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Luca Fazzo
La "Milano da bere"? Oggi è diventata la Milano da costruire
11 Dicembre 2005
Articoli del 2004
"Libertà di mattone, ultimo slogan nel capoluogo lombardo. Dove l’affare delle aree industriali dismesse scatena gli appetiti. Anche di personaggi della Prima Repubblica", da Il Venerdìdi Repubblica, 25 giugno 2004

MILANO. All’OM facevano i camion. All’Innocenti le Mini. Alla Falck l’acciaio. A Pero raffinavano la benzina. Era la Milano della grande industria. La Milano che non esiste più. E che ha lasciato alle sue spalle aree gigantesche, distese sterminate di capannoni, di altoforni, di catene di montaggio inghiottiti dalla ruggine e dal degrado. Su queste aree si gioca ora una i partita che ha sul tavolo una posta di centinaia di milioni di euro. Una partita dove le regole non sono chiare. Anzi, dove l’unica regola sembra essere la mancanza di regole.



Basta con i lacci e i lacciuoli dell’urbanistica programmata, utopia degli anni Sessanta e i Settanta. Libertà di affari, libertà di mattone. A rivendicarle sono, con toni simili, due protagonisti di questa strana stagione della rinascita milanese. Uno è Paolo Caputo, architetto, professore, divenuto improvvisamente il più richiesto progettista di Milano: «Una città che ha perso vent’anni: dieci per colpa di Mani pulite, dieci per colpa di un piano regolatore sbagliato». E, di sponda Giuseppe Pasini, costruttore, che ha in mano i destini della vecchia Falck di Sesto San Giovanni: «I piani regolatori sono uno strumento del passato. Troppo lento per stare dietro alla realtà. Ora che arriva un piano regolatore, i bisogni sono già cambiati». A Giorgio Oldrini, sindaco di Sesto, che cerca di impedire in qualche modo che sulla vecchia fabbrica sbarchi il cemento di un gigantesco quartiere dormitorio, Pasini manda a dire senza tanti giri di parole: «Se uno vuole il verde, può andare a cercarlo in campagna». La storia della Falck è esemplare, per capire il caos che regna nel settore. La vecchia acciaieria occupava più di un milione di metri quadrati, Pasini la comprò sicuro di convincere Banca Intesa a trasferire qui i suoi uffici, un insediamento terziario che avrebbe portato con sé soldi, verde, qualità del tessuto urbano. Ma Banca Intesa ci ha ripensato. E adesso l’intera operazione non si capisce più dove andrà a finire, Pasini è oberato dai debiti, ha cestinato il progetto dell’architetto Mario Botta e pretende di costruire 750 mila metri cubi di case dove il vecchio piano ne prevedeva la metà. Libertà di affare, libertà di mattone: questo è l’unico slogan che risuona nelle vecchie aree industriali di Milano. Se si va a curiosare, area per area, si scopre uno schema quasi sempre uguale. La vecchia fabbrica viene comprata da questo o quell’imprenditore, famoso od oscuro. L’imprenditore dà l’incarico per la progettazione a un big dell’architettura: i Foster, i Fuksas, i Pei. Poi, però, a gestire i progetti arrivano, associati ai big, professionisti meno blasonati. Un esempio per tutti: quello della “Città della Moda”, il colosso che sorgerà dopo decenni di abbandono sul vecchio terrapieno delle ferrovie Varesine. A firmare il progetto, per conto del colosso americano Hines, è il grande Cesar Pelli. Ma a lavo rare con Pelli si dice che arriverà Alessandro Foresti, collega di Gianni Verga, assessore all’Urbanistica del Comune di Milano. Lo stesso accade alla OM, dove al posto dei capannoni nasce un nuovo quartiere firmato da Fuksas. Accanto spuntano i nuovi dormitori dell’Università Bocconi: li firma il giovane Saverio Valsasnini, che insieme al suo collega Marco Cerri è l’architetto “di riferimento” del vero soggetto forte di questa stagione del mattone: la Compagnia delle Opere, l’associazione imprenditoriale che è diretta emanazione di Comunione e liberazione. È la Compagnia che con i suoi uomini controlla alcuni passaggi chiave di questa stagione. Primo tra tutti, quello che ruota intorno alla Fiera.



Intorno alla Fiera si giocano due partite decisive. Una è la realizzazione del nuovo polo , espositivo sull’area della vecchia raffineria di Pero. Il secondo, parallelo, è la riconversione ad edilizia residenziale della vecchia, preziosa area storica della Fiera. In vista di questa partita, Cl ha occupato con due suoi uomini l’ufficio chiave dell’Ente Fiera, l’ufficio tecnico. Il progetto della nuova fiera è già andato a Fuksas, progettista assai amato dalla Compagnia. Ad assegnare l’incarico per il recupero della vecchia fiera sarà invece una commissione che coincide con il consiglio d’amministrazione della società Sistema Sviluppo Fiera. Anche qui, qualcuno si era preoccupato di piazzare l’uomo giusto al posto giusto: Maurizio Filotto, ex brigadiere dei Carabinieri, personaggio enigmatico legato tanto a o quanto all’universo dei servizi segreti, nominato ai vertici del la Fiera su designazione non si sa bene di chi. Peccato che Filotto sia finito in galera per corruzione una manciata di setti mane fa. E molti, a Milano, dicono che la sua uscita di scena potrebbe riaprire i giochi. Al punto di mettere in discussione l’esito della gara che veniva considerato fino all’altro ieri scontato: la vittoria del progetto della cordata Risanamento Chestfield-Astaldi, firmato da Norman Foster.



Chi oggi, in un giorno qualunque, percorresse le tangenziali che circondano Milano vedrebbe a occhio nudo le gru, le impalcature, gli scheletri di cemento armato che sono il segno concreto del nuovo che avanza. Dietro, ci sono cervelli vecchi e nuovi. A Rogoredo, nella piccola città disegnata da Paolo Caputo insieme con Norman Foster che sorgerà sulle vecchie aree della Montedison, pochi sapranno che dietro c’è il genio finanziario di Giuseppe Garofano, detto “il Cardinale”, già protagonista dell’epopea dei Ferruzzi e di Raul Gardini, diventato il regista degli affari di Luigi Zunino, piccolo costruttore piemontese divenuto uno dei nuovi ras del mattone meneghino. E ancora meno, tra i nuovi inquilini dell’area Innocenti, sapranno che a progettare le loro case era stato Andrea Balzani, grande vecchio dell’Urbanistica socia lista negli anni Ottanta, l’epoca della “Milano da bere”.

«I grandi architetti, vengono catapultati qui quasi per caso», raccontava Balzani a Repubblica poco prima di morire, «Il dramma vero è che dietro a tutto quello che sta nascendo non c’è un progetto complessivo. E il dramma nel dramma è che questa è un’occasione irrimediabilmente persa».

Da Nord a Sud il recupero è d’oro

È grande 90 milioni di metri quadrati la fetta d’Italia in cerca di un nuovo futuro. A tanto ammontano le aree industriali dismesse, intorno alle quali si muovono interessi poderosi e partite senza esclusione di colpi. A Torino, per esempio, è stato abbastanza semplice recuperare un’area tutto sommato ridotta come il Lingotto. Ma sul futuro dell’area ben più vasta della Fiat Avio, quando tra due anni saranno smantellate le installazioni delle Olimpiadi Invernali del 2006, lo scontro è aperto. Scontro già aperto anche a Genova, sul domani dell’acciaieria di Cornigliano: posizione strategica, di fronte al mare. Appartiene al demanio, ma Emilio Riva, l’imprenditore che ha rilevato I’ltalsider dallo Stato, punta a impadronirsene a titolo definitivo. Qui il business riguarda la logistica portuale. Alcune operazioni di recupero sono già avviate sulla buona strada. Come quella dello stabilimento Montedison di Mori, in Trentino, capolavoro di archeologia industriale. O della “Darsena di città” di Ravenna. Ma ci sono grandi aree sul cui futuro il buio è ancora fitto: come quella del Porto Vecchio di Trieste, 600 mila metri quadrati che hanno visto bocciare un progetto dopo l’altro. E aree su cui aleggia persino un po’ di mistero: è il caso dell’insediamento della Marina Militare a Taranto, trasferitasi da Mare Piccolo a Mare Grande. I pacifisti dicono che starebbero per arrivare 500 milioni di dollari per portare sull’area una base militare americana, che ingloberebbe anche la stazione di ascolto Echelon, oggi a San Vito dei Normanni.

Il governo, per ora, ha smentito.

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