“Lavoro, ambiente, beni comuni, dimensione nazionale e internazionale del conflitto sociale, interazione con i movimenti, temi della laicità, della lotta all’ omofobia e al patriarcato”. A questo modo, il 31 marzo scorso, il direttore Dino Greco ha annunciato i contenuti che saranno asse portante della “nuova Liberazione”: una rielaborazione imposta da pesanti difficoltà finanziarie, che - se i risultati risponderanno ai propositi - promette anche un significativo rilancio della qualità del giornale.
Non c’è dubbio infatti che quanto annunciato come “pietra angolare attraverso cui guardare alla realtà” rappresenti un catalogo pressoché completo dei problemi più urgenti e decisivi per il mondo, attuale e futuro. Tanto che, se potessi permettermi un suggerimento, proporrei di sostituire le virgole con un trattino (lavoro – ambiente – beni comuni – ecc.) a evidenziare nel modo più cogente la stretta relazione, spesso anzi l’immediata reciprocità di determinazione, tra categorie politiche e sociali troppo spesso invece considerate e affrontate separatamente, come materie ognuna a sé stante, prive di qualsiasi nesso. Cosa d’altronde dovuta anche al fatto che non di rado le ragioni di questi rapporti sono frutto di mutamenti prodottisi negli ultimi decenni, non ancora recepiti come decisivi fattori della Politica, quali in realtà sono. Ciò che vale ad esempio per i rapporti tra la politica e i “movimenti” nati e impostisi negli ultimi decenni; o per le problematiche ambientali, di fatto nate con il modo di produzione industriale-capitalistico, che però solo nella seconda metà del secolo scorso hanno rivelato la loro crescente, distruttiva pericolosità; o ancora per i “beni comuni”, di cui solo il loro progressivo accaparramento e sfruttamento da parte dell’industria privata, secondo le logiche neoliberistiche universalmente vincenti, ha messo in luce il senso e il valore della loro legittima appartenenza alla collettività… E così via.
Ma il “trattino” di cui più avverto la necessità è quello tra “lavoro” e “ambiente”. “Produrre inquina,” scrive Joseph Stiglitz, che non è un “verde” né un simpatizzante di Rifondazione, ma un economista americano, il quale duramente stigmatizza alcuni gravi “peccati” del sistema socioeconomico attuale (dalla vergognosa distanza di remunerazione tra manager e operai, al fatto che nel nostro mondo sprecone esista più di un miliardo di affamati, ecc.) e però non si sogna di augurarsene la fine. E la cosa non stupisce. Stupisce invece (o almeno io da gran tempo ne stupisco) che le sinistre siano state, e continuino ad essere, così poco sensibili alle problematiche ambientali, mentre più di ogni altro avrebbero dovuto avvertirne la gravità: innanzitutto perché le prime vittime del fatto che “produrre inquina” sono i lavoratori di ogni categoria, e perché sono sempre i ceti più deboli a soffrire le conseguenze di alluvioni e dissesti ecologici di ogni sorta, a pagare per temperature che inaridiscono i campi, inquinamenti che azzerano la pescosità di fiumi e mari, distruzione sistematica di ecosistemi millenari in cui da sempre vivono, e così via. Di tutto questo il fatto che, nel programma della “nuova Liberazione”, l’ambiente figuri subito dopo il lavoro, indica finalmente (così almeno io leggo la cosa) un’adeguata consapevolezza. E ciò mi induce ad accennare alcune riflessioni, anch’esse riguardanti le sinistre, che da tempo vado considerando.
Più volte infatti mi sono domandata come mai le sinistre non abbiano sfruttato, o abbiano sfruttato solo in minima parte, a favore dei lavoratori ciò che il progresso scientifico e tecnologico avrebbe potuto consentire, mediante un utilizzo adeguato di “macchine” via via più capaci di sostituire il lavoro umano, non soltanto fisico ma in misura crescente anche mentale. Eppure la “liberazione del lavoro e dal lavoro”, da sempre è stato non solo sogno di grandi utopisti, ma obiettivo dichiarato dei padri del marxismo; poi recuperato negli anni Venti da Keynes con l’annuncio della prossima possibilità di soddisfare i nostri bisogni con tre ore di lavoro al giorno; e negli ultimi decenni fatto proprio, in difesa di una riduzione generalizzata degli orari, da economisti come Gorz e Napoleoni…
Tutto questo a sinistra è stato rimosso, o così pare. Di fatto soltanto (o in misura in assoluto prevalente) la paura della disoccupazione tecnologica ha finito per governare le scelte delle sinistre. “Creare lavoro” era l’insistito slogan degli anni Novanta, in presenza di una produzione in crescita cui l’occupazione non rispondeva più come in passato: assurdo paradossale proposito (non dovrebbe il lavoro essere la risposta a una domanda di merci o servizi?), che però parlava di una tendenziale omologazione delle scelte delle sinistre alle logiche neoliberistiche. In obbedienza a quell’imperativo della “crescita”, che da un lato andava dilapidando il patrimonio naturale e in modo irrecuperabile squilibrando gli ecosistemi, dall’altro induceva una pericolosa assimilazione dell’intero corpo sociale agli obiettivi del mercato e delle sue regole.
Non ho qui spazio per affrontare le singole tematiche indicate (come accennavo sopra) quali linee portanti della “nuova” Liberazione. Ma in qualche modo, quanto detto finora, pur nelle strettoie di una stringatissima sintesi, credo possa aprire un breve discorso relativo agli altri obiettivi indicati: in particolare per quanto riguarda la “dimensione nazionale e internazionale del conflitto sociale”. Perché in effetti la velocità e la molteplicità del mutamento prodottosi nel mondo negli ultimi decenni, si è realizzato nei termini di un vistoso squilibrio.
Ha creato infatti una crescente omologazione tra tutti i popoli del pianeta dal punto di vista economico, nei modi di una vera e propria “globalizzazione economica” ad immagine del capitalismo neoliberistico, nel trionfo di logiche iperconsumistiche a convivere con intollerabili povertà . Ha creato un’altrettanto vistosa “globalizzazione culturale”, insistentemente imposta dai mezzi di comunicazione di massa, cui sempre più faticosamente resistono antiche consuetudini di carattere eminentemente religioso, ma specie tra i giovani destinate a prossima estinzione. Manca invece ogni traccia di “globalizzazione politica”: di fatto in una sorta di dichiarata resa della politica al mercato, tra disuguaglianze sempre più intollerabili e sconquassi ecologici sempre più insostenibili.
Non toccherebbe alle sinistre di affrontare questo “problema dei problemi” e magari farsene carico? Non era il mondo la dimensione del marxismo? E non significa nulla che l’inno dei lavoratori si intitoli (ancora) “L’internazionale”?