Non siamo i primi ad avere tanta paura. La storia è piena di società spaventate, immerse nei loro incubi. Da quel che possiamo intravedere nello scabro latino attribuito alle XII Tavole, gli abitanti della Roma arcaica - gli antenati di coloro che sarebbero diventati i padroni del mondo - erano letteralmente atterriti dal buio, già nelle loro stesse case. E nella Francia del Cinquecento, agli esordi della modernità, il terrore non doveva essere meno diffuso. «Paura panica (…) paura sempre, paura dovunque»: così scrive di quegli anni Lucien Febbre in un saggio sul problema dell´incredulità, che ancora leggiamo come un grande classico.
Il paradosso è che però le nostre società contemporanee – almeno in questa parte del mondo – sono anche, e di gran lunga, gli ambienti più sicuri che la storia abbia mai conosciuto: non per caso le nostre aspettative di vita si stanno allungando in modo quasi prodigioso, impensabile ancora agli inizi del Novecento, e ciò sta cambiando dall´interno la qualità stessa delle nostre esistenze. Ma la diffusione del timore e dell´ansia non si placa di fronte a una simile evidenza. Al contrario, se ne alimenta, rovesciando ogni conquista materiale, ogni soglia di agio raggiunta, nel fantasma della loro possibile perdita, nella prefigurazione continua dei pericoli che le minacciano, nell´incubo della loro imminente vanificazione. Si apre così una spirale senza fine, che sta trasformando la nostra età in un´autentica epoca d´angoscia – un fenomeno ormai molto studiato, di cui però non mi pare sia stato ancora messo a fuoco il punto cruciale, e cioè il rapporto che la rete mondiale dei mercati tende a stabilire fra tecnica e vita, fra benessere materiale e padronanza del proprio destino. Mentre la paura si sta installando come la compagna quotidiana di masse sempre più vaste e infoscate, e stiamo imparando a riconoscerla come il più popolare dei nostri sentimenti.
Dovunque in Occidente il discorso pubblico è stato investito in pieno da questa ondata, e il nesso fra politica e paura è diventato un vero e proprio segno del tempo. Ma è stato particolarmente in America e in Italia che la destra ha saputo trarne per prima vantaggio: Bush ha costruito gran parte della sua fortuna agitando lo spettro del terrorismo, e Berlusconi, da noi, non ha esitato a ridisegnare l´intera immagine del suo partito, dimenticando il trascinante ottimismo delle origini, per riuscire a intercettare il lungo brivido d´ansia che si sollevava dal Paese.
E si può dire ancora qualcosa di più. Che cioè è stata proprio questa capacità di interpretare e di dar voce alla nuova paura italiana che ha reso (o almeno ha fatto sembrare) la nostra destra davvero – e per la prima volta – una destra di massa e di popolo, capace di aggregare intorno a sé qualcosa di molto vicino a un blocco sociale e culturale relativamente compatto. All´opposto, lo schieramento di centro sinistra si è drammaticamente rivelato, in questo frangente, incapace di capire, di sintonizzarsi, di tradurre in politica la preoccupazione e il pessimismo diffuso nel corpo sociale, riducendosi a figurare come una parte chiusa, ingessata, tendenzialmente tecnocratica ed elitaria, in sostanza lontana dalle attese e dai bisogni degli elettori, votata all´autoreferenzialità e attenta solo al dosaggio fra le sue componenti.
Il nostro è un Paese culturalmente fragile, almeno dal punto di vista politico. La fine dei grandi partiti attraverso i quali è avvenuto il nostro non limpidissimo apprendistato repubblicano e democratico ha acuito una debolezza che ha origini molto lontane, cui non è estraneo il millenario magistero della Chiesa. Abbiamo sempre i nervi scoperti, e l´antipolitica a portata di mano. Ciò ci rende ancor più sensibili ed esposti rispetto alle contraddizioni di un´economia globale che per giunta sta avendo su di noi impatti sociali più forti che altrove (anche qui per ragioni connesse a storiche inadeguatezze e a squilibri mai compensati). Percepiamo – sia pure in modo confuso – che la sicurezza complessiva della nostra società sta aumentando, e di molto, ma percepiamo anche – e in modo assai netto – che le quote (per dir così) di questa nuova sicurezza si dividono tra gli aspiranti in modo drammaticamente diseguale, e che gli strumenti per accedervi – mobilità, spazio, informazione, tempo, servizi – si concentrano secondo modalità incontrollate. La consapevolezza dello scarto non si inscrive tuttavia in un´ormai impensabile coscienza di classe, ma dilata solo «l´orizzonte delle paure», come ha scritto Ezio Mauro su questo giornale il 17 giugno, e rende disponibili a una rappresentanza politica che fa, appunto, del timore e della frustrazione il suo collante, che tende a sostituire la delega alla partecipazione, e si mette alla testa delle nuove "plebi"(o presunte tali) non con un messaggio di riscatto radicale, ma con la suggestione di cure assolutamente parziali, però brutalmente efficaci e immediate: Robin Hood tax, ronde e tessere di povertà. E per il resto, calcio (ma l´avete visto il Tg1, in queste sere?), congiunto all´ostentata esemplarità – tra mito e reality – di irresistibili ascese "private", baciate dal denaro e dalla fortuna.
Non sarà facile sostituire all´asse maggioritario fra destra e paura, un opposto legame, fra sinistra e speranza. Ma credo proprio che solo questo potrà essere il nostro compito, e che vi sia d´altra parte – nel mondo che ci aspetta – una intrinseca e oggettiva somiglianza fra la composizione organica della nuova paura e quella della nuova destra (l´idea del vincolo, del limite, del ritorno – altro che libertà!), come ve ne sia una, alternativa, fra sinistra e speranza (l´idea della liberazione, del superamento, della ragione che sa farsi progetto e futuro). Mettersi su questa strada non è semplice. Essa presuppone una critica conseguente dei lati negativi della globalizzazione, che, pur assumendo quest´ultima come un punto di non ritorno – ciò deve restare fuori questione, nello stesso modo in cui lo era per Marx la società capitalistica – sia capace di rendere plausibili ed evidenti le linee di un suo riequilibrio virtuoso, prima locale ma poi completamente planetario. C´è bisogno cioè che la critica dell´economia globalizzata si apra su quella che Jonas e Bauman chiamano una nuova "immaginazione etica", adeguata alle nostre responsabilità, e su una nuova teoria della politica. E questo non sarà possibile se non si tornerà a lavorare, in Europa, a un nuovo rapporto fra intellettuali e popolo, post-ideologico, ma non post-democratico. Sarà bene che l´architettura culturale del Pd che sta nascendo ne tenga debito conto.