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Eugenio Scalfari
La patacca che ha fatto il giro del mondo
6 Aprile 2006
Articoli del 2005
Nel consueto editoriale domenicale, il fondatore de la Repubblica (20 marzo 2005) esplora l'ultima bufala del capo del governo italiano

NEL pasticcio mediatico-diplomatico creato da Berlusconi sulla questione del ritiro dall´Iraq, la sola vera notizia che resta in piedi è la "non-notizia". Il presidente del Consiglio, a poche ore di distanza dal cancan sollevato a Porta a porta il 15 marzo, l´ha addirittura teorizzata; ha preso carta e penna e ha scritto una lettera al presidente della Camera: "Non verrò in Parlamento come chiede l´opposizione. Che cosa verrei a dire? Dovrei forse commentare una non-notizia?".

In un certo senso ha ragione, ma in un altro senso ha invece torto marcio. Resta infatti da chiarire perché sia andato in televisione per lanciare sulle onde dell´etere una non-notizia che ha fatto in pochi minuti il giro del mondo suscitando precisazioni e richieste di chiarimenti da parte di Bush incalzato dalla stampa americana, precisazioni e smentite da parte di Blair dinanzi ai Commons, disagio nel ministro degli Esteri Gianfranco Fini, irritazione vivissima al Quirinale.

Tutto questo bailamme per una non-notizia? Una gaffe madornale (l´ennesima) del premier italiano? Un rischio calcolato a fini elettorali? Oppure l´autentico desiderio di preparare uno sganciamento dall´amico americano senza però la forza di realizzarlo, facendo macchina indietro dinanzi all´immediato richiamo all´ordine da parte della Casa Bianca? Ezio Mauro, il giorno stesso in cui la non-notizia è rimbalzata sui tavoli delle redazioni, ne ha individuato esattamente la natura: uno spot pubblicitario per riassorbire il distacco crescente della maggioranza dell´opinione pubblica dalla presenza italiana in Iraq; un gioco delle tre carte condotto spregiudicatamente su un tema delicatissimo che vede in gioco la stessa incolumità dei militari italiani a Nassiriya; una perdita drammatica di credibilità del nostro paese sulla scena internazionale.

«Ma nel tuo paese c´è ancora tanta gente che crede a queste panzane?», mi ha chiesto un collega inglese che aveva appena ascoltato le dichiarazioni di Blair a Westminster. Spero di no, gli ho risposto, ma francamente non ne sono sicuro.

Il tema dunque è questo: il presidente del Consiglio prepara e lancia spot pubblicitari con la connivenza d´un eminente giornalista del servizio pubblico televisivo (che si guarda bene dal metterlo in difficoltà) nel tentativo di riguadagnare un consenso che sta perdendo, e usa per questa indecente operazione niente meno che il tema della pace e della guerra, incurante del fatto che abbiamo in Iraq più di tremila soldati, blindati in una sorta di fortezza dei Tartari, a rischio di azioni di terrorismo e di guerriglia di cui spot così irresponsabili potrebbero elevare l´intensità e la pericolosità.

Questo tema, secondo me, non è ancora stato ben valutato né dalle forze politiche della maggioranza ma neppure (spiace dirlo) da quelle dell´opposizione.

* * *

Ci voleva poco a capire che l´exit strategy berlusconiana era totalmente inesistente. Bush, che parla per tutta la coalizione dei "volenterosi" l´aveva già detto subito dopo le elezioni irachene del 30 gennaio: «Nessuno più di noi desidera riportare a casa i nostri soldati. Non resteremo in Iraq un giorno di più del necessario, ma neppure un giorno di meno. Ce ne andremo quando le forze della polizia e dell´esercito iracheno saranno in grado di garantire la sicurezza del paese e quando il governo iracheno ce lo chiederà».

Il 15 marzo Berlusconi ha ripetuto questa frase quasi compitandone il contenuto. Ma con una aggiunta: «Ferme queste condizioni, cominceremo a preparare un graduale ritiro entro il prossimo autunno». «Quando esattamente?», ha chiesto il conduttore della trasmissione. «A settembre» ha risposto il premier. «Questa sì che è una notizia», ha chiosato il conduttore adorante.

Invece no, era ovviamente una non-notizia, vincolata a una serie di condizioni molto lontane dall´essere adempiute. Le forze di sicurezza irachene sono ancora scarse, impreparate, inaffidabili, a detta degli stessi generali americani incaricati della loro istruzione.

Guerriglia e terrorismo insanguinano l´Iraq sunnita (e non solo quello) ogni giorno. L´Assemblea nazionale votata il 30 gennaio si sta ancora accapigliando perché sciiti e curdi litigano sul federalismo, sulla legge coranica, sul petrolio di Kirkuk. In più, nel corso dei prossimi mesi, dovrà esser votata la Costituzione e, entro il gennaio 2006, un´altra assemblea che dovrà eleggere un governo definitivo (quello attuale è provvisorio).

In queste condizioni parlare di ritiro dai «volenterosi» cominciando dal prossimo settembre è pura chimera, a meno che non si tratti d´una decisione unilaterale come fecero gli spagnoli di Zapatero e come hanno deciso di fare i polacchi e gli ucraini.

«Presidente, perché ha parlato di settembre?» gli ha chiesto il 16 marzo un cronista dell´Unità. «Perché noi crediamo, anzi io credo, che a settembre le forze di sicurezza irachene istruite da noi saranno pronte ad entrare in azione», ha risposto il premier. Ed è vero, a settembre i militari italiani che a Nassiriya addestrano un contingente di poliziotti iracheni avranno terminato il corso di istruzione di qualche centinaio di unità. Voleva dire il nostro premier che in quel momento ce ne andremo per esaurimento del nostro compito? Neppure per sogno. Bush non ha alcun bisogno "militare" delle truppe italiane a Nassiriya, dove il potere reale è nelle mani delle tribù sciite come in tutto il Sud del paese. Ma Bush ha bisogno "politico" dei soldati italiani. Se ce ne andassimo infatti, i soli "volenterosi" resterebbero gli anglo-americani. Noi non abbiamo nessun compito da svolgere; la preparazione dei poliziotti iracheni poteva essere tranquillamente fatta fuori dal territorio di quel paese, come hanno deciso di fare la Francia e la Germania; l´assistenza alla popolazione potrebbe essere condotta dalla Protezione civile e dai volontari, con molto minore costo.

Noi siamo a Nassiriya soltanto per ragioni politiche che consentono a Bush di mantenere la facciata del multilateralismo e a Berlusconi di sostenere l´esistenza di un rapporto preferenziale tra Usa e Italia e quindi di una crescente importanza del nostro Paese sulla scena internazionale.

Dunque a settembre non esisteranno le condizioni per iniziare l´exit plan che esiste solo nella testa di Berlusconi. Ma la non-notizia lanciata a metà marzo, venti giorni prima delle elezioni regionali, sarà potuta servire a recuperare qualche consenso da parte degli elettori della Casa delle Libertà, indignati dall´uccisione del nostro agente segreto al check-point dell´aeroporto e disincantati dalle tante panzane berlusconiane. «Esiste ancora gente che gli crede?» ebbene sì, esiste ancora. E così uno statista da operetta gioca con la credibilità internazionale del Paese.

* * *

Piero Fassino e Massimo D´Alema hanno capito fin dall´inizio la natura della patacca berlusconiana. Patacca in sé. Noumeno di patacca. Ma non ci hanno insistito quanto quel noumeno avrebbe forse meritato. Prodi ha preferito non parlare, ma forse, a volte, l´eleganza non buca il video. Le altre reazioni si possono suddividere in due categorie.

La prima, della cosiddetta sinistra radicale, ha lo stigma di Sigonella, quando l´allora premier Bettino Craxi coprì un´illegalità del suo governo denunciando l´illegalità eguale e contraria del governo americano, che pretendeva di spadroneggiare nella base militare di Sigonella. La sinistra italiana (allora il Pci) non vide la prima illegalità con la quale furono sottratti dal governo alla magistratura italiana alcuni pericolosissimi terroristi mediorientali, ma applaudì entusiasticamente il premier italiano che una volta tanto aveva messo in riga gli americani. Così nel caso di Berlusconi, lo stigma di Sigonella si è fatto sentire ancora una volta e la sinistra radicale ha puntato sul premier «che sembrava prendere le distanze dalla Casa Bianca».

Il secondo tipo di reazione, del centrosinistra riformista, è stato di prendere sul serio Berlusconi sostenendo che finalmente il premier si spostava sulla linea dell´opposizione rendendo possibile a quest´ultima di convergere con la maggioranza «guardando al futuro».

Pessime entrambe queste reazioni, che avevano capito niente o ben poco della vera natura della patacca lanciata a Porta a Porta.

* * *

Dedico qualche riga finale al prestigio internazionale dell´Italia che deriverebbe dal preteso asse Washington-Roma del quale la nostra presenza militare in Iraq sarebbe al tempo stesso causa ed effetto. A parte il fatto che di special relationship vera e reale con Washington ce n´è una sola ed è quella britannica.

Il filo diretto tra Berlusconi e Bush, se si prescinde dalla cosiddetta politica delle pacche sulle spalle, non ha dato all´Italia nessun vantaggio concreto in termini politici, strategici, economici. Ma per ovvie ragioni ha marginalizzato l´Italia rispetto all´Unione europea e alle nazioni che ne costituiscono il nucleo principale.

Il recente viaggio in Europa di Bush e di Condoleezza Rice, che ha gettato le basi di una ricucitura tra Usa da un lato e Germania e Francia dall´altro, ha del resto diminuito il peso del governo di Roma anche agli occhi dell´amico George. Berlusconi poteva servire per dividere l´Europa, ma serve molto di meno da quando l´America si è accorta d´aver bisogno dell´Unione europea e non di un suo membro soltanto.

Queste considerazioni dovrebbero spingere il nostro governo ad una profonda revisione della sua strategia internazionale. Ma un governo pataccaro non sembra il più adatto alla bisogna.

* * *

Post Scriptum. Miriam Mafai ha benissimo scritto ieri sull´invadenza crescente e non più oltre tollerabile della gerarchia ecclesiastica italiana, cardinal Ruini in testa, nella politica del nostro paese. I continui interventi dei vescovi sulle modalità del voto nel prossimo referendum vanno assai al di là del caso specifico pur importantissimo e violano i rapporti di correttezza tra due entità, lo Stato e la Chiesa, che il Concordato stabilisce indipendenti e sovrani nelle relative sfere di competenza.

Da interventi siffatti viene distrutto il principio stesso della laicità delle istituzioni civili e dei cittadini che esse rappresentano.

Nessuno nega alla gerarchia ecclesiastica il diritto di parlare e di diffondere liberamente i dogmi della sua dottrina e i valori della sua morale. Nessuno le impedisce, nella fattispecie, di sostenere che l´embrione è vita umana e attuale (anche se i padri della scolastica con san Tommaso in testa affermavano diversamente) e che distruggerlo equivalga ad un omicidio. Il Papa è addirittura arrivato a paragonare l´aborto alla Shoah.

Ciò che invece la gerarchia ecclesiastica non può fare senza violare clamorosamente le norme concordatarie è prescrivere il comportamento dei cattolici e in generale degli elettori per quanto riguarda le modalità del voto in una consultazione elettorale prevista dalla Costituzione italiana.

I vescovi sono arrivati al punto di definire «immaturi» quei cattolici che andranno a votare al referendum e invece «maturi» solo quelli che si asterranno dal voto. E così risulteranno immaturi i cattolicissimi Scalfaro e Andreotti. E naturalmente immaturo Romano Prodi che ha detto di essere tenuto ad obbedire alla propria coscienza di cattolico ma non ad obbedire al «non expedit» dei vescovi.

L´arcivescovo di Genova dal canto suo ha prescritto ai cattolici di non leggere il libro "Il Codice da Vinci". I parroci d´un piccolo paese di Calabria nel quale il filosofo Gianni Vattimo si presenta come candidato sindaco, parlano in chiesa dal pulpito vincolando i fedeli a votargli contro.

Tutti questi casi, dal più grande al più piccolo, sono violazioni macroscopiche del Concordato. Alcuni di essi configurano addirittura reati penali per i quali le Procure della Repubblica dovrebbero intervenire.

Spiace che un cattolico democratico come Enrico Letta, figura eminente d´un partito di centrosinistra, annunciando che si asterrà dal voto referendario (cosa che rientra nella sua libera decisione) non spieghi almeno le ragioni che lo inducono a ignorare le motivazioni dei requisiti referendari. Spiace soprattutto che, assumendo lo stesso comportamento raccomandato dal cardinale Ruini, non aggiunga di considerare in debito l´intervento della gerarchia vescovile che getta più di un´ombra sulla laicità dei cattolici quando essi decidono autonomamente di adottare il comportamento dell´astensione.

Quisquilie? Al contrario. Principi essenziali della convivenza civile. Il non expedit cadde con la firma del Concordato del ‘29. Ci si ritorna 76 anni dopo? E i cattolici della Margherita accettano senza fiatare questo rigurgito clericale? Speravamo che fossero usciti di minorità. Ci eravamo dunque illusi?

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