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Ilvo Diamanti
La provincia scomparsa dove nascono i nuovi mostri
14 Gennaio 2007
Padania
Un’analisi acuta (interrotta da 150 punti!): “In un unico ammasso urbano cresciuto senza un disegno…”. Da la Repubblica del 14 gennaio 2007

Per spiegare la vertigine aperta dall’omicidio di Erba, il vescovo, ieri, durante il rito funebre, ha evocato Caino. L’ombra del male, che ci segue d’appresso. Vicino a casa, in famiglia, nei luoghi della nostra vita quotidiana. Che è dentro di noi. Sempre. Però, bisogna ammetterlo: da qualche anno con maggiore frequenza. Come testimonia la scia di sangue prodotta dai (mis)fatti di "ordinaria follia", commessi da persone che propongono biografie "normali". Basta ripercorrere i giornali; o meglio: guardare la tivù.

Perché la violenza che esplode tra la gente comune risulta particolarmente spettacolare. E più visibile di un tempo. Però è indubbio che si ripeta incessante. E proponga alcuni elementi che la rendono inquietante. Non è solo il fatto che avvenga, sempre più, al di fuori della criminalità organizzata. Secondo il rapporto curato da Eures in collaborazione con l’Ansa, dal 2002, in Italia, la maggioranza assoluta degli omicidi si verifica in famiglia, nella cerchia dei parenti, degli amici, dei conoscenti, del vicinato. Il rapporto rivela, inoltre, una geografia dell’orrore piuttosto precisa. Questo tipo di delitti avviene prevalentemente nel Centro-Nord. Anzi, nel Nord. Ancor più precisamente, in provincia. Basta ripercorrere le cronache.

Partendo dal caso di Pietro Maso, che nel 1991, complici alcuni amici, massacrò i genitori. Poi, andarono tutti insieme in discoteca. Al ritorno, diede l’allarme, dopo aver cercato di simulare una rapina. La scena: Montecchia di Crosara. Piccolo paese affondato nella Pedemontana, fra Verona e Vicenza. Stessa vertigine, stesso clamore, esattamente dieci anni dopo. Quando, a Novi Ligure, Erika, spalleggiata dal fidanzato Omar, ammazza a coltellate la madre e il fratellino. Insieme al delitto di Cogne, costituiscono gli idealtipi dei delitti familiari. Che coinvolgono figli che ammazzano i genitori. E genitori accusati di aver ammazzato i figli. E per questo attraggono la morbosa attenzione dei media. Altre vicende degli ultimi anni, però, si iscrivono in questa classe di delitti. A Parma, ad esempio, incontriamo Ferdinando Carretta. Scomparso per anni, nel 1998 ricompare. E a "Chi l’ha visto" confessa di aver ammazzato padre, madre e fratellino, 10 anni prima.

Ma la categoria degli omicidi familiari, nella provincia del Nord, è particolarmente folta. Vi occupa un posto importante Guglielmo Gatti, quarantenne di Brescia. Nell’agosto 2005 ammazza gli anziani zii, che vivevano nella stessa villa, nell’appartamento sotto al suo. Dopo averli narcotizzati, li porta nel garage, e li uccide. Poi li fa a pezzi e ne sparge le spoglie in montagna, intorno al passo del Vivione. Infine, lo scorso settembre, a Chiuppano, nell’alto vicentino, Assunta Beghetto viene spappolata con una mazzetta da muratore dal nipote, poco più che ventenne. Il quale, raccattati in fretta pochi euro dall’appartamento della nonna, se ne va al bar, a giocare a videopoker con gli amici.

C’è poi la saga dei serial killer. In cui ha un ruolo da protagonista Gianfranco Stevanin, arrestato negli anni Novanta per i suoi orrendi delitti ai danni di ragazze, prima violentate, poi uccise e sezionate, con sistematica e "chirurgica" ferocia. Nato a Montagnana, ridente cittadina del padovano, al momento dei delitti viveva nella bassa veronese, in riva all’Adige. Abitava in un casolare, colmo di arredi sacri e profani (vibratori, video porno, ecc.). Lo fiancheggia, degnamente, Donato Bilancia, detto "il giustiziere". E’ di Genova. Fra il 1997 e il 1998 dichiara di aver ucciso 17 persone, tra cui 7 prostitute e 2 metronotte.

Altri omicidi di provincia si consumano all’ombra dei riti satanici. Fra gli episodi più sanguinosi e clamorosi, due avvengono nelle valli lombarde. Nelle zone padane più a Nord. Il primo a Chiavenna, dove, nel 2000, suor Maria Laura Mainetti viene "sacrificata" da tre ragazze di buona famiglia. Il secondo episodio vede protagonista un gruppo di satanisti, giovanissimi. Le "bestie di Satana". Fra il 1998 e il 2004, uccidono tre compagni, loro coetanei, e ne inducono un quarto al suicidio. Gli assassini, capeggiati da Nicola Sapone, e le loro vittime, abitano fra Busto Arsizio e Somma Lombardo, in provincia di Varese.

Delitti nell’ambito degli amici e dei conoscenti. Come dimenticare la povera Desirée Piovanelli? Violentata e uccisa a coltellate, il 4 ottobre del 2002, da alcuni amici, in una cascina abbandonata; con la complicità, pare, di un adulto, Giovanni Erra, sposato e con un figlio. Abitava a Leno, in provincia di Brescia. Infine, per avvicinarci ai nostri giorni, rammentiamo il piccolo Tommaso Onofri di un anno e mezzo. Rapito e quindi ucciso. In questo caso, per la verità, si tratta di una violenza a scopo di estorsione. Commessa, però, da conoscenti. Gente del paese. Di Castelbaroncolo, frazione di Sorvolo, vicino a Parma. Persone a cui il padre aveva affidato dei lavori di ristrutturazione della casa. Infine, pochi giorni fa: Giuseppina Brasacchio, di Mirandola, vicino a Pavia, da anni disabile. Il figlio, disoccupato, e a sua volta ammalato, la massacra con 40 sprangate.

Un catalogo, incompleto ma non troppo, dei delitti commessi nei luoghi di vita quotidiana. Da persone che ci stanno intorno. Non per il piacere dello splatter. Non ci appartiene e non lo sappiamo "raccontare". Ma perché fa impressione – davvero – vederli in sequenza, questi delitti. Uno dopo l’altro. Collegare i fatti ai contesti. Associare l’orrore alla normalità. Ne emerge, chiaro, il legame con il territorio. Caino abita soprattutto a Nord. In provincia più che nella metropoli. Nelle città medie e nei piccoli paesi. Il che, ovviamente, non serve a stabilire relazioni causali. Sarebbe ingenuo, infatti, indulgere a un sociologismo positivista di basso profilo. Sostenere che l’ambiente "produca" i mostri. Che la provincia del Nord "generi" Caino. Tuttavia, questa geografia dell’orrore quotidiano serve a contraddire lo stereotipo opposto. Che induce allo stupore ogni volta che avviene un fatto di sangue come questo. Il pregiudizio, radicato, che la provincia del Nord sia un ambiente sicuro. Protetto. Lontano dall’alienazione e dalla disgregazione metropolitana. Al riparo dalle minacce che provengono dal mondo. La provincia, quella provincia, non c’è più. E’ finita. Insieme all’esplosione dell’economia diffusa, che negli ultimi vent’anni ha trasformato la Pedemontana del Nord in un unico grande reticolo di aziende. Insieme al dilagare della plaga immobiliare, che ha ridotto la Padania, e in particolare la Pedemontana del Nordest, in un unico ammasso urbano. Cresciuto senza un disegno. Sulla base di interessi grandi e piccoli. Con un unico esito: che la provincia, intesa come rete di piccoli centri, dotati di visibile e specifica identità, non esiste più. Da tempo, ormai. Ma negli ultimi anni tutto ciò è diventato più evidente. Anche a chi ci vive. La provincia padana e pedemontana del Nord. Cuore dello sviluppo; area tra le più internazionalizzate d’Europa. La società si è arricchita in fretta. Ha lavorato duro e ha conquistato un meritato benessere. Non è più luogo di emigrazione. Al contrario: attrae flussi di immigrati fra i più elevati d’Italia, come ogni zona che abbia conosciuto benessere e sviluppo. (L’immigrazione è sempre un indicatore di benessere e di sviluppo). Tuttavia, questi paesi, sono divenuti e si sentono insicuri. La classifica relativa alla crescita dei delitti denunciati dal 2001 a oggi (proposta dall’annuale inchiesta del Sole 24 Ore sul benessere delle province), vede, agli ultimi 20 posti, 15 province del Centro-Nord. Di cui 10 del Nord. Fra queste: Bergamo, Reggio Emilia, Modena, Parma, Cremona. In fondo, epicentri della nuova insicurezza, Verona, Trento e, ultima, Mantova.

La provincia del Nord. Non produce mostri: ma non riesce più a impedirne la riproduzione. Né a contrastare il diffondersi dell’insicurezza. Al contrario: in qualche misura la alimenta. Perché non dispone più dei tradizionali meccanismi di integrazione e di controllo sociale. I legami di famiglia; le reti degli amici e di vicinato. Le cerchie comunitarie. Hanno subito un degrado profondo. Come l’ambiente intorno. I vicini: sono sempre più lontani. E la strada, la piazza: hanno smesso di essere luoghi sociali. Devastati dal traffico e dalle rotatorie. Gli stessi bar. Non sono più luoghi sociali, accoglienti. Ma luoghi di consumo, perlopiù anonimi. Che i più giovani frequentano restando fuori. In piedi. I paesi pedemontani del Nord. Contesti globali e globalizzati. Frammenti di una grande metropoli. Dove si respira insoddisfazione, risentimento. Dove cresce la protesta politica e sociale. I paesi del Nord padano e pedemontano, il Nordest: in larghi settori rammentano Los Angeles. Con una grande differenza. Che non se ne rendono conto. Non ne hanno l’organizzazione, i servizi. La cultura. Non più paesi, ma neppure città. Tanto meno metropoli. E non si rassegnano, al cambiamento. Non ci rassegniamo. Per cui proviamo disagio, un dolore profondo. E ogni volta che avviene un fatto orrendo, vicino a noi, cerchiamo i colpevoli altrove. Lo straniero di turno. Per dimenticare, scacciare da noi il pensiero molesto di cosa e come siamo diventati. Stranieri noi stessi, di una metropoli inconsapevole. Dove, nel silenzio che avvolge l’ordinaria normalità, talora esplodono storie di straordinaria ferocia.

Nota: un punto di vista a modo suo "complementare" a quello di Diamanti, è quello del tuttologo Aldo Bonomi, che in una intervista a Repubblica sul caso di Erba sostiene una curiosa tesi post-Haussmanniana. In pratica, se la provincia (o "città infinita" secondo il suo vago marchio neologista) risulta arretrata in termini di modernizzazione sociale, sicuramente costruendo autostrade e centri commerciali non si può che farle del bene. Leggere per verificare, su Mall (f.b.)

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