«Gridiamo “Siamo tutti Charlie!” ad ogni nuova strage terroristica nella nostra Europa, ma ci facciamo passare sotto gli occhi i morti ammazzati a Kabul e Aleppo o annegati nelle acque del Mediterraneo».
il Fatto Quotidiano, 31 luglio 2017 (p.d.)
Una settimana fa un attacco terroristico ha ucciso 37 civili, e ne ha feriti più di 40. A Kabul. Alcuni ne avranno letto, ad altri, anche coscienziosi e ben informati, sarà sfuggito. Certo la reazione, in Italia come in Gran Bretagna e nel resto dell’occidente, è stata ben diversa rispetto all’angoscia e all’attenzione spasmodica riservata agli attacchi di Londra o Manchester. Ogni volta è lo stesso: siamo tutti Charlie, ma facciamo un po’più fatica ad essere Kabul, o Aleppo. Come se le vite non contassero tutte allo stesso modo.
Tra chi si è preso la briga di leggere il primo paragrafo di questo articolo, possiamo identificare due categorie. Da un lato quelli che annuiscono energicamente: due pesi e due misure, l’ipocrisia dell’occidente e via discorrendo. Dall’altro quelli che scuotono il capo con qualche impazienza: non capisci che è diverso se succede in Europa? che non ci si può far carico di tutti i problemi del mondo? che alla fine si ammazzano tra di loro? Eccetera eccetera. Questa seconda categoria coincide in parte con quelli che pensano che i morti nel Mediterraneo non siano affar nostro, e un suo nutrito sottogruppo sbraita che questa gente viene qui per rubare o per farsi saltar per aria (semplifico).
La prima categoria la pensa in modo radicalmente opposto, naturalmente, e tuttavia, anche tra questi, la maggioranza ha dedicato ai fatti di Kabul (o di Aleppo, o del Sudan) una frazione dell’attenzione e del cordoglio dedicato a Manchester, a Nizza o a Parigi. Persuasione politica, analisi geopolitica, credo religioso, convincimenti morali fanno una qualche differenza, ma non tutta la differenza.
Non è un fenomeno nuovo. Se n’era già accorto Aristotele, che notava nella Retorica che la compassione (così come l’invidia) la si prova per chi conosciamo, o per chi è simile a noi per età, carattere, costumi e cultura, nascita o condizione sociale. Perché la compassione è legata alla paura – alla paura che possa succedere a noi. Per questo si prova compassione per ciò che è vicino, mentre ciò che è lontano – ciò che è alieno – non ha lo stesso effetto. Aristotele descrive, non giudica: così stanno le cose, e basta.
In un magnifico saggio del 1994, Carlo Ginzburg esplorava queste dinamiche tracciando la genealogia culturale di una figura immaginaria, quella di un ipotetico mandarino cinese. Questo povero mandarino, in vari scritti di Diderot, di Adam Smith, di Chateaubriand e di Balzac, veniva introdotto soltanto per morire nell’indifferenza, o per volontà, di un altrettanto ipotetico europeo desensibilizzato dalla distanza. Nella versione più catastrofica, Adam Smith immagina che la Cina “con i suoi abitanti, venga improvvisamente inghiottito da un terremoto”. Per Smith, ogni europeo compassionevole ne sarebbe certo rimasto scosso, ma “se dovesse perdere un mignolo, stanotte non dormirebbe; mentre ronferà pacificamente sulla rovina di un centinaio di milioni di fratelli, purché non li abbia mai visti”.
E non si tratta certo solo di distanza effettiva. Per lo stesso principio, notava Diderot, “proviamo compassione per un cavallo che soffre, e schiacciamo una formica senza farci scrupolo alcuno”. In alcune versioni lo sventurato mandarino viene addirittura ucciso a distanza da un francese, con un solo cenno del capo. La domanda è se la distanza attenui la compassione e il senso di responsabilità morale a tal punto da rendere contemplabile anche l’omicidio.
Ginzburg, da storico (e a differenza di tanta filosofia morale), non pare giudicare. Nota piuttosto quanto queste dinamiche siano rilevanti oggi: “Sappiamo che il guadagno di alcuni può provocare, più o meno direttamente, le sofferenze di altri esseri umani lontanissimi, costretti alla miseria, alla denutrizione o addirittura alla morte… il mandarino cinese può essere ucciso semplicemente pigiando un bottone”. Osserva poi che “il progresso burocratico [ha creato] la possibilità di trattare grandi quantità di individui come se fossero puri numeri: un altro modo molto efficace di considerarli a distanza”, come le formiche di Diderot.
Assolviamoci pure per la nostra indifferenza verso chi è diverso e lontano, constatiamo pure, realisticamente, che non può essere altrimenti, che le nostre responsabilità di italiani, di europei non possono estendersi egualmente all’intero globo terraqueo, per quanto interconnesso. Nel mentre, però, è forse il caso di tenere a mente che nel nostro mondo di oscene diseguaglianze i mandarini, o le formiche, non sono solo gli altri – gli immigrati sui barconi, i richiedenti asilo visualizzati per cifre, i poveracci laggiù in Africa o in Afghanistan.
Sempre più spesso mandarini (o formiche) siamo anche noi. Perché la nostra vita non ha davvero nulla in comune con le esistenze dorate di quella micro-élite finanziaria che, complice la politica, decide per tutti noi, senza identificazione, senza compassione. Mandarini sono allora non solo le vittime di Kabul, o i migranti che affogano nel Mediterraneo. Sono anche quei 35 milioni di americani a cui Trump vuole togliere l’assistenza. Mandarini sono i disoccupati italiani senza futuro nascosti nelle tabelle ministeriali. Mandarini sono quei britannici che i tagli targati Tories hanno fatto sprofondare sotto la soglia di povertà. In questo non siamo poi così lontani nell’essere alla mercé di chi, simpatia per noi,davvero non ne prova alcuna.