosi a Milano.
Un libro prezioso. Tra le creature di cui va orgoglioso l’architetto ha inserito infatti, sia pure senza nominare il padrone di casa, l’intera tenuta Certosa di Berlusconi: dalla villa principale (progettata a suo tempo per il faccendiere Flavio Carboni, l’uomo sullo sfondo della misteriosa fuga del banchiere Roberto Calvi finita con la sua morte sotto il ponte dei Frati Neri a Londra) alle dependance, dal viale per gli ulivi all’«agorà», dalla torretta «in guisa di nuraghe» al museo dei cactus.
Risultato: non solo è per la prima volta possibile vedere pezzo per pezzo la residenza sarda del capo del Governo. Ma perfino una mappa della tenuta. Mappa quasi completa: la villa, la cascata, la casermetta, la torretta, la quercia, il lago, l’agrumeto, con i rilievi costieri e le quote altimetriche: tutto. Il che, diciamolo, è una curiosa bizzarria all’italiana.
Più leggendario di Tiberio. Tutte le piante dell’area, tutti i progetti, tutti gli atti procedurali che hanno portato alla realizzazione della Chambord smeraldina sono stati blindati ai primi di maggio, per motivi di sicurezza nazionale, da due decreti di Pietro Lunardi e Beppe Pisanu. Due decreti così segreti ma così segreti che i legali di Sua Emittenza, dopo averli mostrati ai magistrati che avevano aperto un’inchiesta su eventuali abusi edilizi nella tenuta (in larga parte sdraiata entro quella fascia di 300 metri dal mare sottoposta a vincoli rigidissimi, che la difesa contesta) si sono rifiutati di far fotocopiare. Un capolavoro: «i segreti di Stato» negati ai giudici e ai vigili urbani sono pubblicati a pagina 232.
Anche non ci fosse questa chicca, però, il libro sarebbe da non perdere. Vi si vede infatti crescere (con una certa elasticità sui permessi) una reggia vacanziera come, satrapi arabi a parte, non se ne vedeva da un po’. Una reggia che aspira a seguire il solco di villa Pisani a Stra, del castello di Chenonceau sulla Loira o della Villa d’Este di Tivoli voluta da Ippolito II. Paragoni spericolati? Neanche tanto, se un giornale amico come il Foglio è arrivato a paragonare la Certosa alla leggendaria domus Jovis, sul cucuzzolo di Capri, dove l’imperatore Tiberio (che per Tacito si vergognava a farsi vedere in giro per il «nudus capillo vertex», cioè la crapa sempre più pelata) si trasferì per governare Roma attraverso i segnali luminosi con l’avamposto militare di Punta Campanella da cui con quella specie di «telegrafo» antico arrivavano all’Urbe.
Certo è che le «migliorie apportate alla sua proprietà da un privato cittadino», come le ha descritte il portavoce Paolo Bonaiuti, lasciano senza fiato. Piazze circolari di mosaico, filari di antichi menhir, ettari ed ettari di erbetta inglese miracolosamente verde nell’aspra costa smeraldina, chiostri, saloni, piscine coperte e opere d’arte. Prime fra tutte una scultura in marmo di Cascella. Lo stesso che firmò il mausoleo ad Arcore dove un grande sarcofago destinato (fra uno o due millenni) al Cavaliere, è circondato da un sepolcreto con 36 posti e dove un dì Berlusconi invitò Montanelli: «Mi dice: lì andrà Marcello, lì Fedele, lì Emilio… Sarei onorato se anche tu, caro Indro… Gli dissi: Domine, non sum dignus».
Come il committente goethiano. Un solo paragone viene in mente agli autori del libro per descrivere tanta bellezza, Goethe: «Sta andando più o meno, come nelle Affinità elettive la costruzione di questo parco a Punta Volpe. “... A volte con i giardinieri e i cacciatori, più spesso con il suo amico e, di quando in quando da solo, percorse l’intera proprietà: dalle sue osservazioni si potè facilmente arguire che era un amatore e conoscitore di simili parchi e che lui stesso doveva averne creati parecchi.
Quantunque già avanti con gli anni, aveva un modo gioioso di prendere parte a tutte quelle cose che possono abbellire la vita e darle un senso. Fu in sua compagnia che le signore apprezzarono per la prima volta in pieno ciò che le circondava, il suo occhio esperto coglieva ogni effetto con straordinaria freschezza, e tanto più godeva delle sue scoperte, in quanto non aveva mai visto prima quei luoghi e quasi non riusciva a distinguere tra ciò che era opera dell’uomo e quel che invece era frutto della natura”».
Come non riconoscere nell’illuminato committente goethiano il lucido profilo del Cavaliere? «Si può tranquillamente sostenere che, grazie alle sue osservazioni, il parco si accrebbe e si arricchì. Egli sapeva già in anticipo quali risultati avrebbero dato le nuove piante che stavano crescendo. Non dimenticò nessun luogo, dove fosse ancora possibile mettere in risalto o aggiungere qualcosa di bello. Qui indicò una sorgente che, una volta ripulita, prometteva di diventare l’ornamento di un intero boschetto, lì fece notare una grotta che, sgomberata e allargata, avrebbe potuto consentire gradevoli soste, dal momento che sarebbe bastato abbattere soltanto qualche albero per godersi la vista di uno splendido ammasso di rupi. Fece gli auguri agli abitanti per il tanto lavoro che ancora restava e li esortò a non avere fretta, ma a conservarsi anche per gli anni futuri il piacere del creare e del sistemare».
Solo lì, sul «non avere fretta», i conti non tornano del tutto. Perché lui, Silvio il Magnifico, un po’ di fretta ce l’ha. E se non ha tempo di aspettare la crescita di un carrubo di mezzo millennio se lo compra, lo trapianta e ciao. Ma sul resto, parole d’oro: ed ecco infatti che, in nome della bellezza e del piacere, la fetida pozza del depuratore è diventata un placido laghetto, la cabina elettrica cilindrica un simpatico antico nuraghe con dentro un bagno con le vetrate trasparenti sul mare che «con un semplice scatto d’interruttore si polarizzano per garantire la massima privacy», la piazzola dell’eliporto una piscina circondata dai cactus. Per non dire del «capanno di cantiere riattato a bungalow per gli ospiti» (eccellente idea che copieremo tutti senz’altro in caso di grane con l’ufficio urbanistica), dell’anfiteatro in marmo o delle cinque piscine per la talassoterapia costruite, fotografate e pubblicate nel libro (magia!) prima ancora che arrivasse il via libera del Comune.
Il Cavaliere si distende così. È la sua nababbo-terapia. Centrata, per dirla con le auliche parole del libro, sul «gusto della scoperta e l’entusiasmo del riscatto di un antico palinsesto naturalistico». Ecco cosa mancava: il palinsesto!
Dagospia 11 Giugno 2004