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Eugenio Scalfari
La potenza imperiale e la sua missione
6 Aprile 2006
Articoli del 2005
“…barò al gioco con l´Onu, con la Comunità internazionale, con l´Europa. Ma soprattutto con l´opinione pubblica del suo paese”, lo farà ancora? La domanda su la Repubblica del 13 febbraio 2005

HA FATTO molta impressione la personalità del nuovo segretario di Stato americano, Condoleezza Rice, nel corso del suo recente viaggio in Europa culminato con l´incontro con Chirac a Parigi e con gli alleati della Nato e dell´Unione europea a Bruxelles. Una personalità ? è stato unanimemente riconosciuto ? dotata di grande fascino, di una lucidità mentale fuori dall´ordinario e di una evidente capacità realizzatrice.

Che cosa voleva e che cosa ha chiesto la signora Rice agli alleati europei? Due cose soprattutto: che superassero le divisioni del recente passato con gli Stati Uniti sulla guerra irachena e che, d´ora in poi, fossero disponibili a lavorare con il presidente Bush contribuendo alla ricostruzione di un nuovo Stato democratico in Iraq. Non nuove truppe da inviare, ma la preparazione di nuovi corpi militari iracheni necessari a garantire la sicurezza nel paese, nonché la selezione di una classe dirigente capace di autogovernarlo.

Una strategia di uscita dell´esercito angloamericano attualmente non c´è, ha detto la Rice, aggiungendo due corollari che tuttavia fanno a pugni tra loro. Il primo, rivolto agli europei, è stato: «D´ora in poi dovremo decidere insieme». Il secondo: «Ce ne andremo dall´Iraq quando il lavoro sarà compiuto». Ma chi deciderà che il lavoro è compiuto? E di quale lavoro esattamente si parla?

A Washington è opinione comune che per conoscere veramente i dati della situazione bisogna farsi guidare da ciò che dice la vera autorità della Casa Bianca, il vicepresidente Cheney. Mai prima di lui un vicepresidente aveva contato qualcosa. Lui invece è il vero depositario del potere.

Ebbene, Cheney, proprio mentre la Rice era in viaggio tra Europa e Medio Oriente, ha detto qualche cosa di molto preciso su quel famoso lavoro da compiere. Ha detto che esso sarà finalmente compiuto quando le forze armate irachene saranno in grado di garantire la sicurezza interna e anche quella esterna del paese. Esterna. Cioè nei confronti dei paesi confinanti. Cioè della Siria e soprattutto dell´Iran.

Questa precisazione non viene da Condoleezza ma da Cheney. È chiaro tuttavia che entrambi stanno parlando della medesima cosa, anche perché la Rice sul tasto dell´Iran ha battuto e ribattuto più volte.

L´opzione militare nei confronti di quel paese, ha detto la Rice, non è in agenda ma è altrettanto evidente che non può esser tolta dal tavolo e nessuno la toglierà.

Con l´Iran bisogna trattare duramente. Non può permettersi di arrivare sulla soglia dell´arma nucleare.

Infine, sempre nei suoi contatti con gli alleati europei, il nuovo segretario di Stato ha definito con efficace eloquenza la strategia che guida il secondo mandato presidenziale di Bush: gli Usa e l´Occidente unito debbono diffondere nel mondo gli ideali e le istituzioni della libertà e della democrazia aiutando in tutti i modi la caduta dei regimi illiberali e tirannici. Noi siamo certi che a questa missione (è sempre la Rice a parlare) che incarna al tempo stesso i valori dell´Occidente e la sua sicurezza, i nostri alleati europei parteciperanno con piena adesione e con il contributo della loro esperienza diplomatica, politica, culturale.

Il presidente Bush a sua volta è atteso in Europa nell´ultima decade di febbraio. Ricalcherà certamente, ma con la maggiore autorevolezza della carica che ricopre, le indicazioni del suo segretario di Stato. Esalterà con parole ispirate, come è solito fare, la missione salvifica dell´Occidente nel mondo.

Potrà vantare due esiti positivi: le elezioni irachene e la tregua firmata a Sharm el Sheik da israeliani e palestinesi. Sarà certamente ascoltato in tutte le capitali europee con amicizia e rispetto. E poi?

Che cosa accadrà, che cosa dovrebbe accadere poi?

* * *

Ho letto nei giorni scorsi il saggio che sta per esser pubblicato in versione italiana da Garzanti, di Chalmers Johnson, intitolato "Le lacrime dell´impero". L´autore è un americano molto critico della strategia missionaria propugnata da Bush, Rice, Cheney (quest´ultimo in verità più attento agli interessi che ai valori). Mi sembra opportuno trascriverne qualche passo (anticipato sul Corriere della Sera del 9 febbraio) che sottolinea alcuni aspetti di realtà e dà voce ad un settore importante dell´opinione pubblica americana.

"Gli americani amano ripetere che il mondo è cambiato per effetto degli attacchi terroristici dell´11 settembre 2001. Sarebbe più corretto dire che quegli attacchi hanno prodotto un pericoloso cambiamento nel modo di pensare di alcuni nostri leader. Essi hanno cominciato a considerare la nostra Repubblica alla stregua d´un vero e proprio Impero, una nuova Roma, il più grande colosso della storia, non più vincolato al diritto internazionale, alle preoccupazioni degli alleati o a limiti di sorta nel ricorso alla forza militare.

Un numero crescente di persone comincia ora, in questo nostro paese, a cogliere ciò che in gran parte di non americani già sa, e cioè che gli Stati Uniti sono qualcosa di diverso da ciò che affermano di essere: sono un moloc militare che punta a dominare il mondo.

Solo con estrema lentezza noi americani ci siamo resi conto del ruolo sempre più importante assunto dalle Forze armate nel nostro paese e dell´erosione dei fondamenti della nostra Repubblica costituzionale per mano del potere esecutivo, vera e propria ?potenza imperiale´.

Il raggio d´azione dell´impero americano è globale.

Nel settembre 2001 il dipartimento della Difesa contava almeno 725 basi militari al di fuori del territorio Usa. In realtà sono assai più numerose perché in molti casi operano all´interno di altre strutture sotto copertura di vario genere. E molte altre ne sono state create da allora.

Ci vorrebbe una rivoluzione per riportare il Pentagono sotto il controllo democratico, per abolire la Cia o anche solo per far rispettare l´articolo 1, sezione 9, proposizione 7 della Costituzione americana: ?Nessuna somma dovrà essere prelevata dal Tesoro se non in seguito a stanziamenti decretati per legge´. Questo articolo è quello che conferisce al Congresso il suo potere e fa degli Stati Uniti una democrazia. Ebbene, per il dipartimento della Difesa e per la Cia come per tutte le altre agenzie d´intelligence quest´articolo non è mai valso.

Il militarismo, l´arroganza del potere e l´imperialismo entrano fatalmente in rotta di collisione con la struttura democratica dell´America e ne distorcono cultura e valori fondamentali".

Questa trasformazione della superpotenza americana in una democrazia imperiale, così lucidamente descritta da Chalmers Johnson, si basa su dati di fatto specifici difficilmente contestabili. È anche vero che la potenza degli Usa nel mondo è cresciuta anche a causa dell´incapacità europea di creare un soggetto unitario e del vuoto culturale e politico che ha provocato l´affermarsi in Europa e in Russia dei due totalitarismi che hanno devastato il continente e violato ogni senso di umanità. Ma è altrettanto vero che la democrazia imperiale cui l´America sembra ormai essere approdata a quindici anni di distanza dalla sua vittoria nella guerra fredda, suscita perplessità o addirittura avversione nel resto del mondo.

La strategia missionaria lanciata da Bush non sembra uno strumento adatto a superare quella perplessità e quell´avversione.

Nell´Europa moderna del resto le vocazioni messianiche non hanno mai avuto fortuna. Non attecchì neppure la rivoluzione francese quando fu portata a cavallo da Napoleone suscitando la nascita dei nazionalismi e la reazione culturale del romanticismo. Tanto meno ebbe fortuna la rivoluzione trotzkista nata dal Manifesto di Marx-Engels, né il leninismo-stalinismo sorretto dal mito dell´Armata rossa e puntellato dagli orribili lager di sterminio. Per non parlare della missione razzista di Hitler, che è addirittura fuori da ogni proponibilità mentale.

Lo Stato etico depositario di una qualsiasi morale cui educare i popoli non attecchisce fortunatamente in Europa, ci vuol altro il resistibile fascino della Rice per renderlo accettabile nella terra di Talleyrand.

* * *

Che cosa dunque si può fare per chiudere finalmente il bubbone mesopotamico e quello palestinese, che nonostante qualche tenue progresso sono ancora pericolosamente aperti?

E che cosa si può fare affinché nuovi e devastanti conflitti non esplodano nelle mani della potenza imperiale ove mai essa fosse tentata ancora una volta dall´opzione militare?

La tregua fra Israele e la Palestina è sicuramente la notizia più confortante di questa agitata fase di errori e di ritardi. Lì le condizioni per un processo positivo ci sono e lì l´unità d´azione tra Usa ed Europa può rappresentare un elemento decisivo. Bisogna arrivare al più presto alla nascita dello Stato palestinese aiutando il negoziato tra le due parti anche attraverso finanziamenti massicci che diano lavoro, dignità e reddito stabile al popolo palestinese e rinsanguino le stremate finanze di Israele. Un vincolo associativo con l´Ue potrebbe anch´esso aiutare una soluzione rapida e duratura dando speranze e prospettive di futuro alla coabitazione pacifica dei due popoli in un così stretto fazzoletto di terra.

In Iraq, nonostante le elezioni, la partita è invece ancora apertissima.

Apertissima col terrorismo, che attizza ogni giorno la guerra civile.

Apertissima con l´emergente potere sciita che reclama uno Stato coranico e con l´autonomismo federalista curdo che già si atteggia a nazione separata.

Si vedono ora gli effetti nefasti e la difficoltà di limitarli, prodotti da chi, scoperchiando il vaso di Pandora, ha consentito il diffondersi di una nube di veleni mortiferi in tutta la regione.

Gli alleati europei possono fare ben poco in quel contesto.

Possono soltanto collaborare alla preparazione delle forze di sicurezza irachene e sollecitare un graduale ritiro delle forze di occupazione. E possono auspicare il riconoscimento di solide garanzie alla minoranza sunnita.

Ma sono parole. I fatti non dipendono da noi e neppure dall´America.

Dipendono dalle tribù irachene, dal clero che le guida, dall´aiuto economico che gli Usa saranno in grado di offrire. L´Europa nel suo complesso non ha voluto questa guerra; il dopoguerra ha confermato drammaticamente che l´Europa aveva ragione. Metterci di fronte ai fatti compiuti perseverando negli intenti missionari è un tentativo patetico che rinvierebbe a tempo indefinito la guarigione della piaga irachena.

Molto, ovviamente, dipende dall´opinione pubblica americana. Pongo qui una domanda di non secondaria importanza: se nella primavera del 2003 Bush avesse chiesto al suo paese e al Congresso di autorizzare la guerra irachena con l´obiettivo di abbattere il regime saddamista, sarebbe stato autorizzato a marciare? E Blair avrebbe avuto disco verde dalla camera dei Comuni? S´inventarono la fola delle armi di distruzione di massa per ottenere quell´autorizzazione. Diversamente la risposta del Congresso e dei Comuni sarebbe stata quasi certamente negativa.

La potenza imperiale, nella primavera del 2003, barò al gioco con l´Onu, con la Comunità internazionale, con l´Europa. Ma soprattutto con l´opinione pubblica del suo paese.

È improbabile che possa farlo un´altra volta se non vogliamo inoltrarci in un ventennio d´immani tensioni costellato da conflitti militari.

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