Pazienza, il Mulino, Bologna 2014) sulla virtù più incompresa e inattuale: «Saper attendere è un atto politico». La Repubblica, 11 febbraio 2014
Voce tra le più amate e autorevoli della radio, Gabriella Caramore festeggia i vent’anni tondi di conduzione della trasmissione di cultura religiosa Uomini e profeti , una delle più scaricate sul podcast di RadioTre. Peccato soltanto che quell’autorevolezza conquistata sul campo, non trovi poi una congrua corrispondenza di ordine lavorativo: malgrado sia ormai in età di pensione, Caramore infatti continua ad essere una “precaria”, di nome e di fatto.
« Uomini e profeti non nasce con l’idea di andare contro qualcosa, o qualcuno. Però è animata dal desiderio di affrontare le tradizioni religiose con forte spirito critico. Vuole mettere in rilievo le contraddizioni, ma anche le potenzialità di intelligenza e libertà che emergono dai testi e che talvolta la costante tendenza al conformismo delle tradizioni tende a soffocare. Per questo occorre, rischiando anche di sbagliare, come tante volte mi è accaduto, giocare su una dinamica interpretativa: affrontando ad esempio i religiosi, che spesso si incatenano dentro uno schema rigido, secondo una prospettiva laica, e gli atei, talvolta un po’ puerili, secondo una prospettiva religiosa. È un modo diverso, mi sembra, per mettere il religioso a confronto con la complessità del nostro tempo».
Qual è il timbro più caratteristico della trasmissione?
«In primo luogo quello di far parlare in prima persona gli appartenenti a tradizioni diverse: cattolici di varia formazione, protestanti, ebrei, musulmani, buddisti, agnostici che non rifiutano il confronto con il religioso… Poi quello di prestare particolare attenzione alle Scritture, come è stato per il lungo ciclo dedicato alla lettura e commento della Bibbia. Inoltre, avere al fianco, come compagni di viaggio, teologi e studiosi come Paolo De Benedetti, Enzo Bianchi, Paolo Ricca, Salvatore Natoli, la teologa musulmana Shahrzad Houshmand, ma anche il profugo nigeriano, la dottoressa ucraina che da noi fa la badante, il carcerato... »
E dal punto di vista personale, che cosa ha rappresentato l’esperienza di un programma radiofonico che in un’epoca tutta schiacciata sul presente coltiva invece uno sguardo lungo, proiettato addirittura sull’eterno?
«Moltissimo. La possibilità di capire che dentro l’esperienza religiosa si annida un enorme potenziale di libertà. Oltre alla ricchezza degli incontri con gli ospiti, gli autori, un pubblico attento ed esigente».
Un certo vizio di andare controcorrente, comunque, lei non lo ha perso, come si evince leggendo il suo recentissimo libro sulla Pazienza ( Il Mulino), incentrato su una delle parole oggi più desuete.
«Per ragioni a tutti evidenti: la fretta, la velocità, l’ansia, la simultaneità delle nostre azioni. Ma credo che nella nostra cultura si debba aggiungere un’ulteriore ragione. Nella tradizione cristiana si è imposta un’idea della pazienza come sinonimo di patimento, sopportazione, mortificazione. È un’idea derivata da un’immagine riduttiva del Christus patiens , del Cristo in croce che poi si traduce nel più ordinario e fatalista “porta pazienza” del linguaggio quotidiano. Ma in questo modo si trascura un lato attivo della pazienza: il senso dell’attesa, della costruzione di futuro, di una fattiva speranza. Il Cristo patisce sì, ma non per amore gratuito della sofferenza. Lui non vuole morire in croce, in croce ce lo mettono! Oltre al fatto che spesso la sua parola ha un andamento irrequieto, un’insofferenza rispetto alla pervicacia del male, un giudizio severo e non tollerante nei confronti di chi fa merce delle cose di Dio, e di chi ne fa strumento di potere».
In pagine molto belle lei mostra come senza pazienza non esisterebbero né arte, né pensiero, né legame amoroso.
«Il bambino che cresce ha bisogno di tempo, e dunque di pazienza. Ne hanno bisogno gli amanti, per custodire il loro sentimento. Ne ha bisogno l’albero, che aspetta la primavera e l’estate per i fiori e i frutti. Quanto noi possiamo fare è creare un ambiente favorevole a questa crescita paziente, grazie alla cura che poniamo nelle cose in cui siamo impegnati e all’attenzione verso le creature che ci circondano. In questo modo si rovescia anche l’idea di pazienza come regno del privato, del piccolo sé. E grazie alla cura dell’altro si attribuisce a quel termine tutto il suo valore etico, civile, religioso. Ma anche politico, direi».
Del resto, anche i due miti fondativi della nostra tradizione, Ulisse e Mosè, conoscono - ciascuno a suo modo - la pazienza.
«Nel caso di Ulisse, la pazienza è un uso sapiente dell’intelligenza: tiene a freno le passioni in vista di uno scopo. Anche le figure che lo circondano nell’ultimo atto della sua vicenda, da Penelope alla nutrice al servo al cane, sono figure che trattengono l’impeto per noncompromettere il risultato».
Quanto invece a Mosè?
«Si parla sempre della pazienza di Giobbe, ma quella di Mosè non è da meno. Ed è una pazienza tutta legata all’amore per l’altro, alla sorte della sua gente. In verità Mosè comincia con un gesto di impazienza, uccidendo un egiziano che colpiva un ebreo, ma poi pian piano impara. Assume il suo destino di fuggiasco, acconsente alla chiamata del Signore. E sopporta l’impazienza del suo popolo, che durante la traversata del deserto rimpiange il tempo della schiavitù, perché alla fin fine è sempre più comoda la schiavitù della libertà. Infine, con pazienza, Mosè accoglie la sua morte da esule. Non è per sé che Mosè spera, ma per gli altri: forse la più bella immagine di cura che sia stata tramandata».
Un’ultima domanda, brusca e inevitabile, che si saranno posti anche tanti suoi ascoltatori. Lei crede in Dio?
«Per la verità non mi pongo tanto il problema. Non so chi sia Dio. Tutte le tradizioni ci raccontano tante cose di Dio, compresa quella biblica, per la quale il volto di Dio non si può vedere, il suo nome non si può pronunciare. È vero però che gli esseri umani hanno dato questo nome alla ricerca di qualcosa che va al di là della conoscenza umana, e che nello stesso tempo suggerisce al cammino dell’uomo un possibile orientamento in cerca del bene, della libertà, della giustizia. Il deposito di questa ricerca, presente nel racconto di Dio lasciatoci dalle diverse tradizioni religiose, è talmente imponente che non può non interessare anche gli atei e gli agnostici. L’idea di Dio come “invenzione” degli uomini mi sembra un po’ infantile. Non si tratta di un’invenzione, semmai di una “scoperta” della possibilità di vivere umanamente sulla terra, e della necessità di continuare sempre sulla via della conoscenza».