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Bruno Accarino
La passione della mediocrità
30 Maggio 2009
Articoli del 2009
La questione etica che coinvolge il premier cela in realtà il problema di una selezione della classe dirigente funzionale perchè fondata sulla mediocrità. Da il manifesto, 30 maggio 2009 (m.p.g.)

Quando comparvero i primi segni della crisi finanziaria, non pochi osservarono, anche nelle nostre file, che si trattava di un fenomeno né inedito né sconvolgente: bastava sfogliare nei punti opportuni Il capitale di Marx per trovare i profili del sistema creditizio nella sua dipendenza dal modo di produzione dominante. L'osservazione mi apparve e mi appare un po' scolastica e pedagogica, quasi che la stessa scena non facesse altro che ripetersi, con attori diversi, e quasi che vi fosse bisogno di ricordare che in Marx giacciono molti tesori oggi finiti nel dimenticatoio.

Ma che cosa ha a che fare il sistema creditizio analizzato da Marx con le manovre di alcuni pescecani che sono in grado di spostare in pochi minuti cifre tali da alterare equilibri economici mondiali? Ogni volta che ricompaiono fenomeni da capitalismo predatorio, i quadri concettuali della razionalità di sinistra vacillano. Le motivazioni sono più che plausibili: la critica del capitalismo predatorio non stonerebbe in bocca ad un fascista di sinistra, può confusamente accompagnarsi a lamentazioni, venate di antisemitismo, contro le plutocrazie, ed un tradizionalismo cattolico da vandea potrebbe ben schierarsi, nonostante l'imbarazzante contromodello dell'Opus dei, contro operatori economici spregiudicati e privi di scrupoli.

Qua e là può affacciarsi anche il ritornello dei mercanti e degli eroi, a distribuire la propensione alla rapina dalla parte dei primi e la titolarità della virtù umanistica dalla parte dei secondi. La distanza dei patrimoni teorici del movimento operaio organizzato dalle categorie del capitalismo predatorio è stata sempre un punto d'orgoglio: di fronte a quel quotidiano attentato alla razionalità che è il capitalismo, sono pensabili e perseguibili, con la lotta politica, livelli superiori di razionalità sociale, di equilibrio e di giustizia, ma il giudizio morale deve interferire il meno possibile. Il discorso fu chiuso in fondo dallo stesso Marx, che tirò fuori una metafiora teatrale: non ce l'ho con il capitalista, è solo una "maschera di carattere", ho ben altro a cui pensare che accanirmi contro questo o quel grassatore di strada, la soggettività dello sfruttatore di turno la lascio ad altri.

Il cammino che porta ai nostri giorni è lastricato di allarmi. Il primo, ignorato, coincise con il famoso pronunciamento di Enrico Berlinguer sulla questione morale e con la diffusa, e malcelata, mancata condivisione dello stesso. Eppure Berlinguer, il quale sarebbe stato il primo a respingere l'idea del potere giudiziario come succedaneo o come supplente a tempo pieno della politica, aveva detto in fondo, a ripensarci, una cosa di luhmanniana, fredda razionalità: se consentiamo alla questione morale di tracimare e di occupare gli spazi della politica, smetteremo di fare politica. Non si può dire che il vaticinio fosse campato in aria.

Le passioni, a cominciare dall'avidità (di soldi o di potere), vengono in genere trattate sub specie aeternitatis: oggi forse qualche neuroscienziato suggerirebbe di andare a caccia di questo o di quell'enzima, tanto per dare un tocco di inaggirabile definitività bio-antropologica. Ma le passioni possono essere storicizzate, come del resto può essere monitorata nel tempo la caduta tendenziale del saggio di ironia e di autoironia disponibile in una comunità civile: quante volte la filmografia di Totò ha spernacchiato ante litteram, direttamente o indirettamente, un personaggio come Brunetta? Ad aggravare la nostra pena c'è la consapevolezza che lo storico del futuro non potrà scrivere della nostra epoca senza sbellicarsi dalle risate.

Se le passioni vengono storicizzate, si può scoprire che anche la rapacità ha un suo diagramma, fatto non di secca presenza e di altrettanto evidente assenza, ma di alti e di bassi, di pudore e di impudenza, di controllo e di smodatezza. È sotto gli occhi di tutti che un'Europa post-bellica, impegnata nello sgombero delle macerie e in un elementare processo di accumulazione capitalistica, aveva imbrigliato in una mappa segnata da schieramenti politici veri le più distruttive escrescenze passionali. Congiurò positivamente la possibilità di ereditare dalla guerra, o addirittura dalla lotta antifascista, aristocrazie politiche dotate, o presto investite, di vocazione costituente. Anche sulle politiche di welfare non gravò l'ombra dell'umiliazione e dell'obolo, perché aveva una sua chiarezza il compromesso di classe sul quale esse erano fondate. Giova ricordare che a quei tempi in Italia si sparava spesso e volentieri sui lavoratori in sciopero, in attesa della più radicale stagione delle stragi di Stato: il clima non era da happening, tuttavia erano meno aggressive, o del tutto inesistenti, quelle corporate identities che assommano schiavitù volontaria e grinta espansionistica, e nelle quali il profilo identitario, pur di rimanere tale, può accumulare potere perfino accettando il rischio dell'estremismo disfunzionale e autolesionistico.

Oggi la scorciatoia delle curve femminili nella selezione della classe dirigente e nella cattura del consenso non inventa la neo-passione del mercimonio sessuale, ma sancisce e quasi formalizza l'assai più vetusta passione della selezione positiva della mediocrità o dell'innocuità, finalizzata a non disturbare il manovratore. I conservatori post-1789 arricciarono il naso di fronte a quella manica di socialmente scapestrati - zero tituli, direbbe Mourinho - che andò a costituire l'Assemblea nazionale francese: la cui bastarda composizione sociale fu tematizzata, però, solo perché si intravvedeva all'orizzonte il fabbisogno crescente di competenze e di saperi organizzativi, tecnici e gestionali che fanno un governo, o forse una governance. Anche un bambino sarebbe stato capace di maramaldeggiare sull'insipienza fiscale dei rivoluzionari.

Il vero conflitto con la cultura di destra non è più sull'uso dei congiuntivi, anche se difficilmente dalle truppe di Bossi verranno scoperte scioccanti di filologia dantesca. Le curve femminili danno il senso della migrazione delle competenze lontano dall'agone politico e preoccupano non in quanto indice di immoralità, ma perché invitano alla dissociazione tra politica e conoscenza, tra classe dirigente e sobrietà, con una sorta di franchigia riservata alle idiozie.

A questo punto il corpo femminile è una protesi che accelera i processi di iniziazione e di acclimatazione nelle stanze del potere, ma perde di specificità e vale quanto un'altra protesi qualsiasi: quanto ad efficacia operativa, quella del portaborsismo zelante e del sacrificium intellectus non scherza e, a occhio, annovera percentuali di praticanti assai più maschili che femminili.

Una volta eravamo preoccupati, con spirito genuinamente weberiano, che la tecnica e la burocrazia potessero scipparci la passionalità della politica, oggi siamo sgomenti di fronte alla possibilità di essere travolti dal dilettantismo. O forse non sappiamo che, scavalcata la scena presidiata dai giullari, i destini del mondo si giocano in altri centri di potere, che trattano i giullari con la stessa puzza al naso che avevano i lords inglesi nei confronti dei presumibilmente malvestititi e maleodoranti citoyens.

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