Diciamo la verità: che alla fine arrivasse l’aut aut di Bruxelles c’era da aspettarselo. La Commissione europea è disposta a concederci due anni di proroga, dal 2013 al 2015, per ottenere i finanziamenti comunitari necessari a realizzare l’alta velocità Torino-Lione in cambio di un segnale concreto che facciamo sul serio. E questo segnale non potrà che essere l’avvio dei lavori del cosiddetto tunnel «esplorativo» nella polveriera della Val di Susa. In gioco ci sono 672 milioni di euro di cui 9, secondo il Sole24ore, sono già andati perduti: comunque vada siamo già fuori per una quarantina di milioni anche dalla scadenza del 2015.
Inutile dire che se il cofinanziamento europeo, il quale rappresenta il 27% del fabbisogno previsto a carico dell’Italia per l’infrastruttura di collegamento con la Francia, venisse dirottato come minaccia la Commissione verso altre infrastrutture, su quell’opera si potrebbe mettere una pietra tombale. Qualcuno indubbiamente gioirà. Ma per il Paese, comunque la si possa pensare, non sarà una buona notizia.
Una storia penosa, che dimostra purtroppo l’inadeguatezza (attuale) del nostro sistema nei confronti dei grandi progetti strategici. Soprattutto quando si tratta di compiere scelte di interesse generale che possono entrare in rotta di collisione con interessi locali. È lì che si misura tutta l’incapacità della nostra classe politica, più concentrata su obiettivi di breve periodo in vista delle successive elezioni invece che sul futuro del Paese.
Non per nulla la vicenda della Torino-Lione si trascina senza soluzione di continuità fin dal 1992: anno del primo governo di Giuliano Amato. «Un progetto vitale», venne definito dal comitato promotore, allora presieduto da Sergio Pininfarina, oggi senatore a vita. Due anni dopo, giusto una settimana prima della caduta del governo di Silvio Berlusconi, i ministri dei Trasporti italiano, Publio Fiori, e francese, Bernard Busson, firmarono l’accordo che prevedeva la costruzione di un tunnel di 60 chilometri sotto le Alpi. Obiettivo: togliere dalla strada 2,6 milioni di Tir. Tre anni più tardi, nel 1997, la prima fase di studi tecnici era conclusa. Costo: 60 miliardi di lire. Alla fine di gennaio del 2001 il presidente del Consiglio italiano, ancora una volta Giuliano Amato, e il presidente francese Jacques Chirac fissarono la data di entrata in esercizio della linea al 2015. Soltanto dieci mesi dopo, però, un nuovo vertice italo-francese, anticipò la scadenza di tre anni, al 2012.
Il nostro ministro, Pietro Lunardi, evidentemente non sospettava che nulla avrebbe potuto nemmeno la legge obiettivo. Senza poi considerare, al di là dei roboanti annunci berlusconiani, come di soldi in cassa per le grandi infrastrutture ce ne fossero davvero pochini.
Ripercorrere la strada di quello che è accaduto da allora è doloroso. Fra i proclami della destra e i balbettii della sinistra, nessuno è stato capace, per anni, di gestire la situazione. Non lo è stato, per ben due volte, il governo Berlusconi. E nemmeno il governo Prodi, nel quale coabitavano un ministro dell’Ambiente, Alfonso Pecoraro Scanio, che definiva la Torino-Lione «un danno ambientale e uno spreco economico» e un ministro dei Trasporti, Alessandro Bianchi, che ammoniva: «Se resteremo fuori dalle reti internazionali saremo destinati a restare fuori da un sistema globale per anni».
Le reti internazionali, appunto. Senza la Torino-Lione il mitico Corridoio V, la linea transeuropea che dovrebbe unire Lisbona a Kiev, non potrà passare per l’Italia. Come senza il Terzo valico dei Giovi sull’Appennino ligure non sarà completo il Corridoio 24, progettato per collegare il Mare del Nord (Rotterdam) con il Mediterraneo (Genova) attraverso il tunnel del Gottardo. Per inciso, gli svizzeri hanno appena finito di scavare quella galleria di 57 chilometri, mentre noi i lavori per quel valico non li abbiamo ancora iniziati: la riunione del Cipe che a metà ottobre doveva dare il via libera è stata rinviata ancora una volta. E in questo caso i No-Tav non c’entrano nulla.