La Repubblica, e Corriere della Sera 6 gennaio 2013, postilla (f.b.)
la Repubblica
"Neve finta e boschi violati così le mie montagne sono diventate un luna park"
Intervista a Mauro Corona, di Caterina Pasolini
ROMA - «Hanno ucciso la montagna per quattro schei, hanno svenduto la sua innocenza per soddisfare chi ha la frenesia della vita breve, chi vuole neve firmata e vive cercando di sfuggire la noia usando, consumando tutto e gettandolo via velocemente. Tra piste illuminate di notte dai fari invece che dalla luna, elicotteri che rompono il silenzio e motoslitte che vanno come razzi e coprono le impronte delle volpi. E cosi, tra superficialità e improvvisazione, accadono le tragedie».
Mauro Corona, scultore, alpinista, scrittore innamorato della montagna, «che credo abbia voce e ci parli, solo che molti non la vogliono sentire perché ci mette a nudo», il giorno dopo la sciagura del Cermis se ne sta nella sua baita di Erto. Pochi metri quadri affollati da duemila libri e riscaldati dalla stufa vecchia trecento anni ereditata dai bisavoli. Pronto ad uscire con le ciaspole per andare in alto, nel silenzio che «rigenera, dà energia mentre i tuoi passi fanno scricchiolare la neve».
Chi ha violato la montagna? «I più grandi distruttori sono stati gli stessi montanari che hanno fiutato la ricchezza nel soddisfare i ricchi che non vogliono faticare, che vogliono tutto e subito e sempre. E così neve anche a bassa quota e piste sempre più in alto perché a furia di distruggere la natura non nevica più, e impianti di risalita invece delle ciaspole, motoslitte a velocità pazzesche in cerca di emozioni».
Perché tutta questa frenesia? «La gente ha capito che la vita è sofferenza, è breve e quindi molti sono diventati dei nuovi nichilisti in cerca del piacere immediato e forte. E le montagne sono diventate solo un oggetto da consumare come al luna park, qualcosa da vendere o comprare, non da capire o amare».
E la montagna si vendica? «No, è che non la conosciamo, non la rispettiamo e così accadono gli incidenti. Non abbiamo il senso della misura, della sua forza, della nostra piccolezza. Non abbiamo più un vero contatto con gli elementi, non vogliamo il freddo, non sopportiamo il silenzio: persino nei rifugi e sulle piste c´è musica, frastuono, nessuno ascolta più la musica degli vento tra gli alberi».
Valli e vette sfregiate? «Non solo, è tutta la montagna ad essere violata: ci sono le concessioni del taglio dei boschi che cosi vengono distrutti dai boscaioli per amore di denaro. E io li ho visti: ora al posto delle mucche nella stalla hanno la Ferrari. E poi le centraline elettriche che bloccano i torrenti, la ghiaia portata via con la scusa delle esondazioni. Senza dimenticare i servizi ai piccoli comuni montani cancellati: i negozi chiudono, dimezzano treni e bus e i ragazzi per andare a scuola devono fare dei viaggi. Così si uccide la montagna: spingendo, costringendo la gente a scendere a valle per sopravvivere».
Cosa fare per salvarla? «Riscoprire la lentezza, ora non si ha neppure il tempo di guardare quello che ci circonda tra motoslitte, skilift e macchine, e poi puntare sui bambini. Se i genitori sono teorici dell´usa e getta forse bisognerebbe mandare guide alpine nelle scuole ad insegnare ai ragazzini cos´è la vera montagna, ad avere rispetto e la giusta cautela. È tempo per tornare a insegnare ai bambini che l´alta quota non può essere solo divertimento. Non va bene. Se non nevica non si va a sciare, punto. Ma fortunatamente è arrivata la crisi».
La crisi è positiva? «Sì, la crisi economica aiuterà a riscoprire le cose vere, per quello che sono, senza macchine e tecnologia».
Corriere della Sera
La montagna degli eccessi che diventa pericolosa
di Isabella Bossi Fedrigotti
Sei turisti sono morti ieri notte in val di Fiemme e altri due sono feriti gravi; sono morti in vacanza, nel corso di un'escursione che doveva essere spensierata e, perciò, ogni parola rischia di essere eccessiva, fuori luogo, forse anche per qualcuno inaccettabile. E tuttavia, purtroppo, il concetto va suggerito e pronunciata la parola. Si chiama riminizzazione della montagna, ed è stata inventata da un albergatore della vicina val Badia che la montagna la ama moltissimo e da molti anni combatte per difenderla e per trovare adepti della sua difficile battaglia.
Definisce — la riminizzazione — quel fenomeno per cui la Disneyland nella quale si sono trasformate ormai da tempo le nostre principali spiagge è stata trasferita anche nelle più belle, più incontaminate valli alpine. Ciò vuol dire baite in quota praticamente trasformate in pub, dove, al suono frastornante di musiche da discoteca, si festeggiano interminabili happy hour, dalle dieci di mattina fino al tramonto, e dove lo sci si riduce spesso a un pretesto per sfoggiare magnifici, strabilianti completini sportivi.
Queste location — in che altro modo chiamare rifugi alpini svuotati della loro vera funzione? — sono circondate da tutti quegli orpelli che conosciamo dalle spiagge alla moda, e cioè bandiere, striscioni, palloncini colorati, video che mostrano se stessi in piena attività: giusto per il caso che qualcuno, forse sordo, non le avesse sufficientemente notate.
Nulla di male si è costretti a dire, tranne che per quanti ricordano i paesaggi incontaminati e le baite di un tempo, l'incanto silenzioso dei boschi e delle malghe, il calore protettivo dentro i rifugi dopo la fatica e il gelo delle piste, forzati — dall'avanzare della riminizzazione — a cercare tutto questo in luoghi sempre più lontani e più inaccessibili. Tuttavia le conseguenze che il fenomeno porta con sé non sono soltanto di natura estetica, non offendono solo occhi e orecchie: infatti, alla conclusione delle happy hour in quota, sfrecciano poi disordinatamente in pista sciatori e snowbordisti che spesso e volentieri hanno troppo alzato il gomito, e gli incidenti, anche mortali, purtroppo non sono più una rarità.
Ma la riminizzazione non termina con il tramonto, continua anche nella notte, forse ancora più pericolosa. E perciò piste illuminate, impianti che funzionano fino ad ora tarda, discese alla luce della luna dopo polente bene annaffiate nei rifugi, corse in slitta o in motoslitta. Nulla di più divertente, di più eccitante per chi ama il genere, facilmente portato a credere che la montagna sia davvero una specie di parco dei divertimenti, controllabile a piacere, versione più emozionante — perché più vera — della più emozionane delle giostre, dove basta pagare il biglietto per accedere allo spasso e, quando si è stufi o stanchi, basta fare un cenno per poter scendere. La montagna — e questi terribili, crudeli incidenti vengono periodicamente a ricordacelo — pur addomesticata, pur resa accessibile a chiunque, pur truccata da allegra e benevola Gardaland è, però, tutt'altro e chi la frequenta davvero lo sa bene: soprattutto di notte non vi si può mai essere al cento per cento sicuri.
Postilla
Premetto che una prospettiva come quella di Mauro Corona, allineata almeno nel linguaggio alla gran moda dell’ambientalismo nostalgico, non interesserebbe molto di per sé il sottoscritto. Ce ne sono fin troppi di nostalgici che guardano, spesso in modo abbastanza acritico, a una specie di passato mitico, di presunto equilibrio fra uomo e natura, e li lascerei volentieri alle loro dissertazioni davanti al fuoco: avranno pure qualche ragione.
Se non fosse che la questione della montagna, in sostanza l’unico vero e proprio brandello di territorio naturale italiano, pare del tutto assente dal dibattito sulle trasformazioni in senso urbano, mentre invece ne stanno avanzando a bizzeffe, con opposizioni anche aspre ma esclusivamente locali. Come implicitamente riconosce anche Isabella Bossi Fedrigotti nel suo lucido intervento sulla "riminizzazione". Nella mia purtroppo breve esperienza di titolare di un corso di Riqualificazione Urbana al Politecnico di Milano ho avuto quasi per caso, alcuni anni fa, spalancata una piccola prospettiva di progetti di trasformazione, alberghi, quartieri di seconde case, piani di iniziativa privata per valorizzazioni e rilanci vari.
Vere e proprie astronavi scaraventate in qualche valle, la cui (a volte) apparente relativa esiguità in termini di metri cubi nascondeva impatti immensi in termini di uso materiale del territorio, fatto di impianti di risalita, gente che va e viene su e giù dalla montagna come se fosse un supermercato, e praticamente paga alla cassa nella strettoia di valle prima di tornarsene a casa. Di queste cose non si parla mai, salvo quando succede qualcosa di tragico come l’allegra comitiva un po’ alticcia con la motoslitta scivolata nel burrone. Qualcuno ci fa caso, al copione esattamente identico a una strage del sabato sera contro un pilone di superstrada sotto l’insegna di una discoteca?
Copione identico perché identico è lo scenario, di fatto: sprawl a bassa densità, le piste invece degli svincoli, le pendenze invece della solita pianura, ma tutto deve rientrare nel modello cash & carry, che non ammette deviazioni. Le montagne stanno lì a fare da sfondo, come grosse grotticelle da madonnina in giardino.
Forse guardarlo in questo modo, quel territorio, esattamente come guardiamo al suo cugino sprawl di pianura, aiuta a capire meglio, lasciando il club dei gentlemen di campagna a rimpiangere i bei tempi, e poi a votare gli stessi amministratori che chiamano qualche improvvisato guru sociologico sviluppista a tenere una conferenza sul rilancio economico della valle, magari con lo slogan della Montagna Infinita (f.b.)