«Mi dimetto per sottolineare che i limiti di pluralismo interno sono stati superati, e che questo consiglio opera in condizioni di illegittimità». Il cda della Rai è convocato per le tre del pomeriggio a Milano. Mezz'ora prima, a sorpresa, Lucia Annunziata convoca una conferenza stampa all'hotel Principe di Savoia, nel centro della città. E comunica che la sua esperienza di «presidente di garanzia» finisce qui. Perché «l'occupazione dell'azienda» è stata completata. Perché ormai «è stata annullata ogni forma di autonomia». Perché «tutto il potere è concentrato nelle mani di pochi fedelissimi». Il consiglio che si riunirà di lì a poco ha in programma un voluminoso pacchetto di nomine, compendio del piano di riorganizzazione firmato dal direttore generale Flavio Cattaneo che ha cambiato i connotati al servizio pubblico. «Ultimo atto di una organizzata campagna della maggioranza tesa al controllo pieno» della Rai, è scritto nella lettera che Annunziata legge ai giornalisti. La presidente, dopo quattordici mesi vissuti in un clima di scontro permanente, «schiacciata sotto la maggioranza del 4 a 1», come riconosce lei stessa, decide dunque che è questo il momento per mollare gli ormeggi. Anche i suoi referenti nel centrosinistra - che dopo l'ultimo match telefonico con Cattaneo, quello in cui il dg aveva promesso alla presidente «calci in culo», le avevano suggerito di restare al suo posto - a questo punto sono convinti: meglio le dimissioni, pena andare avanti con una presidente delegittimata.
Nella sua lettera, dunque, Annunziata racconta: «Alle 12.15, con meno di tre ore di preavviso, a spregio di ogni regola del diritto societario, il direttore generale ha proposto una serie di nomine chiave per la gestione dell'azienda e di sue consociate». Una «interpretazione forzata dei regolamenti che ha trasformato il cda in una buca delle lettere nella quale vengono ratificate decisioni prese in altri luoghi». L'ormai ex presidente spiega che sul suo tavolo sono arrivate 18 pagine fitte di nomi, scritte a mano per la fretta e in «mancanza di ogni rispetto di iter aziendale», che «stravolgono completamente il profilo dell'azienda, rendendo chiari i condizionamenti esterni». Decine e decine di nomine in vista, strettamente targate. «Adesso, per quanto mi riguarda - conclude Annunziata - questo consiglio è illegittimo». Perché la formula di «garanzia», se mai ha avuto un senso, non esiste più.
Ma, ancorché rappresentativo della sola maggioranza berlusconiana, il consiglio non si sente certo delegittimato. Infatti, di lì a poco, con il consigliere anziano Francesco Alberoni alla presidenza, si riuniscono Angelo Maria Petroni e Giorgio Rumi; in collegamento da Roma c'è Marcello Veneziani. Una consultazione informale per commentare l'addio della presidente e poi si passa al sodo. Dalla riunione escono ben 43 nomine. Un trionfo per Forza Italia, molta soddisfazione per la Lega o una sua parte (incassa soprattutto Roberto Calderoli, che accusa la presidente uscente di «razzismo» nei confronti del Carroccio, nientemeno). An fa comunque buon viso e, a partire dal suo leader Gianfranco Fini, si scaglia contro Annunziata accusata di andare in cerca di un seggio (lei smentisce subito) e di essersi dimessa - dice Fini - con «motivazioni ridicole» perché «parlare di mancanza di pluralismo è un'autentica sciocchezza». Più tardi, dopo una richiesta di reintegro rivolta dal forzista Paolo Romani ai presidenti delle camere, sarà ancora Fini a dire che il cda a quattro - a differenza di quanto sostenuto dal presidente della vigilanza Claudio Petruccioli ancor prima della notizia delle dimissioni e, dopo, dall'opposizione - è «pienamente legittimo». E l'Udc - che con Marco Follini critica espressamente l'infornata di nomine alla vigilia delle elezioni - rimanda la partita sul consiglio a dopo il voto.
Dal canto loro, chiamati in causa, i presidenti di camera e senato, Pier Ferdinando Casini e Marcello Pera, uno a Ankara l'altro a New York, si chiamano fuori. Mentre la crisi al vertice di viale Mazzini precipita, si viene a sapere che il presidente della repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha promulgato la «nuova» versione della legge Gasparri, che oggi sarà pubblicata sulla gazzetta ufficiale. A questo punto il potere di nomina non spetta più alla seconda e terza carica dello stato. Del cda a nove membri previsto dalla Gasparri si occuperanno direttamente i partiti al governo: sette consiglieri saranno indicati dalla commissione di vigilanza con una formula che prevede tre caselle per l'opposizione e quattro per la maggioranza, un consigliere sarà indicato dal ministero dell'economia, che indicherà anche il presidente, al quale dovranno dare il via libera i due terzi della vigilanza.
Le voci dell'imminente nomina di un nuovo «presidente di garanzia», circolate nel pomeriggio, vengono dunque smentite. L'opposizione non sarebbe in ogni caso della partita. I presidenti delle camere faticherebbero a trovare qualcuno disposto a prestarsi come foglia di fico per pochi mesi.
Del nuovo consiglio (quello attuale scade nel marzo prossimo) si riparlerà alla luce del voto. Ma il clima è destinato a restare caldo, anche dentro l'azienda. Uno dopo l'altro, i comitati di redazione del Tg lombardo (cui viene negata la lettura del comunicato nell'edizione delle 19.30), di Torino, del Tg1 e del Tg3, di Rai International e di Televideo, denunciano la gravità della situazione, invitano alla mobilitazione, si appellano a Pera e Casini, denunciano il rischio per il pluralismo se non il «servilismo» dei vertici Rai, descrivono quella di ieri come «la pagina più nera» scritta sulla pelle del servizio pubblico. Il direttore generale tace. I consiglieri (a parte Veneziani, che attacca Annunziata), pure. Il premier non si occupa di Rai.