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Ida Dominijanni
La normalità dopo l'anomalia
7 Settembre 2010
Articoli del 2010
La lucida analisi di una nuova destra e del suo discutibile leader, in un’Italia priva di una sinistra. Il manifesto, 7 settembre 2010

Quale che sia, e le variabili aperte sono ancora troppe per saperlo, l'effetto della decisiva scossa di Mirabello sullo sciame sismico in atto nel sistema politico italiano, l'ultima mossa di Gianfranco Fini corona il percorso di ridefinizione della destra intrapreso dall'allora «cofondatore» già al congresso di battesimo del Pdl. Fu proprio nel momento della confluenza di An nel «partito del predellino» che Fini cominciò a marcare vistosamente quella distanza da Berlusconi che domenica è diventata abissale. E allora come oggi, la posta in gioco non era e non è solo tattica: si trattava allora, e si tratta oggi, non solo di come condizionare, fino a romperlo, il gioco di Berlusconi, ma di come ereditarne l'opera, il campo e l'elettorato. Dopo la rivoluzione, l'ordine; dopo l'«anomalia» del Cavaliere, la normalità di una destra europea; dopo l'illegalità eretta a governance, la legalità eretta a bandiera; dopo il populismo, l'onore delle istituzioni. E non è affatto un caso che per il coronamento dell'opera sia stata scelta una piazza simbolica per la storia dell'Msi come quella di Mirabello. Tornare alle radici, rivendicare una genealogia, ritrovare la propria base non serviva solo a legittimare con un bagno di identità un nuovo strappo; serviva anche a ricordare a tutti, destra e sinistra, che la storia di Fini è più lunga e più radicata nel passato nazionale di quella di Berlusconi, ad uscire così definitivamente dalla tutela dello «sdoganatore» del '94, derubricandone il ruolo e presentandosi come l'erede più credibile, nel lungo periodo, di quel campo emerso dalle macerie della prima Repubblica che si chiama destra. Con una formula: l'anomalia berlusconiana passa, la normalità finiana resta.

Vero è che questa ennesima e cruciale tappa della lunga marcia per la legittimazione democratica intrapresa in quel di Fiuggi da Fini e dai suoi è costata stavolta al leader uno strappo, ancorché tardivo, ben più deciso e più decisivo dei precedenti. La nettezza dei giudizi sul berlusconismo - concezione del governo come comando, dei governati come sudditi, degli alleati come contorno - configura, con o senza nuovo partito, una separazione irreversibile dalla compagnia del Cavaliere. E la durezza dei giudizi sull'azione di governo - tagli, politica dell'immigrazione, della scuola, della famiglia, della giustizia, delle relazioni internazionali - rende pressoché impossibile, malgrado le professioni di lealtà, la tenuta del patto di maggioranza. Ricordare a Fini che di quale pasta sia fatto il berlusconismo poteva accorgersene prima, che sul predellino poteva evitare di salirci, che dell'attacco alla Costituzione poteva non farsi per quindici anni complice e connivente, che il suo distacco da Berlusconi è stato segnato da un lento e calcolato opportunismo (compresa l'abilità di farsi cacciare dal Cavaliere per poterlo accusare di stalinismo), è già diventato molto démodé nel variegato fronte politico e intellettuale di un centrosinistra che gli è grato, a torto o a ragione, per aver dato a Berlusconi quella spallata di cui l'opposizione non è stata capace. Dunque il punto non è il passato ma il futuro.

Per il futuro, a Mirabello Fini ha taciuto più cose di quante ne abbia dette. La patente contraddizione fra i giudizi su Berlusconi e le professioni di lealtà al governo lascia del tutto indeterminate le sue prossime mosse nel conflitto con gli ex alleati che inevitabilmente si inasprirà, nonché la sua futura collocazione nel ridisegno del sistema politico che sulle ceneri del bipolarismo è già cominciato. La destra normale ed europea di Fini continuerà davvero a competere di fianco a Bossi e Berlusconi, costruirà il terzo polo con Casini e Rutelli, o entrerà a far parte di quella «santa alleanza» antiberlusconiana vagheggiata da Bersani (ricavandone in legittimazione più di quanto restando a destra guadagnerebbe in voti)? Le aperture del discorso di Mirabello sulla riforma elettorale non sciolgono questo quesito, che nell'eventualità tutt'altro che remota di una accelerazione di Berlusconi verso le urne rischia di essere dirimente per capire con quanti e quali schieramenti si voterà.

C'è da sperare che il centrosinistra non ne affidi la soluzione solo alle mosse di Gianfranco Fini. E che si affretti a mettere all'ordine del giorno un altro quesito, questo: per uscire dall'anomalia della «rivoluzione» berlusconiana, basterà l'ordine di una destra normale?

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