”La vie moderne demande, attend un plan nouveau,
pour la maison et pour la ville”
(Le Corbusier, 1931)
Ville Radieuse: un nome che evoca un sogno, il sogno di una nuova città a misura d’uomo, concepita per sostituire quella malsana città compatta in cui tutte le funzioni si mescolano senza soluzione di continuità. E’ il mito del ‘900, quello del modernismo, tanto dibattuto nei CIAM e nelle Università, un mito che pretendeva di assegnare ad ogni attività umana i suoi spazi ben definiti e che tentava di ordinare quella complessità che per millenni aveva contraddistinto qualsiasi ambiente urbano. Un mito che rievoca inevitabilmente il suo principale creatore: Le Corbusier.
Radiant City, film-documentario prodotto dal National Film Board Canadese, ricorda quel mito e spiega ai più, criticandolo molto esplicitamente, uno dei suoi prodotti più devastanti (o almeno ritenuto tale): il suburbio.
Protagonista è la famiglia Moss, una tipica famiglia che decide di comprare casa in un suburbio, spinta dalle più classiche delle motivazioni: un prezzo ragionevole per uno spazio dove cinque persone, genitori e tre figli, possono vivere comodamente, parcheggiare senza problemi la loro macchina ed essere protetti dal caos della downtown. Si tratta – come si scopre alla fine – di una famiglia costruita a tavolino, ma ciò non toglie nulla al realismo della narrazione.
Radiant City ci racconta il suburbio per quello che è: un agglomerato di case, dove lo spazio pubblico è inesistente, da cui e in cui non puoi muoverti senza una macchina – ma chiaramente ce ne vogliono almeno due per nucleo familiare – e in cui, nonostante i diversi pezzi vengano chiamati community, di quel senso di comunità tanto ricercato non c’è nemmeno l’ombra. Ogni membro della famiglia, ad eccezione della figlia più piccola, si relaziona in maniera diversa con lo spazio in cui vive, rappresentando così diversi “personaggi tipici” del suburbio.
La mamma, Jane, accetta di buon grado la vita suburbana, perché le offre una casa nuova, grande, tutta sua, anche se la contropartita è dover pianificare mese per mese gli spostamenti dell’intera famiglia. Il padre, Evan, un po’ meno entusiasta di quella vita, tenta di nascondere le sue frustrazioni e le sue reali aspirazioni, al punto di farci credere che per lui le due ore passate ogni giorno in macchina imbottigliato nel traffico di una comunissima highway siano salutari, perché può rilassarsi, pensare alla sua vita, ascoltare musica.
E’ intorno a lui che ruota una delle “chicche” del film, un musical fai-da-te ( Suburbs – The Musical) che ironizza sulla vita suburbana, celebrando in particolare la sacralità del giardino:
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I due figli, Nick e Jennifer, rappresentano altre due “costanti”: il primo, impegnato in giochi macabri, rappresenta l’effetto degenerativo della crescita in un ambiente desolante e triste come il suburbio. La seconda, invece, va in palestra (la Gymtastics!), suona il piano e fa karate, simulando così quel superimpegno cui invasati genitori sottopongono spesso i loro figli nell’illusione di dargli una scelta che loro, sostengono, non hanno mai avuto.
L’interesse di questo pseudo-documentario non è tanto nella novità delle informazioni: sui suburbi si è detto e scritto tanto e, tutto sommato, non ci viene detto nulla di nuovo rispetto a ciò che già sapevamo. Radiant City, però, riesce a dare una panoramica esaustiva del fenomeno, affrontando quasi tutti gli aspetti e i problemi della vita suburbana e rendendo il tema accessibile al largo pubblico. Le vicende e le emozioni della famiglia Moss si alternano alle spiegazioni degli “specialisti” – architetti, pianificatori, scrittori e filosofi – e ai vari dati statistici – quanto spazio spreca il suburbio, quanto sono più obesi i giovani abitanti suburbani rispetto ai loro coetanei cittadini e via discorrendo.
Chi guarda Radiant City senza essersi mai posto il problema di che cosa significhi la vita suburbana di fronte alle informazioni chiare e discretamente approfondite del film probabilmente capirà un po’ meglio l’ambiente in cui vive. Come spesso accade, questo non basterà a risolvere il problema, ma, probabilmente, qualcuno resterà meno insensibile di fronte a quelle distese di terreno occupate da migliaia di villette disposte ordinatamente lungo strade deserte o di fronte a tristi centri commerciali persi nel vuoto.
In Italia la situazione è notevolmente diversa. Le nostre grandi città hanno periferie tristi e degradate, ma nulla di lontanamente paragonabile ad un suburbio. C’è un problema di dimensione: le grandi città italiane sono decisamente più piccole delle grandi città nordamericane. Ma non solo. In Italia sono troppe e troppo pesanti le sedimentazioni storiche per pensare di costruire senza porsi il problema di un centro, dei servizi e soprattutto dello spazio pubblico.
La storia ci ha consegnato una realtà in cui oltre le grandi città iniziano i piccoli comuni, sia da un punto di vista culturale che spaziale. Non è infrequente che chi non può permettersi il centro della grande città preferisca fare il pendolare dal piccolo comune limitrofo piuttosto che finire in periferia.
Certo, anche il Belpaese ha le sue “villettopoli”, ma si tratta di piccole lottizzazioni, lontane dai suburbi che si estendono per chilometri e chilometri. E infatti, l’italiano che guarderà Radiant City tirerà probabilmente un sospiro di sollievo nel vedere raccontato un fenomeno che qui fortunatamente non ha mai preso piede.
Tutto fantastico, quindi? Non proprio, perché la storia non basterà a metterci in salvo: forse non avremo mai una Evergreen (il nome della community in cui vivono i Moss), ma il rischio che corrono le nostre città e in generale il nostro territorio è comunque molto alto e le cronache dei giornali ce lo dimostrano. E se scaviamo un po’, scopriremo che all’origine di questo rischio c’è una parentela significativa con il suburbio nordamericano.
Uno dei concetti che i tecnici e gli studiosi intervistati dai registi di Radiant City rimarcano spesso è che il suburbio sia un prodotto del dopoguerra ed è alle teorie moderniste che si addossa gran parte della colpa per la sua diffusione. Non si tratta di un errore, ma è bene fare qualche precisazione.
Semplificando molto un processo durato decenni, dopo la Seconda Guerra Mondiale la situazione economica delle famiglie migliora, tra alti e bassi, di anno in anno. Le tecnologie progrediscono, i sistemi di produzione si evolvono, le distanze si riducono e per molti la scelta di dove vivere diventa quasi del tutto indifferente rispetto al luogo di lavoro, perché alla base c’è la consapevolezza di potersi spostare agevolmente. Grazie all’automobile, e non solo, ogni individuo è indipendente dal resto del mondo.
C’è dunque una questione eminentemente pratica all’origine del suburbio: la diffusione dell’automobile. E a conferma di ciò c’è il fatto che proprio a partire dagli anni trenta, quando questo nuovo mezzo di trasporto cominciava a diffondersi, in America si era rotto definitivamente il rapporto tra la pianificazione delle infrastrutture e quelle degli insediamenti, che fino ad allora avevano avuto un’unica regia pubblica. Gli investitori privati cominciano ad avere maggiore libertà di manovra: acquistano terreni lontani dai centri urbani, dove costano di meno, lottizzano e vendono. Il pubblico provvederà poi a seguire le loro decisioni con la costruzione della rete viaria.
Parallelamente a questo cambiamento epocale prendono corpo le teorie anti-urbane di Le Corbusier e soci, che hanno avuto un ruolo non secondario nell’alimentare il mito della vita solitaria e lo spirito di repulsione verso la città di cui il suburbio è concreta manifestazione. Esse rientrano più o meno consapevolmente in una tradizione culturale che considera la complessità dell’ambiente urbano in modo negativo: la vita di prossimità e la condivisione dello spazio con altri individui, infatti, spingono l’uomo verso la corruzione e l’immoralità e per questo vanno combattute.
Grazie all’automobile, adesso la battaglia appare più semplice: edifici immersi nel vuoto al cui interno si cerca di riprodurre in altezza quella complessità tipica delle città. Tutt’intorno, larghe autostrade in cui il traffico e il caos della vita cittadina saranno solo un lontano ricordo. Con qualche timida opposizione, sarà questo il leit motiv della ricerca architettonica per gli anni a venire, fino ad arrivare ai giorni nostri.
Se riconosciamo nella diffusione dell’automobile e nel consolidarsi di uno spirito antiurbano l’origine del suburbio, allora dobbiamo anche riconoscere che il Belpaese ha avuto il suo “suburbio”. Quella stessa storia che ci ha protetto dalle distese di anonime villette, non ci ha messo al riparo dalla tendenza a costruire in modo diffuso, senza la necessaria attenzione per lo spazio pubblico e con enormi consumi, di suolo e di energie. Il nostro è un suburbio fatto di villette sparse, di palazzine in cui si rinchiudono piccole enclaves familiari, in cui le città crescono per micro-lottizzazioni che spesso non fanno sistema. Il principio è lo stesso che sta dietro a Evergreen: si costruisce lì dove l’automobile permette di arrivare dal centro in tempi ragionevoli, per poter avere il proprio spazio riparato e poter evitare il caos delle città. Il modello insediativo che ne scaturisce è molto diverso, ma in proporzione altrettanto dannoso.
Tutto questo avviene in un contesto politico-amministrativo in cui il pubblico ha rinunciato già da tempo a pianificare la crescita edilizia e a controllare che quella crescita avvenga nel rispetto dei piani-proclami adottati e approvati. A cadenze ricorrenti il pubblico provvede a condonare quei piccoli e grandi disastri che la sua disattenzione ha provocato e che ormai non suscitano più né sdegno né condanne.
Ma lamentarci perché il pubblico non difende abbastanza il territorio non basta. Il “pubblico”, in fondo, è fatto di amministratori che prendono atto dei desideri delle varie Jane Moss italiane: una casa nuova a un buon prezzo, uno spazio abbastanza grande per far crescere i propri figli e stare lontani dal caos della vita cittadina. E così, fatti i dovuti distinguo, non è improbabile che una pièces teatrale dal titolo “Villettopoli – Il musical” possa chiudersi così:
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Per chi volesse saperne di più, qui c'è il sito ufficiale del film; qui, invece, una recensione pubblicata sul New York Times.