Stefano ha una storia normale: 36 anni, un lavoro a tempo indeterminato, guadagna - da contratto - appena 900 euro al mese. Vive nella periferia romana con il padre. Vorrebbe una sua casa, una sua famiglia. Ma con 900 euro al mese non è possibile. Per cercare di rompere l'accerchiamento della non-vita, Stefano sta pensando a un doppio lavoro. Magari in nero per portare a casa e per la casa un po' più di soldi. Ma Stefano non è una eccezione. La sua «normalità» chiama in causa quello che tutti ormai chiamano «crisi di credibilità della politica».
Stefano è una vittima della globalizzazione, che ha spinto i capitalismi a ricreare una sorta di «esercito di riserva» composto dai precari che debbono accettare una retribuzione inadeguata a vivere: il mercato non offre altro. E anche questo chiama in causa l'inefficacia della politica.
Ieri Montezemolo ne ha offerto la sua versione accusando la politica di essere inadeguata ai compiti della globalizzazione. Montezemolo è passato sopra ai dati sulla competitività dell'industria italiana, diffusi 24 ore prima dall'Istat, che mettono sotto accusa le aziende, la loro assenza in settori produttivi fondamentali, il loro modo di investire che privilegia il processo, anziché il prodotto. Insomma, molte industrie dovrebbero piangere per le loro colpe.
Montezemolo si è proposto profeta di una «nuova» politica, risolutiva di tutte le crisi di rappresentanza. Con domande retoriche ha spiegato alla platea che non esistono più confini tra destra e sinistra. L'ideologia è morta, insomma, e va sostituita con un modello buonista e efficiente dove stato e governo debbono essere funzionali all'impresa. L'equità, sulla base di questo ragionamento, è l'ultima delle preocupazioni.
L'accusa di Montezemolo alla politica ha solo l'obiettivo di far cadere su altri le responsabilità. Però nel ragionamento del presidente degli industriali esistono elementi che non possono essere trascurati. Insomma, è vero che lo stato e i partiti sono carenti, ma lo sono non nell'ottica di Montezemolo che farebbe a meno dello stato per delegare tutto (tutto ciò che non costa) alle imprese e favorire così i processi di globalizzazione. La Confindustria di Montezemolo mira a farsi stato e governo: a imporre le proprie idee sui processi non solo di produzione, ma sulla stesa democrazia.
Certo, la politica è fragile, confusa, e un po' corrotta, ma la verità è un'altra: l'Italia manca di una presenza autorevole del «pubblico» e delle scelte di politica economica che non possono essere delegate - lo diceva anche Keynes - ai privati. In questo non c'è nostalgia dello statalismo, ma la richiesta di soggetti pubblici - anche istituzionali - che ascoltino e cerchino di soddisfare le necessità di chi non vive, ma sopravvive. Non riducendo l'attenzione a carità pubblica. Per dirla in altro modo, occorre tornare ai diritti. Al diritto alla casa, alla salute, al lavoro, a salari e redditi adeguati anche per chi perde il lavoro. Sarebbe un modo per capire se la politica ha ancora un futuro.