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Edoardo Salzano e Enzo Scandurra
La parola “sinistra"
21 Agosto 2017
Sinistra
Una tesi sulla Sinistra, di Edoardo Salzano, e un dialogo tra Salzano ed Enzo Scandurra. La discussione è aperta, anche nei commenti in calce al testo.
Una tesi sulla Sinistra, di Edoardo Salzano, e un dialogo tra Salzano ed Enzo Scandurra. La discussione è aperta, anche nei commenti in calce al testo.


Premessa

La parola “Sinistra” viene adoperata in modo ricco di molteplici ambiguità. Abbiamo avviato una riflessione per comprendere quale significato possa assumere in una situazione – quella di oggi – radicalmente diversa di quella del secolo in cui quell’espressione ebbe maggior fortuna. Una parola che comunque continua a costituire un riferimento per gli immaginari e le strategie di oggi.

Abbiamo iniziato a ragionarne con un articolo di Edoardo Salzano, dal titolo “La parola sinistra”, scritto nel luglio 2017 in replica a uno scritto di Enzo Scandurra, e abbiamo proseguito con un dialogo tra Salzano e Scandurra. Pubblichiamo oggi l’articolo originario di Salzano, con il titolo “una Tesi”, e il successivo dialogo tra Salzano e Scandurra, con il titolo “un Dialogo”. La pubblicazione di questi due testi vuole essere lo stimolo ad aprire un dialogo più ampio.

UNA TESI
di Edoardo Salzano

Quando si parla di “sinistra ci si riferisce generalmente, in Italia, quella sinistra politica le cui vicende hanno contrassegnato il XIX e XX secolo. Una vicenda che in Italia ha visto i primi passi nella “predicazione “ socialista di Camillo Prampolini e Filippo Turati, poi ha proseguito con la fondazione del Partito comunista d’Italia e la partecipazione determinante alla Resistenza, ed ha avuto a mio parere il momento più alto nel PCI, il “partito di Gramsci, Togliatti, Longo e Berlinguer”.

Quella vicenda è proseguita poi sempre più stancamente negli anni successivi: quando il rosso, scolorandosi in un rosa sempre più pallido, si è mescolato con colori sempre più scuri. Riassumerò quella vicenda utilizzando quattro parole chiave: globalizzazione capitalista, sviluppismo, migrazioni, disoccupazione

1.Globalizzazione capitalista

La sinistra, nell’assumere come compito storico la difesa delle classi sociali direttamente sfruttate dal capitalismo, ha anche accompagnato le varie fasi della nascita e dell’affermazione di quel sistema contrattando le forme e i limiti dello sfruttamento riuscendo, a al tempo stesso, in gran parte del mondo, i principi della Rivoluzione liberale dove essi consentivano il maggior peso del potere antagonista delle classi lavoratrici.

Il momento culminante del ruolo salvifico della sinistra si manifestò negli anni delle Seconda guerra mondiale. Il potere del proletariato e delle altre classi subalterne si era affermata come prima forma di un ordinamento nuovo (il “socialismo”, predicato e praticato come prima tappa del percorso verso il”comunismo”). Esso tuttavia non aveva “rotto la catena del potere capitalista nel suo “punto più alto” (l’Europa e gli Usa, permeati da principi liberali), ma nel “punto più basso”(là dove erano falliti i tentativi di introdurre forme diverse dall’autocrazia zarista e dalla servitù della gleba)

In quegli anni, emerse il mostro covato nelle viscere del capitalismo, il Nazismo. La sua presa del potere in uno dei paesi chiave del capitalismo, la Germania, fu immediatamente seguita dalla tigre asiatica, il Giappone, e dal vassallo mediterraneo, l’Italia. Seguì. sperimentazione di nuovi strumenti di guerra in Ispagna. Poi qualcosa cambiò.

Dopo una fase di tentennamenti, si costituì l’alleanza antifascista degli stati e delle aree politico-culturali e sociali che storicamente esprimevano le due facce del capitalismo reale, quello “di Stato”, in Urss e quello “privato a sostegno statale” nel resto del mondo permeato dai principi del liberalismo. Quell’alleanza sconfisse la peggiore catastrofe che minacciava l’umanità:la vittoria dell’Asse nazifasciata nel mondo.

Ma all’indomani dello scioglimento di quell’alleanza nacque la nuova risposta strategica alle “velleità” di superare il capitalismo: la Dottrina Truman. Nel frattempo le difficoltà interne e gli impegni militari avevano condotto all’interruzione del sostegno da parte dell’Urss all’indipendenza di molti stati dell’Africa.

Dal “socialismo reale” non si avanzò mai verso il “comunismo”

2. Sviluppismo

Quella stessa sinistra che ha accompagnato e “servito” l’evoluzione storica del sistema capitalistico aveva collaborato con esso (oppure aveva subìto senza comprendere né reagire) in alcune operazioni che hanno radicalmente mutato il quadro delle ideologie, dei valori, delle strategie e delle pratiche di quel sistema, preparando il terreno per quell’assetto dei poteri che caratterizza oggi il mondo “globalizzato”, e viene diversamente definito dai diversi analisti: da “Neoliberalism” (David Harvey) a “Finanzcapitalismo” Luciano Gallino).

Mi riferisco a una serie di operazioni di vario genere e operanti su vari piani, che hanno coinvolto e stravolto la persona umana in molte sue dimensioni. Mi riferisco all’aver accettato, da parte delle sinistre del passato, la “esportazione delle contraddizioni del capitalismo”, effettuata quando la riduzione dei profitti conseguente alle conquiste delle classi lavoratici aveva spinto le classi dominanti a compensarla con un aggravamene e un ampliamento dello sfruttamento dei popoli via via colonizzati (vedi la denuncia di Lenin in L’imperalismo fase suprema del capitalismo).

E mi riferisco soprattutto a quella che è stata definita “la credenza dello sviluppo” (Gilbert Rist, Lo sviluppo, Storia di una credenza occidentale) Qualcosa che è molto più che una ideologia o una convinzione razionale, ma è una fede quasi fanatica per la possibilità dell’indefinito aumento della capacità della produzione di merci, e dell’applicazione di sempre più evolute tecnologie, per affrontare e risolvere tutti i mali del mondo.

La cecità di questa credenza è risultata evidente quando le ragioni dell’ecologia hanno iniziato ad apparire: quando i “limiti dello sviluppo”, l’impossibilità di conservare il pianeta Terra continuando a consumarlo in dosi sempre più massicce, hanno fatto emergere una “consapevolezza ecologica”. E quando poi i fenomeni planetari connessi a queste cause sono apparsi nella vita quotidiana (l’effetto serra, il surriscaldamento dell’atmosfera, la desertificazione di vaste aree, lo scioglimento dei ghiacci).

Eppure, anche laddove e quando questa realtà ha cominciato a diventare evidente a gran parte della “vecchia sinistra” questa è rimasta incollata alla sua credenza. Lungi dall’abbandonarla ha inventato a slogan, strumenti e proposte presentati come capaci di guarirne gli effetti.

È nata così la “green economy”: un aggiustamento marginale del sistema economico dato, e da parte questo “sostenibile”, cioè “sopportabile. Il camuffamento operato dalla Commissione Bruntland, che ha fornito così oltretutto una parola, “sostenibilità”, da pronunciare ore rotundo da tutti gli sviluppisti mascherati, nonché un nuovo campo d’affari all’altra creatura della cecità della “vecchia sinistra: il Neoliberalism.

3. Migrazioni

Un ragionamento altrettanto severo è necessario se si esamina il ruolo svolto dalla “ sinistra” nei confronti dell’altra grande tragedia dei nostri tempi: quella delle migrazioni. Come non seppe comprendere l’avvento della globalizzazione capitalista, come cascò nella trappola dello sviluppismo, così non comprese che l’imperialismo analizzato da Lenin era sopravvissuto alla fase del colonialismo: era divenuto “imperialismo puro”, potere dominatore molto al di là dello sfruttamento economico: potere capace di plasmare i molteplici dispositivi mediante i quali pochi uomini riescono ad asservire tutti gli uomini. Non è certamente un caso se le ultime grandi manifestazioni per la pace – un campo peculiare alla sinistra mondiale – si siano spente dopo la ventata del 1968. come se la sinistra si fosse ormai rassegnata alla vittoria definitiva del capitalismo

Si tratta, in sostanza, di un’altra faccia dello “sviluppismo” Si tratta di non aver compreso che per eliminare tutte le cause del dolorante esodo dal Sud ai Nord del mondo occorreva rovesciare completamente le ideologie le strategie, i modelli specifici da applicare per eliminare le cause dalla migrazioni provocate da guerre e persecuzioni, carestia, siccità, sfratti. Occorreva, in altri termini, abbattere e trasformare dalle radici il capitalismo.

4. Disoccupazione

Dimenticare l’errore originario del capitalismo (aver ridotto ogni cosa a merce, a partire dal lavoro) ha condotto la sinistra a balbettare di fronte al crescente dramma dalla disoccupazione.

Karl Marx ha dato una definizione della forza lavoro e del lavoro da un punto di vista generale, antropologico, esterno quindi al capitalismo: «Per forza-lavoro o capacità di lavoro intendiamo l'insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità vivente d'un uomo, e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d'uso di qualsiasi genere. (Capitale , libro Primo, sezione III); «In primo luogo il lavoro è un processo che si svolge fra l'uomo e la natura, nel quale l'uomo, per mezzo della propria azione, media, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi dei materiali della natura in forma usabile per la propria vita (Capitale, libro Primo, sezione IV).

Partendo da questa premessa e sviluppandola grazie al lavoro di Claudio Napoleoni ho sostenuto che il lavoro può (vedi l’eddytoriale n. 144) e quindi deve, essere utilizzato dall’uomo non solo in relazione alla sua propria sussistenza e riproduzione, ma a qualsiasi fine socialmente utile e produttore di valor d’uso a cui egli ritenga utile applicarlo, comprendendo tra tali attività tutte quelle finalizzate alla ricerca della verità, della bellezza, della comunicazione di se stesso e alla comprensione degli altri, Possiamo parlare di “comunismo”? non so. mediante l’impiego di tutti gli strumenti espressivi impiegabili.

Naturalmente, ciascuno di tali impieghi del lavoro dovrebbe essere retribuito nella misura necessaria per continuare a svolgerlo. È l’economia, in altri termini, che deve essere subordinata al lavoro, non il lavoro all’economia. Il contrario di ciò che avvviene nel sistema capitalistico.

So che si tratta di una tensione per la fuoriuscita dal capitalismo, ma mi sembra l’unica capace di dare una speranza alle crescenti vittime di questo sistema.

5. Una Sinistra inutile?

La “sinistra” di cui disponiamo non ha compreso, e non è stata quindi capace di combattere, le quattro tragedie dominanti di oggi: la globalizzazione capitalistica, lo sviluppismo, le migrazioni, la disoccupazione. Agli occhi di molti ne è stata anzi complice. Com’è possibile allora che abbia credito chi si propone un’aggregazione di tutti quelli che hanno sbagliato (e continuano a sbagliare?)

L’errore di fondo della sinistra è stato quello di non aver compreso che per contrastare quelle tragedie con qualche efficacia, e con quel tanto di fiducia nell’avvenire che è necessario per alimentare la speranza, era necessario fare esattamente l’opposto di quello che si stava facendo. Occorreva riprendere la lotta per il superamento integrale del capitalismo, e non consumarsi in qualche guerriglia contro l’una o l’altra delle sue incarnazioni. Lottare per un’altra economia in un’altra società. Una prospettiva comunista? Forse, ma non solo parolaia.

Nessuno può pensare che sia possibile camminare in questa direzione con i protagonisti, e con le residue o restaurate sigle, della sinistra inutile che popola i palazzi e i palazzetti del potere.

Non so quanta parte dell’elettorato che si è allontanato dalle urne negli ultimi anni sia insoddisfatto delle risposte, o delle mancare risposte della sinistra a quelle tragedie. E non è neppure certo che l’offerta politica di Anna e Tomaso sia immediatamente percepita nella sua consistenza rinnovatrice. Così come, del resto. sono abbastanza sicuro che quella proposta abbia bisogno di tempo per maturare e dar luogo a risultati significativi nei risultati elettorali. È una proposta strategica, ma senza una strategia affidabile per i suoi obiettivi e i suoi metodi non esistono tattiche valide. Perciò è probabile che nell’immediato, si dovrà scegliere, ancora una volta, di votare per una delle offerte politiche che saranno meno lontane dalla strategia preferita.nella spernza che sia l’ultima volta.
Edoardo Salzano, 14 luglio 2017


UN DIALOGO
tra Enzo Scandurra e
Edoardo Salzano

Enzo a Eddy 17 luglio 2017

Caro Eddy,

rispondo solo ora alla tua lucidissima replica al mio articolo: “c’è vita a sinistra….”, perché sono in vacanza in un luogo da dove è difficile leggere la posta e, ancor più, spedirla. Ti scrivo in forma privata ma lascio a te la decisione di pubblicarla senza alcuna riserva, se la ritenessi utile al dibattito in corso.

Inutile dirti che concordo in tutto con la tua lunga analisi politica delle sventurate vicende della sinistra. Il mio, consentimi questa difesa, era un appello fatto con l’ottimismo della volontà. La tua replica è fatta con il (legittimo) pessimismo della ragione. Siamo entrambi, dunque, inseriti perfettamente nell’ossimoro gramsciano.

Ora io penso che nella storia vanno colte le occasioni che si presentano e che, una volta passate, rischiano di non presentarsi più o tra molti, troppi anni. Le condizioni favorevoli a un cambiamento (ovvero alla formazione di una vera sinistra) sono:
- La debolezza politica della “proposta” renziana che stenta ormai a tenere uniti anche i più fedeli seguaci, già stanchi della sua pomposa retorica;
- Lo spostamento fuori campo di Bersani, D’Alema e altri
- Il carisma di cui gode ancora Pisapia
- La novità della proposta Falcone-Montanari,
- L’avvitamento su posizioni di destra del Movimento 5 stelle: hanno smesso di credere nella politica e nel cambiamento e, non ultimo, lo sconcerto per l’inettitudine della gestione della Capitale da parte del Sindaco Raggi.

Se non ora, quando? Mi riferisco alla costruzione di una vera sinistra. Tu dici: perché credere in coloro che ci hanno traditi o, almeno, hanno tradito lo spirito di una sinistra (con riferimento a Bersani, ecc.)? Concordo con te, ma ripeto quello che ho già detto nell’articolo: le cattedrali si costruivano con le pietre che erano in terra. E questo noi abbiamo, altro non è dato o, almeno, la congiuntura storica non offre. L’anomalia della condizione italiana è che il cambiamento non può – per il momento – che essere innescato dall’alto, nella speranza che, dal basso, nel tempo, nasca un vero movimento che non si riduca semplicemente al dissenso o alla protesta, pur legittima. Solo allora assisteremo alla nascita di nuovi leader. Tu dici che questo assemblaggio, che dovrebbe costituire la vera sinistra, è diviso anche su questioni di fondo. Sì, diciamolo con franchezza, lo è e niente fa pensare, a breve termine, che non lo sarà più anche dopo. E del resto, dovremmo forse aspettare che una destra barbara salga al potere per sciogliere i tormenti della sinistra? Io ribadisco, non ignorando le tue giuste critiche, la convinzione che la congiuntura storico-politica è favorevole. Spetta a noi saperla cogliere.

Con ciò ti rinnovo, nell’apparente dissenso, tutta la mia stima e il mio affetto, Enzo

Eddy a Enzo 19 luglio 2017

Caro Enzo, ti ringrazio molto di proseguire questo dialogo e continuare ad aiutarmi pensare dialogando . Forse stiamo soltanto facendo una piccola testimonianza di democrazia…

Tu continui a pensare che i ruderi del passato non siano solo materiali per comprendere la nostra storia, ma anche pietre con cui costruire le cattedrali del futuro. E credi ancora nella possibilità di costruire qualcosa di nuovo innescandolo “dall’alto”. Io no.

Per scendere al concreto (si fa per dire) io vedo i residui della sinistra come profondamente intrisi, ancora oggi, da due elementi pestiferi poichè impediscono di comprendere il presente e progettare un futuro umano: la “credenza dello sviluppo” e la convinzione che il capitalismo non sia superabile. Non è, questo, un rimprovero che faccio ai D’Alema e ai Bersani del passato, ma a quelli di oggi.

Questo sul piano degli elementi di fondo. Sul piano elettorale sono altrettanto convinto che il bacino elettorale costituito dagli astenuti sia irraggiungibile agitando i nomi e le bandiere della sinistra trascorsa.

Non sono ancora sicuro che non sia necessario raggiungere il fondo dell’abisso («che una destra barbara salga al potere», come dici) per risalire. Del resto non vedo una grande differenza, a parte i modi, tra ciò che si agita nel complesso cuore-cervello-pancia di Minniti e quello di Salvini

E poi, che cosa significa oggi “una vera sinistra”? Se cerco di rispondere individuando un’analogia posso risponderti che la sinistra di oggi sarebbe (o sarà) quella che difende gli sfruttati di oggi. Ma se ragiono su quello che ho imparato dell’oggi in cui viviamo mi accorgo che oggi noi, il mondo della vecchia sinistra, apparteniamo, e da tempo, alla semisfera degli sfruttati, non a quella degli sfruttatori. Gli sfruttati di oggi sono quelli che giacciono al fondo del Mediterraneo, e gli altri bruciano nei loro deserti in attesa di raggiungerli.

Abbattere il capitalismo e costruire una nuova economia in una nuova società. Questo è forse il compito storico che ci spetterebbe. Lo sviluppismo è la cecità che ci impedisce di comprenderlo.

Per onestà e sincerità devo aggiungere che non sono sicuro che i nocchieri del piccolo vascello che si chiama “Alleanza popolare per la democrazia e l’uguaglianza” condividano interamente le mie posizioni. Ma sono certo che non esprimano semplicemente al dissenso o protesta, ma qualcosa di più. Mi sembra che questa frase del loro appello dica molto in proposito:

«La scandalosa realtà di questo mondo è un’economia che uccide: queste parole radicali – queste parole di verità – non sono parole pronunciate da un leader politico della sinistra, ma da Papa Francesco. La domanda è: E’ pensabile trasporre questa verità in un programma politico coraggioso e innovativo»? Noi pensiamo che non ci sia altra scelta».

Ciao Enzo, alla prossima(poi, se sei d’accordo, inserirò su eddyburg tutto il dialogo)

Enzo a Eddy 20 luglio 2017-

leggo e rileggo le obiezioni che tu muovi al mio “ottimismo della volontà”. Cerco di trovare nella tua replica un errore, qualcosa che mi dica: “Ecco, qui Eddy sbaglia!” Ma non lo trovo. Anzi, a volte io stesso aggiungerei al tuo “pessimismo della ragione” ulteriori elementi e considerazioni.

Siamo una specie dannata, un incidente biologico, l’unica specie che si accanisce contro la natura considerata altro da noi. Il Mito di Prometeo, il fuoco salvifico della tecnica, continua a vivere nel nostro Occidente: fa proseliti, arruola giovani, ingrossa ogni giorno il suo esercito minaccioso. Siamo molecolarmente assuefatti all’idea di uno Sviluppo che infine ci salvi, a quella che una Tecnica possa risolvere per sempre i nostri problemi, nel mentre continuiamo imperterriti nella nostra opera di devastazione sociale e ambientale.

Eppure, ieri mattina ho sentito Vezio, emozionato all’idea che il progetto Bagnoli riparta. Ho sentito, e non è la prima volta, un amore incontenibile in lui, per Napoli, per Bagnoli, per la possibilità di un progetto di riscatto; un riscatto che quella città meriterebbe dopo essere stata profanata e, ancora oggi, vilipesa da giornalisti stranieri incompetenti. Quel suo amore mi ha contagiato, così che ho di nuovo pensato: “Eddy sbaglia, una possibilità ci deve essere ancora, c’è ancora”.

Ma poi la cronaca quotidiana degli avvenimenti - quanto morti affogati oggi? -, mi riporta alla nostra condizione di miseria sociale, all’indifferenza e all’apatia di un Europa che è solo un’immagine sbiadita di quella culla di civiltà che è stata nei tempi (ma non è in questa terra che sono nati Goethe, Shakespeare, San Francesco, Leopardi?), a quel mare tra le terre che è stato un ponte tra Occidente e Oriente, luogo dove è nata la civiltà che era frutto di ibridazione come ci ricorda Braudel, e oggi cimitero di vite miserabili, senza nome, di bambini che del mondo hanno conosciuto solo le sofferenze e le privazioni. E penso, come Cesare Pavese, che ogni guerra è una guerra civile, perché guerra tra umani contro altri umani.

Le statistiche ci dicono il numero di morti che non ha raggiunto quelle terre da dove sono partiti i colonizzatori a depredare le loro risorse. Ma ogni vita, ogni singola vita, chiede ascolto e pietà. Che ne sappiamo di loro? Solo numeri, cifre, statistiche. Cosa pensavano durante quel viaggio mai terminato sui barconi della morte? Quali amori hanno lasciato nelle loro terre e quali speranze coltivavano? Per loro il Mediterraneo non è stato un ponte, ma una bara. Noi non sappiamo nulla di loro, se non che sono i nostri nemici, che attentano il nostro effimero benessere, i nostri mercati di merci corrotte.

Tu, Vezio, io dopo di voi, altri ancora dopo di noi, hanno coltivato la speranza, e la passione, che buoni progetti potessero rendere accoglienti le nostre città, renderle più vivibili, più a misura d’uomo. E ogni giorno scopriamo che leggi ingiuste e mosse dal mito del mercato e dello sviluppo, distruggono territori, devastano paesaggi, mercificano bellezze. Venezia, come Firenze, come Roma, città stuprate, involgarite, dove la bellezza, come diceva Camus, si è ritirata, si è nascosta, in attesa di essere ricercata, semmai qualcuno se ne ricorderà di farlo.

Non vado oltre; come vedi non riesco a trovare in quel che dici l’”errore”. Ma coltivo un sogno, quel sogno che ha sempre animato la sinistra, che ha prodotto passioni, sacrifici di vite umane, agitato masse, e che non ha mai smesso di far girare il mondo.

Eddy a Enzo 21-23 luglio 2017

A questo punto reagisco, e ricordo a me stesso che nella mia firma ho scritto: “dum spiro spero”, con inchiostro a volte verde a volte rosso. E ricordo un brano di Italo Calvino che conclude, nel senso se non nel testo, “Le città invisibili”:

«L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Forse è da qui che bisogna partire. Dal saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. Forse nel nostro mestiere siamo in grado di riconoscere “quello che non è inferno”, e possiamo “additarlo” Più difficile è “dargli spazio”, occorrerebbe avere poteri che non abbiamo.

Per riconoscere “quello che non è inferno” c’è però un passo preliminare da fare: far comprendere “che cosa consideriamo inferno”. Per la nostra generazione è abbastanza facile. Se ci riferiamo ai tempi e luoghi nei quali abbiamo avuto la fortuna di avere il confronto tra ieri e oggi ti dà subito la misura del baratro. Spiegarlo ai giovani, senza apparire né essere nostalgici è già un bel problema.

Forse bisogna partire non da ciò che ai nostri occhi è inferno, ma da ciò che è vissuto come “inferno” dai giovani. La disoccupazione?, la mancanza di futuro? La solitudine? Chi più ne ha più ne metta. Qui sento, nel nostro dialogo, l’assenza di un..interlocutore giovane.

Il passo successivo dovrebbe essere il far comprendere perché e come l’”inferno” è nato. Già più facile, rientra nei nostri saperi. La parola chiave è forse quella che riassume il messaggio di Anna e Tom: “un’economia che uccide”. Raccontare, e continuamente, far riconoscere che cosa il capitalismo è, e come e perché è alla radice di ogni “inferno”: da quello del fondo del Mediterraneo a quello dell’Africa, da quello del territorio che si sfascia a quello della forza lavoro inutilizzata, da quello della solitudine a quello del razzismo…

«Più difficile è “dargli spazio», dicevo, «occorrerebbe avere poteri che non abbiamo», dicevo. Da soli non li avremo mai, ovviamente. Solo con gli altri. Ma con quali altri? Da questa domanda, ricorderai, è iniziato il nostro dialogo.

Enzo a Eddy, 11 agosto 2017

Io penso che la semplicità (ancorché radicalità) con la quale hai risposto all’intervista di oggi su il Manifesto, a proposito del tentativo di affossare il piano paesaggistico regionale della Sardegna, è esemplare. Hai ben spiegato “cos’è inferno” e perché; almeno nella nostra disciplina e, anzi, con valore più vasto.

In tema di ambiente sono piuttosto pessimista. Se, a fronte di questi cambiamenti climatici ormai oggettivamente osservabili, ancora c’è spazio per i negazionisti per affermare che si tratta di cose semplicemente naturali, allora penso che quando anche loro prenderanno atto di quanto accade, sarà ormai già troppo tardi per prendere provvedimenti.

Continuo a pensare invece che una possibile intesa generale di tutte le forze di sinistra che non si sentono rappresentate dal PD, sia possibile; difficile, ma possibile.

Ci sono temi e argomenti sui quali non si può essere in disaccordo: la questione dei migranti, la crescente diseguaglianza tra persone, il furto di futuro (soprattutto per i giovani), la disoccupazione (soprattutto al sud), il disastro ambientale. In questo hai ragione: queste cose bisognerebbe chiamarle: inferno e ripeterlo all’infinito. Qui non ci sono compromessi possibili. Ora io penso che i nostri rappresentanti delle tante forme di vita a sinistra, dovrebbero mettere da parte le loro risibili identità politiche per identificare (per usare la metafora di Calvino) quello che è inferno, senza inutili distinguo, ponendo a terra quelle inutili bandierine e tristi vessilli con i quali si tenta di evocare una presunta purezza identitaria. Le persone che dovrebbero assumere su di sé questa responsabilità, sono poche, lo so. Preferiscono in genere partecipare a quel triste rito del “dibattito” politico con tono di prudenza, come se dovessimo vivere per altri cento anni.

Così come capisco che i veri leader nascono dalla (e nella) lotta e non nei salotti di Vespa. Per questo dicevo che in ogni caso, anche in quello più positivo, un cambiamento per ora non può che essere innescato dall’alto. Il nostro Palazzo d’Inverno non è minacciato da nessuna folla.

Eddy a Enzo 21-23 luglio 2017
A questo punto reagisco, e ricordo a me stesso che nella mia firma ho scritto: “dum spiro spero”, con inchiostro a volte verde a volte rosso. E ricordo un brano di Italo Calvino che conclude, nel senso se non nel testo, “Le città invisibili”:

«L'inferno dei viventi, non è qualcosa che sarà; se ce n'è uno, è quello che è già qui, l'inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l'inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo è rischioso ed esige attenzione e apprendimento continui: cercare e saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio».

Forse è da qui che bisogna partire. Dal saper riconoscere chi e che cosa, in mezzo all'inferno, non è inferno, e farlo durare, e dargli spazio. Forse nel nostro mestiere siamo in grado di riconoscere “quello che non è inferno”, e possiamo “additarlo” Più difficile è “dargli spazio”, occorrerebbe avere poteri che non abbiamo.

Per riconoscere “quello che non è inferno” c’è però un passo preliminare da fare: far comprendere “che cosa consideriamo inferno”. Per la nostra generazione è abbastanza facile. Se ci riferiamo ai tempi e luoghi nei quali abbiamo avuto la fortuna di avere il confronto tra ieri e oggi ti dà subito la misura del baratro. Spiegarlo ai giovani, senza apparire né essere nostalgici è già un bel problema.

Forse bisogna partire non da ciò che ai nostri occhi è inferno, ma da ciò che è vissuto come “inferno” dai giovani. La disoccupazione?, la mancanza di futuro? La solitudine? Chi più ne ha più ne metta. Qui sento, nel nostro dialogo, l’assenza di un..interlocutore giovane.

Il passo successivo dovrebbe essere il far comprendere perché e come l’”inferno” è nato. Già più facile, rientra nei nostri saperi. La parola chiave è forse quella che riassume il messaggio di Anna e Tom: “un’economia che uccide”. Raccontare, e continuamente, far riconoscere che cosa il capitalismo è, e come e perché è alla radice di ogni “inferno”: da quello del fondo del Mediterraneo a quello dell’Africa, da quello del territorio che si sfascia a quello della forza lavoro inutilizzata, da quello della solitudine a quello del razzismo…

«Più difficile è “dargli spazio», dicevo, «occorrerebbe avere poteri che non abbiamo», dicevo. Da soli non li avremo mai, ovviamente. Solo con gli altri. Ma con quali altri? Da questa domanda, ricorderai, è iniziato il nostro dialogo. Ma per stasera basta. A presto, carissimo Enzo

11 agosto 2017 Enzo a Eddy

Che dire? Io penso che la semplicità (ancorché radicalità) con la quale hai risposto all’intervista di oggi su il Manifesto, a proposito del tentativo di affossare il piano paesaggistico regionale della Sardegna, è esemplare. Hai ben spiegato “cos’è inferno” e perché; almeno nella nostra disciplina e, anzi, con valore più vasto.

In tema di ambiente sono piuttosto pessimista. Se, a fronte di questi cambiamenti climatici ormai oggettivamente osservabili, ancora c’è spazio per i negazionisti per affermare che si tratta di cose semplicemente naturali, allora penso che quando anche loro prenderanno atto di quanto accade, sarà ormai già troppo tardi per prendere provvedimenti.

Continuo a pensare invece che una possibile intesa generale di tutte le forze di sinistra che non si sentono rappresentate dal PD, sia possibile; difficile, ma possibile.

Ci sono temi e argomenti sui quali non si può essere in disaccordo: la questione dei migranti, la crescente diseguaglianza tra persone, il furto di futuro (soprattutto per i giovani), la disoccupazione (soprattutto al sud), il disastro ambientale. In questo hai ragione: queste cose bisognerebbe chiamarle: inferno e ripeterlo all’infinito. Qui non ci sono compromessi possibili. Ora io penso che i nostri rappresentanti delle tante forme di vita a sinistra, dovrebbero mettere da parte le loro risibili identità politiche per identificare (per usare la metafora di Calvino) quello che è inferno, senza inutili distinguo, ponendo a terra quelle inutili bandierine e tristi vessilli con i quali si tenta di evocare una presunta purezza identitaria. Le persone che dovrebbero assumere su di sé questa responsabilità, sono poche, lo so. Preferiscono in genere partecipare a quel triste rito del “dibattito” politico con tono di prudenza, come se dovessimo vivere per altri cento anni.

Così come capisco che i veri leader nascono dalla (e nella) lotta e non nei salotti di Vespa. Per questo dicevo che in ogni caso, anche in quello più positivo, un cambiamento per ora non può che essere innescato dall’alto. Il nostro Palazzo d’Inverno non è minacciato da nessuna folla.

20 agosto 2017 Eddy a Enzo

La folla c’è, Enzo, ma non sa di esserlo. È la massa crescente degli “sfruttati dallo Sviluppo”, dalla quale quali emerge, per ora, solo l’aggressione del terrorismo…

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