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Sergio Luzzatto
La politica muore a Venezia
29 Luglio 2013
Libri da leggere
Il paradosso di un filosofo prestato alla politica, rimasto un politico della domenica, un dilettante allo sbaraglio.

Il paradosso di un filosofo prestato alla politica, rimasto un politico della domenica, un dilettante allo sbaraglio. Massimo Cacciari descritto in un recente, maligno libro di Raffele Liuzzi come «responsabile più evidente di una città morta, spogliata da un turismo rapace e distruttivo». Il Sole 24 Ore, 28 luglio 2013

Se Gustav von Aschenbach, il protagonista di Morte a Venezia, potesse un giorno non remoto risorgere e far ritorno al Lido, si sparerebbe un colpo alla tempia. Annichilito non da un efebico biondino polacco, ma dal paesaggio sanguinante»: inizia così – con un'evocazione ironica di Thomas Mann – l'acuminato pamphlet che lo storico veneziano Raffaele Liucci ha dedicato a Il politico della domenica (Stampa Alternativa, Viterbo, pagg. 47, € 1,00), cioè a Massimo Cacciari. Per quasi un ventennio, dal 1993 al 2010, il signore incontrastato di Venezia (tre mandati come sindaco). Ma anche, secondo Liucci, il responsabile più evidente dello stato di crisi in cui versa oggi la Serenissima, «una città morta, spogliata da un turismo rapace e distruttivo».

Almeno quanto lo scandalo rappresentato dalle immense navi da crociera che solcano il fragilissimo canale della Giudecca per deliziare i turisti con un «inchino» a piazza San Marco, Liucci imputa a Cacciari, per l'appunto, il disastro urbanistico del Lido. Una devastazione camuffata da «riqualificazione». Il progetto di un nuovo Palazzo del Cinema finito nel nulla dopo gran dispendio di soldi pubblici, e la realtà di una cementificazione dell'isola a colpi di villaggi-vacanze, centri commerciali, darsene per yacht. Nonostante le proteste delle associazioni ambientaliste e dei residenti stessi del Lido, i «lidensi», da Cacciari ribattezzati «lidioti».

Avendo visto da vicino il sindaco all'opera, il veneziano Liucci si interroga – più in generale – sul paradosso Cacciari. Il paradosso di un filosofo interminabilmente prestato alla politica, eppure mai divenuto un professionista della politica nel senso nobile del termine: rimasto un politico della domenica, un dilettante allo sbaraglio. Ma l'italiano Liucci si interroga anche su un ulteriore paradosso. Il paradosso di un Cacciari ormai irrimediabilmente screditato in Laguna, eppure ancora credibile lontano da Venezia. Mediaticamente, un personaggio non rottamato: come dimostrano le sue innumerevoli comparsate nei salotti buoni delle televisioni pubbliche o private, e sui palchi dei festival maggiori o minori.

«Ormai Cacciari è diventato un tuttologo sfibrante, una sorta di Sgarbi del post-berlusconismo», scrive Liucci prima di fotografare en passant – ed è una pagina pamphlettisticamente magistrale – il Cacciari sociologo, il reduce, il critico, il cicloamatore, il teologo, il bioeticista, lo smanettone, il giornalista, il costituzionalista, il politologo, il tecnico, l'ospite, l'esorcista, l'antichista, il vaticanista, il rottamatore, il grillino, l'ambientalista... senza dimenticare lo storico («Erodoto Cacciari») e il latin lover («Eros Cacciari»). Ma se sorride del fregolismo mediatico del tuttologo, Liucci sorride meno delle sue connections politico-culturali. In particolare, dell'intesa cordiale che ha fatto di Cacciari, ateo dichiarato, un uomo di fiducia di don Verzé all'Università Vita-Salute San Raffaele di Milano.

Il «côté religioso» di Cacciari contribuisce a spiegare il ventennale suo regno sopra Venezia, che «è forse la città più clericale d'Italia». Una città dove non si muove foglia che il Patriarca non voglia. Perché «un confortevole, levigato, ragionevole, democratico giogo confessionale affligge la laguna». Ma il giogo non basta a frenare calcoli, interessi, speculazioni degli autentici padroni di Venezia, i signori piccoli e grandi del turismo: osti e locandiere, albergatori e affittacamere, immobiliaristi e commercianti, baristi e ristoratori, motoscafisti e gondolieri, battitori e intromettitori, ambulanti e abusivi. «Ormai Venezia è stata trasformata in "un immenso negozio ad uso dei turisti di passaggio", come ha dichiarato Italia Nostra all'indomani della cessione del Fontego dei Tedeschi (uno dei palazzi più preziosi della città) al gruppo Benetton, per farne un centro commerciale».

Liucci non arriva al punto di imputare integralmente a Cacciari la trasformazione di Venezia in «paese dei balocchi», né gli addebita interessi privati nel business della cementificazione. Piuttosto, Liucci tiene a riconoscere nel fallimento politico-culturale del filosofo veneziano il fallimento di un tipo umano: l'intellettuale italiano di sinistra fattosi adulto, negli anni Sessanta, a colpi di «operaismo», e poi per decenni – tra infinite giravolte politiche – portatore apparentemente sano di una cultura visibilmente malata: «una cultura verbosa e petulante, gonfia di sé come un pesce palla, ma inconsistente come una medusa», «un'accademia della fuffa e del manierismo».

Cacciari interessa a Liucci quale prototipo di una piccola corte di intellettuali (i Toni Negri, gli Asor Rosa, i Tronti) salpati insieme come «operaisti» e variamente naufragati, ciascuno per proprio conto, sugli scogli delle loro pseudo-rivoluzioni fallite. A Liucci interessa «la forma mentis volubile e capricciosa» di tali «banderuole esposte ai quattro venti», che «hanno trovato nella politica una valvola di sfogo ideale per il loro ego ipertrofico». Gente per cui «i fatti non contano mai nulla, contano soltanto le interpretazioni». Gente come Cacciari, che nel 2011 ha riassunto la sua lunga esperienza di sindaco di Venezia con queste alate parole: «La cosiddetta società civile ti invade ogni giorno l'ufficio perché ha la prostituta nel viale, o il casino nel bar sotto casa, o il mendicante o la strada dissestata. Un esercito di infanti incapaci di arrangiarsi su qualsiasi vicenda umana e terrena. E io rispondevo: va bene, ti faccio l'ordinanza, così smetti di rompermi le palle».

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