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Giancarlo Consonni
La metropoli contemporanea: matrici, caratteri e problemi
26 Maggio 2007
Milano
Dalla storia della città ai modi per combattere i suoi mali di oggi, attraverso una ripulitura da alcune scorie del linguaggio corrente. Il testo di una relazione a un convegno del PRC di Milano

Testo elaborato per il Seminario "Area metropolitana milanese: criticità sociali e alternative possibili per una nuova dimensione civile", tenutosi a Milano il 5 maggio 2007 per iniziativa della Federazione milanese del Partito della rifondazione comunista.

La ricerca procede per domande. Così ho pensato di articolare l'argomentazione a partire da domande, sperando che la mia curiosità scientifica incontri la vostra e che le risposte, in questa sorta di autointervista, siano all’altezza dei quesiti.

Il termine metropoli è di origine greca. Che differenza corre fra la metropoli antica e quella contemporanea?

Prima dell'età contemporanea sussisteva un limite: una soglia dimensionale percepita come misura necessaria, prima ancora che fosse imposta dalla realtà.

Nella Grecia antica l'espressione metropoli significa letteralmente «madre di città». A promuovere la nascita di nuovi organismi urbani è appunto il concetto di limite: una soglia dimensionale volta essenzialmente a conservare i rapporti comunitari, ovvero la ragione costitutiva dell'organismo urbano: ciò che Aristotele chiama «amicizia» come «scelta deliberata di vita comune» [1], condizione per «una vita pienamente realizzata e indipendente» [2]. Ippodamo da Mileto fissa la dimensione ideale a 10.000 cittadini, mentre per Platone il limite da non superare è ancora più basso: 5.040, un numero ritenuto «abbastanza grande per mettere la Città in condizione di difendersi dai suoi vicini o di aiutarli in caso di bisogno ma abbastanza ristretto perché potessero conoscersi tra loro e scegliere con cognizione di causa i magistrati» [3].

Una logica non diversa è seguita dalla libera associazione delle città-stato etrusche che Carlo Cattaneo definisce «vivajo di città» [4].

Non mancano, è pur vero, in età antica come in quella moderna, realtà che, nel segno della potenza, inseguono l’accrescimento dell'aggregato urbano. Giovanni Botero nel suo Delle cause della grandezza e magnificenza delle città (1588) non può non fare riferimento al caso di Roma. I Romani, egli sostiene, «stimando che la potenza (senza la quale una città non si può lungamente mantenere) consiste in gran parte nella moltitudine della gente, fecero ogni cosa per aggrandire, e per appopolar la patria loro» [5]. I fatti diedero loro ragione, dice Botero: è la maggiore grandezza demografica a consentire a Roma di riprendersi dopo pesanti sconfitte in battaglia. Ma lo stesso autore della Ragion di stato, richiamati anche altri casi di notevole accrescimento delle «communanze d’uomini», arriva alla conclusione che esiste un momento in cui la crescita si arresta [6]

Spaziando su un ampio quadro storico, Botero passa in rassegna i fattori che concorrono alla crescita delle città: l’autorità; la forza; il piacere offerto dalla bellezza del sito e dall’arte, a cominciare da quella del costruire; la «commodità» e la salubrità; la «virtù nutritiva» della campagna; la facile accessibilità e il ruolo cardinale negli scambi commerciali; l’estensione del dominio politico; la religione; la possibilità di «poter più comodamente e allegramente attender a gli studi»; la presenza delle istituzioni di governo e dell’«amministrazione della giustizia»; l’esistenza di un’industria florida; la «franchezza dalle gabelle»; e, infine, l’essere luogo di «residenza della nobiltà» e ancor più del principe. Un elenco assai esteso e apparentemente senza gerarchia da cui il consigliere di Carlo Borromeo trae però una sintesi: decisivi nell'accrescimento delle città sono, a suo dire, «la virtù attrattiva» (data da quella che oggi chiameremmo la qualità del vivere) e la disponibilità di «nutrimento e sostegno» ottenuta «o dal contado […] o da paesi altrui» [7]: una valutazione che oggi verrebbe collocata sotto il criterio della sostenibilità.

Ed è appunto qui che la contemporaneità segna una rottura. Come il modo di produzione capitalistico di cui è espressione e da cui è inscindibile, la metropoli contemporanea nasce all’insegna del superamento di ciò che precedentemente vincolava e limitava gli organismi urbani, compresi quei fattori che potevano portare a drastici ridimensionamenti, quando non alla morte della città. La metropoli è un organismo più resistente perché si alimenta delle differenze producendone di nuove [8], a cominciare dalle diversificate opportunità di investimento e di valorizzazione del capitale. Opportunità che, quando non possono essere fornite dal territorio su cui la città ha storicamente esercitato la sua influenza, vengono reperite altrove estendendo vieppiù le trame relazionali, visibili e invisibili.

Nei rapporti fra contesti ciò si traduce in nuovi legami di dominanza e dipendenza, mentre il riprodursi e l'estendersi delle disparità investe inevitabilmente la topografia sociale, ovvero la dislocazione spaziale dei ceti che compongono la società.

Quando prende avvio la vicenda della metropoli contemporanea?

Nel caso milanese i primi semi sono gettati già a metà seicento quando la campagna a nord della linea dei fontanili inizia a fare concorrenza alla città, bloccata dal dominio delle corporazioni. Fra sette e ottocento, quando ormai il capitalismo si afferma come modo di produzione dominante, quei semi cominciano a dare frutti consistenti, anche se inizialmente poco vistosi: il diffondersi capillare di un lavoro a domicilio nella tessitura per produzioni destinate al mercato; il sorgere di filande per la lavorazione della seta in ogni villaggio e infine la comparsa delle prime industrie concentrate lungo i corsi d'acqua (a cominciare dalle filature del cotone, integrate in seguito dalle tessiture; con sviluppi analoghi, anche se minori, in altri comparti tessili) [9].

La prima differenza a essere messa a frutto in modo nuovo è dunque quella fra città e campagna. Da statici, i rapporti fra le due realtà si fanno dinamici: un susseguirsi di azione e reazione in una nuova divisione del lavoro e con inedite assunzioni di ruolo sia da parte della campagna della piccola affittanza che da parte della città: processi destinati a cambiare i caratteri di entrambe.

Si tratta pur sempre della somma di città e campagna. Dove sta la novità?

Come la pila voltiana produce energia elettrica da due metalli (per es., rame e zinco) mediante l'aggiunta di un conduttore umido, così la metropoli contemporanea non è riducibile alla semplice sommatoria di città e campagna: è una realtà nuova che nasce dalla messa a frutto della diversità di potenziale dei due contesti, a cominciare dai diversi costi di riproduzione della forza lavoro. In questo caso il “conduttore umido” è, ça va sans dire, il mercato.

Le rivoluzioni nei trasporti e nella velocità fanno ovviamente la loro parte nel favorire l'intensificarsi e l’estendersi delle nuove relazioni.

Da allora quali sviluppi ha conosciuto il nuovo organismo?

La necessità di nutrirsi di differenze ha portato ad ampliare il raggio di azione e di influenza dei fulcri metropolitani. Lo sviluppo si è fatto travolgente arrivando a configurare il mondo intero come un reticolo gerarchico di metropoli fra loro in competizione.

Che conseguenze sui modi di concepire l’abitare e di configurare l’habitat?

Nella metropoli matura la mobilità dei fattori della produzione e le relazioni asimmetriche regolate dal mercato finiscono per avere la prevalenza sui legami verticali: le relazioni terra-cielo (il legame religioso) e il radicamento alla terra, che fino ad allora avevano contrassegnato il modo di abitare e di trasformare il mondo.

Se i vincoli regolatori indicati da Botero sono saltati, che ne è delle idee di organicità e di equilibrio?

Riferito agli aggregati insediativi, il termine organico può bene indicare i caratteri degli insediamenti – città, borghi, villaggi – strutturati e dimensionati su relazioni comunitarie. Dante Alighieri nel Convivio indica quattro livelli di organizzazione del convivere tra loro necessariamente concatenati: la famiglia, la vicinanza (la contrada, il quartiere), la città e lo stato [10]. La triade casa, quartiere, città è lo schema ordinatore della convivenza civile negli aggregati urbani in Europa fino a quando la metropoli matura non mette in discussione il principio organico con il disgregarsi delle relazioni storiche e le inedite manifestazioni fisiche che la caratterizzano (conurbazioni e slabbramenti degli abitati). Fino ad allora le relazioni comunitarie e l'identità condivisa si sono strutturate secondo due livelli integrati: il quartiere (o sestiere) e la città. È da questa duplice struttura relazionale che la città cristiana ha preso corpo e forma.

Che ne è dell'equilibrio a scala territoriale?

Su questo è interessante seguire Carlo Cattaneo. Il grande studioso coglie nel segno quando, per il caso italiano, mette l'accento sull’«intima unione [della città] col suo territorio» [11]. È meno convincente quando attribuisce a tale unione la prerogativa di «persona politica» [12] e di « stato elementare, permanente e indissolubile» [13] facendone il riferimento cardinale del suo progetto politico federale.

Eppure – si obbietterà – il Cattaneo è uno dei pochi che, ai suoi tempi, sa interpretare aspetti rilevanti delle radicali trasformazioni di cui è spettatore. È vero; ma l'autore della Città come principio ideale non vede, o ignora volutamente, come già ai suoi tempi le nuove relazioni economiche e territoriali abbiano l'effetto di scardinare un assetto consolidato da secoli, se non da millenni: un sovvertimento dei quadri relazionali che rende già allora impraticabile il suo progetto di una nazione costruita dal basso, attraverso un mosaico «equabile» di «stati elementari» [14]. Già nei primi decenni dell’ottocento, oltre al già richiamato cambiamento di segno dei rapporti città campagna, a travolgere gli equilibri precapitalistici interviene l'instaurarsi di un nuovo rapporto gerarchico fra le città.

Solitamente quando si dice metropoli si intende “grande città” e comunque raramente il termine viene usato in riferimento a un periodo antecedente al novecento. Ciò che lei e Graziella Tonon sostenete nei vostri scritti esce da tale uso comune del termine metropoli…

È questione di intendersi sulle definizioni, evitando soprattutto di cadere nelle trappole che si nascondono nelle ambiguità terminologiche.

L’assunzione di un metro quantitativo – in particolare la crescita dell'edificato – ha portato più di uno studioso a identificare nel secondo dopoguerra del novecento il periodo in cui in Italia fa la sua comparsa la metropoli [15]. Si tratta di un errore non meno grossolano di quello che colloca la rivoluzione industriale in Italia a partire dal periodo giolittiano.

Identificare la metropoli contemporanea con la “grande città” o con la cosiddetta “megalopoli” facendo riferimento ai soli aspetti fisici e funzionali– il gigantismo, le conurbazioni, la selezione delle funzioni – oscura il tratto distintivo del nuovo organismo: i suoi caratteri relazionali. Per capirci: ci possono essere città relativamente piccole che pure si pongono precocemente come fulcri di relazioni metropolitane estese (è il caso di Milano), e città di dimensioni assai maggiori la cui trama di relazioni metropolitane è al confronto più debole. In più di un caso il gigantismo urbano nasce dalla debolezza dell’hinterland. E questo accade non solo nel cosiddetto “terzo mondo”.

In che rapporto stanno allora città e metropoli?

Considerare città e metropoli come sinonimi finisce per avvalorare un uso improprio del termine città. Poco male se ciò non concorresse a rimuovere un problema cruciale. E cioè che la metropoli contemporanea tende a porsi contro la città. Nel senso che tende a un superamento della città per quanto concerne non solo i tratti fisico-funzionali ma anche le sue stesse ragioni costitutive. I processi molecolari alla base del fenomeno metropolitano tendono infatti a mettere in discussione il carattere peculiare dell'organismo urbano: il suo essere – per usare parole di Giandomenico Romagnosi, il maestro di Carlo Cattaneo – «una vera persona morale, avente una cert’anima con un certo corpo, mossa da particolari circostanze di un dato tempo, di un dato luogo, e con determinate esterne relazioni» [16].

Va anche detto, a scanso di equivoci, che non si tratta di un processo inevitabile: il carattere di «persona morale» degli aggregati insediativi può essere fatto rivivere mettendo in atto forti contromisure di rilancio dell’urbanità, come da diversi anni le municipalità più accorte stanno facendo in Europa.

Allo stesso tempo si parla molto di “città contemporanea”, di “città diffusa”…

Mai come negli ultimi decenni la parola città è stata usata in modo improprio. Non si è però potuto fare a meno di affiancarla con un aggettivo, come appunto nell'espressione "città diffusa", o in quella più recente di "città infinita"; locuzioni dove, a ben guardare, l’aggettivo nega il sostantivo. Siamo di fronte a una delle tante operazione di edulcorazione a cui ci ha abituato il mondo d’oggi e che servono a mascherare la realtà.

Che cosa si nasconde in questo caso?

L'assenza di qualità urbana. In tanta ricchezza individuale è venuta avanti una nuova povertà sociale sia nei caratteri architettonici dei luoghi sia nei quadri relazionali.

Cosa possiamo intendere per qualità urbana degli insediamenti e delle relazioni?

Facendoci anche qui aiutare dal Romagnosi, possiamo definire tale qualità come «spirito di socialità civile» [17] che si fa tangibile tanto nella civitas (il corpo sociale) quanto nell' urbs (la città fisica). Uno spirito che, perché venga mantenuto, richiede di essere continuamente rinnovato.

Perché è utile attivare uno sguardo di lungo periodo sulle vicende della città e della metropoli?

La prospettiva di lungo periodo può aiutare a capire meglio tratti persistenti della società, dell'ethos e delle mentalità, come anche il permanere di alcune linee di forza che agiscono nelle trasformazioni di cui siamo spettatori.

Per rimanere al contesto lombardo, c'è una relazione fra la dimensione relativamente piccola di una città come Milano – per non dire delle altre città lombarde – e il percorso compiuto dalla Lombardia fino ad agganciare le regioni più industrializzate. Tale percorso si distingue per un elevato grado di ruralità della forza lavoro industriale mantenuto su un lungo arco storico. Nella fascia intermedia della regione la popolazione della campagna più densamente popolata d'Europa è stata mobilitata su scala vastissima da una molteplicità di soggetti imprenditoriali che hanno accollato i costi di formazione dell'armatura industriale all'ambiente rurale.

La traiettoria seguita, certamente lunga e tortuosa, si è rivelata appropriata alle sfavorevoli condizioni di partenza (scarsa disponibilità di materie prime e di fonti energetiche; grave ritardo sul terreno tecnologico; debolezza finanziaria e imprenditoriale, aggravata dalla propensione redditiera del ceto possidente). Ruotando parassitariamente attorno alla famiglia-azienda della piccola affittanza dell’altopiano, si è dapprima potuto dare vita a un esteso basamento produttivo nel campo tessile (seta e cotone in primo luogo); quindi, quando grandi e medie industrie si sono addensate nelle immediate periferie urbane, è ancora l'altopiano – ormai non più definibile come semplice “campagna” – a dare un apporto decisivo con la sua vasta riserva di forza lavoro.

Si possono a questo punto elencare le peculiarità della metropoli milanese sul lungo periodo:

- il consolidarsi nei membri della famiglia-azienda rurale di un’idea dell'abitare come radicamento e orgogliosa indipendenza. È una conseguenza del fatto che l'habitat rurale dell'altopiano ha potuto essere percepito come centrale rispetto a molteplici opportunità di lavoro, almeno per tutto il percorso che va dalla condizione contadino-industriale a quella industriale-contadina, a quella decisamente industriale (con sbocchi significativi anche verso il lavoro indipendente),

- il relativo contenimento delle migrazioni interne e dell’urbanesimo. È un carattere legato al radicamento di cui si diceva: senza di esso, vista la forte concentrazione di attività industriali, l'inurbamento sarebbe stato assai maggiore;

- il precoce e intenso sviluppo del pendolarismo imperniato sull’area centrale della metropoli. Si tratta di un fenomeno che non ha l'eguale per ampiezza non solo in Italia ma nemmeno in Europa;

- il freno posto alla rendita immobiliare per una lunga fase. È un effetto dei tre caratteri prima richiamati. Una tale limitazione è andata a tutto vantaggio di uno sviluppo produttivo ad alta intensità di lavoro [18]: un modello che a lungo andare mostrerà tutti i suoi limiti;

- la complessità dell’apparato produttivo e delle relazioni. A questo si lega un tratto identitario di Milano-città venuto in particolare evidenza negli anni cinquanta e sessanta del secolo scorso: il suo carattere aperto e sincretico, la sua capacità di assimilare e metabolizzare.

C’è infine una peculiarità del quadro regionale: sia pure con il prevalere del contesto milanese, processi di tipo metropolitano hanno interessato anche i poli urbani di corona (Varese, Como, Lecco, Bergamo e Brescia). Da cui il configurarsi di un sistema originale di metropoli a grappolo[19].

Molti insistono sul policentrismo lombardo. È una definizione adeguata a definire i caratteri insediativi della regione?

L’elevatissimo addensamento di popolazione e attività della fascia intermedia rende la realtà lombarda più complessa di quanto non dica la formula che vuole la regione come un sistema policentrico. Se storicamente la fitta presenza di città e di borghi assume le caratteristiche di un reticolo policentrico, non si può ignorare che questa trama è a sua volta 'annegata' in un sistema insediativo precocemente diffusivo, cresciuto poi a dismisura con l'espansione travolgente del dopoguerra.

Il boom del trasporto su gomma e l'estendersi massiccio della rete stradale hanno favorito un processo espansivo/diffusivo che è andato ad aggiungersi e spesso a travolgere la già fitta struttura insediativa rurale. A partire dai primi anni settanta del novecento, l'espulsione di oltre mezzo milione di abitanti da Milano (a cui si sono aggiunti quelli fuoriusciti dalle piccole e medie città) ha favorito oltremodo questa tendenza, alimentando un sprawl di vastissime proporzioni che non sembra affatto essersi placato.

Se questo è a grandi linee il quadro, il riferimento al "policentrismo" appare più l’esplicitazione di un’intenzione progettuale: un obiettivo condivisibile in linea di principio, ma che, se portato avanti senza fare i conti con processi ormai consolidati, rischia di essere sterile, come ogni fuoriuscita dalla realtà. Con lo slogan del "policentrismo" proposto ad ogni piè sospinto, in verità, si 'cacciano sotto il tappeto' gli effetti devastanti dello sprawl: il fatto che si è venuta costituendo un’immensa periferia metropolitana, sia pure mitigata dal resistere in parte della trama policentrica storica.

Fra i sedimenti di questo modello insediativo e strutturale ce ne sono anche di natura politica?

Spicca, su tutti, il permanere, lungo lo sviluppo della metropoli, di una relativa ‘invisibilità’ di consistenti componenti operaie: prima le forze lavorative polverizzate nei villaggi e nelle cascine; poi, con il decollo della città industriale, gli operai pendolari [20]; infine quel vasto comparto di lavoratori che nella situazione attuale subisce tutti gli effetti di un'atomizzazione e di una precarietà che ricordano, per certi aspetti, quelli della lunga fase di decollo. Una condizione che, ben diversamente dal modello delle banlieu parigine, favorisce lo stemperarsi dei conflitti sindacali e sociali. Poco male o addirittura bene (a seconda dei punti di vista), se una tale condizione non impedisse a un’importante componente della società di autorappresentarsi e di vedere riconosciuto il suo apporto alla produzione di ricchezza.

Che caratteri presenta la “periferia metropolitana” nel contesto milanese?

Nell’ultimo mezzo secolo è rilevabile un legame strutturale fra due periferizzazioni: quella della residenza e quella dei posti di lavori nel secondario. L’una appare funzionale all'altra: il decentramento di popolazione ha determinato un'offerta di forza lavoro a cui la piccola industria e l’artigianato hanno potuto agevolmente attingere (con l’effetto di un sistema di rapporti casa-lavoro in larghissima misura affidati al mezzo di trasporto privato). Un circolo vizioso in cui il "piccolo è bello" mostra tutti i suoi limiti nel contesto internazionale.

A ciò si aggiunge l'alto costo individuale e sociale di un modello insediativo e relazionale dove gli elementi negativi superano, e di molto, quelli positivi di un tempo.

Un cenno merita infine il decentramento per poli che ha caratterizzato il terziario: un fenomeno insediativo i cui difetti maggiori stanno nell'essere affidato pressoché esclusivamente al mezzo di trasporto privato, con pesanti conseguenze sulla congestione del traffico che una accorta programmazione avrebbe potuto evitare.

Facciamo un passo indietro. Come si è reso possibile per Milano il passaggio alla condizione di città industriale?

Per spiegare il «grande scatto» che si determina fra la fine dell'ottocento e il primo decennio del novecento, più di uno storico ha messo l'accento sugli importanti elementi di rottura: il costituirsi della banca mista; l'affermarsi nella siderurgia della produzione a ciclo continuo e integrato; la disponibilità di una nuova fonte energetica, l'idroelettrica, che per la prima volta non vede l'Italia svantaggiata; l'ingresso nelle produzioni nuove (elettromeccanica e automobilistica); il raggiungimento di nuove economie di scala ecc. Se l'importanza di questi fattori è tale da avallare la tesi che «[...] i primi anni del nuovo secolo [furono] una vera e propria fase di “rivoluzione”» [21], ciò non deve impedire di vedere le due rivoluzioni che l'hanno preceduta e che sono rilevabili non solo e tanto attraverso misurazioni macroeconomiche, ma anche tenendo conto di diversi altri processi, a partire da quelli molecolari, e da quelli non meno decisivi sul terreno delle infrastrutture e delle strutture commerciali e finanziarie. Si possono richiamare brevemente (in parte li abbiamo già visti):

1. la penetrazione del mercato anche nei più isolati casolari (Carlo Cattaneo);

2. la capacità del capitale di dar vita a mercati del lavoro anche sotto il permanere formale di un lavoro indipendente;

3. il mutamento dei comportamenti demografici della famiglia-azienda della piccola affittanza, portata a riprodurre in abbondanza forza lavoro per il mercato;

4. il radicarsi di una cultura industriale e il costituirsi di vivai imprenditoriali e di propensioni all'investimento nell'industria;

5. l’apporto fornito dall'infrastrutturazione territoriale, in particolare da una rete di trasporti su ferro notevole sia a scala regionale (una fitta rete di ferrovie e tramvie) sia a livello internazionale [22];

6. infine tutto ciò che, con i trasporti, ha concorso a fare di Milano una piazza di mercato e un centro finanziario di primaria importanza, quantomeno in Italia.

Della prima rivoluzione – la formazione di una fitta intelaiatura produttiva nelle campagne – si è già detto. Quanto alla seconda – il superamento dell’impossibilità di far attecchire in città le attività industriali – un apporto rilevante è venuto da un incentivo fiscale: l'esenzione del circondario esterno dai dazi sui beni di consumo. È infatti il determinarsi della condizione che Carlo Cattaneo ha definito di «porto franco» [23] a favorire il concentrarsi, a stretto contatto con la città storica, di opifici, magazzini e popolazione (una compagine umana composita, alimentata sia dai ceti deboli espulsi a ondate successive dal cuore della città sia da masse crescenti delle famiglie di giornalieri e braccianti provenienti dalle campagne della Bassa irrigua, altra grande riserva di forza lavoro).

Come si ridisegna il quadro insediativo con il «grande scatto»?

Le maggiori concentrazioni industriali si appoggiano per lo più al sistema policentrico delle città a cui fa capo la rete ferroviaria principale. In pochi altri casi – Legnano, Sesto San Giovanni, Saronno ecc. – è l'industria stessa a precedere la formazione di insediamenti urbani, cambiando radicalmente il quadro di vita di borghi o villaggi agricoli. Il sistema ferroviario rimane comunque il supporto obbligato per le successive espansioni del metalmeccanico e del chimico, fino a che il mezzo privato su gomma e le spinte al decentramento non sono intervenuti a cambiare in senso diffusivo le opportunità localizzative.

A un certo punto la riserva di forza lavoro delle campagne della provincia e della regione non basta più. Quando si verifica il coinvolgimento massiccio di altri territori?

Già tra le due guerre si ha un primo ricorso a immigrazioni dal Veneto e dal Meridione. Ma, com'è noto, sono gli anni del miracolo economico (1956-62) a segnare una vera e propria rottura degli argini con le immigrazioni che hanno per origine privilegiata il Meridione. A rompersi è ovviamente anche il delicato equilibrio che aveva consentito a Milano di rimanere una città relativamente piccola rispetto alla notevole quantità di energie umane e materiali che utilizzava e metteva in moto.

Se il boom delle produzioni dei beni di consumo di massa (auto, elettrodomestici ecc.) ha portato a una sostanziale riconferma dell'armatura industriale formata dalla prima industrializzazione “pesante” (sia pure con nuove ramificazioni), la maggiore novità nel quadro insediativo è data dal riprodursi della periferia metropolitana: una urbanizzazione quasi totale delle campagne a nord di Milano, con tracimazioni verso le altre direzioni.

Il processo è stato esaltato da due fatti: 1) la nuova immigrazione si è configurata come trasferimento stabile di interi nuclei famigliari; 2) gli immigrati attivi non hanno occupato solo nuovi posti lavoro ma hanno innescato una vasta funzione sostitutiva delle forze di lavoro già presenti nella produzione.

Nel giro di meno di un decennio, dalla metà degli anni settanta alla metà del decennio successivo, la città industriale conosce un collasso verticale. Come si spiega un fenomeno di tale portata che nessuno ha saputo prevedere?

La ragione di fondo è semplice: nel giro di pochi lustri si sono annullate le differenze nei costi di riproduzione della forza lavoro che avevano costituito il motore della metropoli. A produrre tale annullamento l’innalzamento dei valori della rendita fondiaria anche nell’hinterland, esito del dilagare della colata di cemento e della infrastrutturazione stradale capillare.

Allo stesso tempo il balzo in avanti della rendita ha messo drasticamente in discussione la localizzazione urbana di molti complessi industriali (peraltro ormai scarsamente competitivi), con un vasto processo di chiusura o di decentramento di molte unità produttive nelle aree periferiche della metropoli e al di fuori di esse. Ne sono venute sintesi geografiche nuove con il persistere di alcune teste di ponte direzionali e finanziarie nella città e il dispiegarsi di molti cicli produttivi (auto, elettronica, chimica ecc.) su scala mondiale.

Negli ultimi decenni il decentramento a lungo raggio (in particolare verso i paesi dell’Est-Europa) ha investito diversi altri comparti, in una logica che vede quelle regioni occupare il posto un tempo riservato alle campagne della regione: un coinvolgimento di natura prettamente metropolitana.

Tutto questo non ha però portato affatto alla sparizione della produzione industriale dalla Lombardia. Si è al contrario verificato il proliferare di unità produttive polverizzate a cui lo sprawl insediativo ha fornito un humus ideale.

Torniamo a Milano. Attraverso quali trasformazioni è passato l'organismo urbano lungo la fase di avvio e sviluppo delle metropoli contemporanea?

Semplificando si possono individuare cinque fasi:

1.l’ascesa della città borghese. È l'epoca che Carlo Cattaneo ha chiamato della «magnificenza civile» [24]. La scelta della borghesia di eleggere il contesto urbano a teatro in cui legittimare anche sul piano culturale la propria egemonia fa del bene alla città. In questo Milano è al passo dei migliori processi riqualificazione urbana che interessano l'Europa;

2.la formazione della città duale. Con la crescita della città industriale si delinea una chiara distinzione, insieme funzionale e sociale, fra la città interna alle mura spagnole e il circondario esterno. La borghesia a questo punto sogna un modello insediativo e relazionale in cui «La grande industria fa sentire alla città i suoi benefici effetti, ma non è localizzata nella città stessa» [25]. Nel contempo vive la realtà del circondario come una minaccia alla sicurezza e appronta progetti urbanistici per rompere quello che considera un assedio.

La “città duale” è però anche il terreno di crescita di una dialettica politica inedita fra le componenti sociali e ciò contribuisce a fare di Milano un laboratorio politico della moderna democrazia nel nostro Paese;

3.l’affermarsi della città corporativa. È il risultato del perseguimento di una rigida struttura piramidale nella società e nella topografia sociale: una gerarchia classista che trova il suo culmine nel fascismo, i cui interventi di ingegneria sociale, realizzati attraverso pesanti operazioni sul corpo urbano, lasciano il segno;

4.il passaggio dal completamento del disegno corporativo alla dissoluzione della città industriale. Gli elementi distintivi di questa fase si possono schematicamente così riassumere: l'inasprirsi e poi il ridursi progressivo della dialettica sociale; l'avvio di un gigantesco esodo di popolazione; infine, la perdita di identità urbana, mal nascosta dal fiorire di vacui slogan (la "Milano da bere", MiTo ecc.);

5.la fase attuale, dominata dallo strapotere immobiliarista e che vede Milano in ritardo sul terreno del rinascimento urbano. C’è un divario abissale fra quello che si fa a Milano e i migliori esempi di rilancio della qualità urbana che da tempo interessano importanti città europee (Barcellona, Parigi, Madrid ecc.). Né i progetti in cantiere si dimostrano all’altezza di questo delicato passaggio storico.

Per concludere: quali problemi travagliano la metropoli milanese e quali proposte si possono avanzare per un miglioramento delle condizioni di vita?

La metropoli matura sembra la puntuale dimostrazione di quanto, già nei primi anni trenta del novecento, Robert Musil aveva intravisto: «c’è un aumento di potenza che sbocca in un progressivo aumento d’impotenza […]» [26].

Il contesto milanese è particolarmente segnato da patologie sia sul fronte della sostenibilità ecologica sia su quello della sostenibilità sociale. Ne indico tre, su cui rilevanti paiono le responsabilità della pubblica amministrazione (a tutti i livelli):

1.l’elevato consumo di suolo. Il carattere strutturale dello sprawl appare ulteriormente sancito dal fatto che la maggior parte delle amministrazioni locali ha nel consumo di suolo una fonte di finanziamento che consente di far quadrare i bilanci (disastrati anche da sprechi e inefficienze). Si è stabilito un nefasto meccanismo fiscale che rende gli enti locali cointeressati alla distruzione del paesaggio. È un legame che va tagliato, uscendo dalle dichiarazioni di principio di cui sono pieni i documenti di pianificazione territoriale a tutti i livelli;

2.la dissipazione di energie legate allo sprawl e a inefficienze nel sistema della mobilità, con pesanti conseguenze in termini di costi sociali e di competitività del sistema economico. A dispetto della prospettiva che, un secolo fa, con la conquista delle otto ore sembrava a portata di mano, non siamo diventati più ricchi, se per ricchezza intendiamo il tempo a disposizione per coltivarci. Ci ha pensato la metropoli contemporanea, con il suo assetto spaziale e relazionale, a occupare una parte crescente delle ore assegnate sulla carta al loisir. Abitare è diventato un lavoro: le economie di scala delle grandi concentrazioni di attività in logiche extra e anti-urbane – commercio, divertimento, lavoro – sono pagate dall' homo metropolitanus in termini di tempo. Lo stesso vale per l'altra faccia della medaglia: la dispersione della residenza. Si è istituito un baratto tacito e obbligato: io ti do delle opportunità - sconti sui prezzi dei beni di consumo e della casa - e tu, per goderne, ci metti il bene più prezioso di cui disponi: il tempo. Il prezzo, manco a dirlo, è pagato in modo inversamente proporzionale al reddito.

Che fare? Le scelte urbanistiche devono porre un alt alla dispersione. Allo stesso tempo vanno compiuti interventi incisivi volti a ridurre la mobilità obbligata e comunque il tempo bruciato dall'inefficienza della macchina metropolitana;

3.crisi della qualità urbana dei luoghi e delle relazioni sociali e il parallelo esplodere dei problemi della sicurezza. Il prezzo più alto è la rinuncia alla città. A pagarlo, in prospettiva, sono tutti i ceti sociali. Per una massa crescente di persone abitare equivale ormai a usufruire di una rete trasportistica che connette contenitori di funzioni. Il tra - lo spazio fra i contenitori - quando non è occupato dalla rete o custodito da quel che rimane dell'agricoltura è terra di nessuno. Ancora mezzo secolo fa il mondo umanizzato era fatto di luoghi e di paesaggi concepiti per accogliere la vita individuale e sociale: teatri che avevano il carattere di interni a cielo aperto. Questa condizione è ora progressivamente erosa. E, per mitigare l'inospitalità dei contesti metropolitani, si predispongono dei simil-luoghi e delle simil-città: quel che basta per dare una parvenza di libertà alla simil-vita.

Contro questo processo urge il rilancio dell’ urbis coltura (oltre che dell'agri coltura). L'esistenza della città è particolarmente minacciata da fenomeni di segmentazione e ghettizzazione sociale che conoscono una nuova virulenza. È la strada su cui tragicamente si sono incamminate le "città" del Sud-America: la disgregazione delle gated communities, ormai vere e proprie isole armate. Occorre che ci opponiamo con tutte le forze al realizzarsi di una simile prospettiva.

[1] Aristotele, Politica, III, 9, 1280 b, in Aristotele, Opere, vol. IX,Politica, Trattato sull’economia, Laterza, Roma-Bari 1991, p 88.

[2] Ivi, III, 9, 1281 a, Aristotele, Politica cit., pp. 88-89.

[3] G. Glotz, La Cité grecque, Michel, Paris 1928, trad. it. La città greca, Einaudi, Torino 1955, p. 39.

[4] C. Cattaneo, Notizie naturali e civili su la Lombardia, Milano 1844, ora anche in Id., Notizie naturali e civili su la Lombardia - La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, a cura di F. Livorsi e R. Ghiringhelli, introduzione di M. Talamona, presentazione di E. A. Albertoni, Mondadori, Milano 2001 (a cui nel séguito si riferiscono le citazioni), p. 65.

[5] G. Botero, Delle cause della grandezza e magnificenza delle città, Roma 1588, ora in Id., Della ragion di Stato - Delle cause della grandezza delle città, a cura di C. Morandi, Cappelli, Bologna, p. 375.

[6] «Non si creda alcuno [...] ch’una città vada senza fine crescendo. Egli è in vero cosa degna di considerazione, onde nasca che le città giunte a certo segno di grandezza, e di potenza, non passino oltre; ma, o si fermino in quel segno, o ritornino indietro». Ivi, p. 376.

[7] Botero, Delle cause cit., passim.

[8] Cfr. G. Consonni, G. Tonon, La fabbrica delle differenze. Note su genesi e sviluppo della metropoli contemporanea, in «Q.D. Quaderni del Dipartimento di Progettazione dell’architettura», a. III, n. 3, settembre 1985, pp. 11-14.

[9] Un quadro sintetico di questi processi è tracciato in G. Consonni, G. Tonon, La terra degli ossimori. Caratteri del territorio e del paesaggio della Lombardia contemporanea, in Aa. Vv., Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Lombardia, a cura di D. Bigazzi e M. Meriggi, Einaudi, Torino 2001, pp. 51-187. Cfr., inoltre, Id., Alle origini della metropoli contemporanea, in Aa. Vv., Lombardia. Il territorio, l’ambiente, il paesaggio, vol. IV, Electa, Milano 1984, pp. 89-164.

[10] «a la [vita felice] nullo per sé è sufficiente a venire sanza l’aiutorio d’alcuno, con ciò sia cosa che l’uomo abbisogna di molte cose, a le quali uno solo satisfare non può. E però dice lo Filosofo [Aristotele] che l’uomo naturalmente è compagnevole animale. E sì come un uomo a sua sufficienza richiede compagnia dimestica di famiglia, così una casa a sua sufficienza richiede una vicinanza [quartiere o sestiere]: altrimenti molti difetti sosterebbe che sarebbero impedimento di felicitade. E però che una vicinanza [a] sé non può in tutto satisfare, conviene a satisfacimento di quella essere la cittade. Ancora la cittade richiede a le sue arti e a le sue difensioni vicenda avere e fratellanza con le circonvicine cittadi; e però fu fatto lo regno». Dante Alighieri, Convivio [1304-1307] IV, IV.

[11] C. Cattaneo, La città considerata come principio ideale delle istorie italiane, in «Il Crepuscolo», a. IX, nei fasc.: 42, 17 ottobre 1858, pp. 657-659; 44, 31 ottobre 1858, pp. 689-693; 50, 12 dicembre1858, pp. 785-790; 52, 26 dicembre 1858, pp. 817-821, ora anche in Id., Notizie naturali cit., p. 239.

[12] Ivi, p. 198.

[13] Ibidem.

[14] È un paradosso che, con Graziella Tonon, ho già messo in rilievo in riferimento agli scritti del Cattaneo sulla Lombardia. Vedi Consonni, Tonon, La terra degli ossimori cit. (in part. il capitolo Lo squilibrio microfisico ovvero l’ingannevole equilibrio della Lombardia cattaneana, pp. 72-92). Cfr. inoltre il mio La città di Carlo Cattaneo, in «Contemporanea. Rivista di storia dell’Ottocento e del Novecento», a. VI, n. 2, aprile 2003, pp. 383-387.

[15] Si tratta di una opinione divenuta “senso comune” in un largo settore della pubblicistica prodotta da architetti e urbanisti italiani in questo dopoguerra, parallelamente alla “scoperta” della dimensione intercomunale della pianificazione. Nel convegno sul tema La nuova dimensione della città. La città regione, tenutosi a Stresa il 19-21 gennaio 1962 (Ilses, Milano 1962), Carlo Aymonino, ad esempio, sostenne che in Italia tra le due guerre «[...] la dimensione della città era ben lontana dall'assumere proporzioni metropolitane [...]» (Da una sintesi dell'intervento ad opera di Giancarlo De Carlo, ivi, pag. l82); ma di citazioni analoghe di potrebbe riempire un volume.

[16] G. Romagnosi, Della ragione civile delle acque nella rurale economia […] , in Id., Della condotta delle acque e della ragione civile delle acque. Trattati di Giandomenico Romagnosi riordinati da Alessandro De Giorgi, vol. V, Perelli e Mariani, Milano 1842-1843, p. 1200.

[17] Ivi, p. 1201.

[18] Cfr. G. Consonni, G. Tonon, Casa e lavoro nell’area milanese. Dalla fine dell’Ottocento al fascismo, in «Classe», a. IX, n. 14, ottobre 1977, pp. 165-259 e Id., Milano: classe e metropoli tra due economie di guerra, in Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, Anno Ventesimo, 1979-1980, Feltrinelli, Milano 1981, pp. 405-510.

[19] Cfr. Id., La terra degli ossimori cit., in part. le pp. 162-171.

[20] Rinvio al mio Dalla città alla metropoli. La classe invisibile, in Aa. Vv., Milano operaia dall’800 a oggi, a cura di M. Antonioli, M. Bergamaschi, L. Ganapini, Cariplo-Laterza, Milano 1993, vol. I, pp. 19-36.

[21]L. Cafagna, La formazione di una “base industriale” fra il 1896 e il 1914, in Aa. Vv., La formazione dell'Italia industriale, a cura di A. Caracciolo, Laterza, Bari, 1977 (1969), p. 124

[22] Il capoluogo lombardo può assurgere a un ruolo di caposaldo logistico dei flussi commerciali fra l’Italia e il Centro Europa grazie alle scelte operate sui trafori ferroviari: dapprima quello del Gottardo (1882), scelto in alternativa ai tracciati per il Lucomagno e per lo Spluga, e poi quello del Sempione (1906) che, scelto, a sua volta, in alternativa al Monte Bianco, privilegia ulteriormente Milano rispetto a Torino negli scambi con la Francia.

[23]C. Cattaneo, Sui dazi suburbani di Milano. Lettera (III), ne «Il Diritto», 7 settembre 1863, ora anche in Id, Scritti sulla Lombardia, a cura di G. Anceschi e G. Armani, Ceschina, Milano 1971, vol. I, p. 440.

[24] C. Cattaneo, Sul progetto d’una piazza pel Duomo di Milano, ne «Il Politecnico», a. I, fasc. III, marzo 1839, ora in Id., Scrittisulla Lombardia cit., vol. II, p. 653.

[25] G. Colombo, Milano industriale, in Mediolanum, Vallardi, Milano, 1881, vol. III, p. 51. Cfr. V. Hunecke, Cultura liberale e industrialismo nell'Italia dell'Ottocento, in “Studi Storici”, a. XVIII, n. 4, ottobre-dicembre 1977, pp. 23-32. Cfr. Consonni, Tonon, La terra degli ossimori cit., in part. le pp. 118-127

[26] R. Musil , Der Mann ohne Eigenschaften, vol. I, Rowohlt Verlag, Berlin 1933, trad. it.: L’uomo senza qualità, vol. I, Einaudi, Torino 1982 (1a ed. 1957), p. 147.

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