1. Le fonti della prima legislazione urbanistica italiana vanno cercate negli ordinamenti degli Stati preunitari, in particolare di quelli che avevano subito in misura maggiore l’influenza francese. E’ il caso degli statuti murattiani che prevedevano, tra l’altro, l’acquisto da parte del comune di tutte le aree comprese nei piani; quelle edificabili erano concesse ai privati mediante il pagamento di un canone trentennale [1].
Nello Stato unitario, com’è noto, la prima disciplina relativa ai piani regolatori è contenuta nella legge del 1865 sulle espropriazioni per pubblica utilità (legge 25 giugno 1865, n.2359). Erano previsti due tipi di piano: il piano regolatore edilizio e il piano di ampliamento (capi VI e VII della legge). Il primo, consentito soltanto per i comuni con popolazione superiore a 10.000 abitanti, concerneva l’abitato esistente, e aveva lo scopo di migliorarne la disposizione dal punto di vista dell’igiene e del traffico; doveva anche contenere “le linee da osservarsi nella ricostruzione di quella parte dell’abitato in cui sia da rimediare alla viziosa disposizione degli edifizi, per raggiungere l’intento”. Il piano di ampliamento riguardava invece la formazione di nuovi quartieri, secondo un programma di progressivo sviluppo, assolvendo anche a funzioni di carattere estetico (sicura, comoda e decorosa disposizione dell’abitato). Ambedue i piani erano adottati dal consiglio comunale e approvati con decreto reale, avevano una durata limitata nel tempo, non più di venticinque anni, la loro approvazione equivaleva a dichiarazione di pubblica utilità e comportava per i proprietari dei terreni e degli edifici in essi compresi l’obbligo di uniformare le ricostruzioni, le trasformazioni di edifici esistenti e le nuove costruzioni alle linee indicate nei piani medesimi.
“Tali piani erano in sostanza dei piani di allineamento modellati su quelli codificati dal diritto napoleonico, per il quale le linee tracciate dal piano avevano l’effetto di sottoporre i terreni non costruiti all’immediato arretramento, se aperti, alla servitù non aedificandi, se recintati, ed i terreni costruiti al divieto di lavori atti a prolungare la durata dei fabbricati. Tuttavia la legge del 1865 prevede due istituti che – modellati anch’essi sulla legislazione francese – meritano di essere sottolineati per il loro contenuto innovatore: l’espropriazione per zone (articolo 22) e l’imposizione dei contributi di miglioria (articolo 77)” [2]. La prima norma consente di estendere l’espropriazione non solo alle aree strettamente necessarie alla realizzazione dell’opera pubblica prevista, ma anche a quelle attigue. Disposizione analoga consentì in Francia la realizzazione di opere pubbliche “che colpiscono l’immaginazione per la loro magnificenza”, mentre nel Belgio (in cui tale disposizione mancava) “si riuscì ad avere costruzioni meschine e talvolta prossime all’assurdo” [3].
Le disposizioni in materia di urbanistica della legge del 1865 ebbero scarsa applicazione e furono sostituite da leggi speciali, una per ciascun nuovo piano regolatore: furono quasi cinquanta gli strumenti urbanistici approvati in tal modo, fra i quali ricordiamo: il piano di Giuseppe Poggi per Firenze capitale (1865), i piani per l’espansione di Roma di Alessandro Viviani (1873, 1892), di Edmondo Saint-Just di Teulada (1911, al tempo dell’amministrazione di Ernesto Nathan), il piano di risanamento di Napoli (1885, dopo il colera), il piano di Milano di Cesare Beruto (1889). Nel 1935 risultava che, dei 93 capoluoghi di provincia, 32 disponevano di un piano regolatore approvato e 47 lo stavano predisponendo, solo 13 non avevano affrontato la questione urbanistica [4].
Negli anni del fascismo la tecnica urbanistica si era perfezionata, i nuovi piani regolatori (sempre approvati con leggi speciali) adottarono forme evolute di elaborazione e di rappresentazione. Alcuni sono piani moderni e convincenti, e i provvedimenti di approvazione anticipano la legge del 1942, ispirandosi ad alcuni principi uniformi, fra i quali vanno ricordati:
la distinzione fra piano regolatore di massima e piano particolareggiato: il primo contenente direttive e criteri generali, il secondo tendente a sviluppare e a dettagliare le direttive;
il ricorso allo strumento dell’espropriazione per attuare le sistemazioni previste;
il divieto di procedere, al di fuori dei limiti del piano regolatore di massima, a lottizzazione di terreni.
In alcuni casi operano disposizioni più radicali di quelle della stessa legge del 1942. Per esempio, la legge di approvazione del piano regolatore della città di Roma del 1931 prevede l’esproprio delle aree fabbricabili comprese nei piani particolareggiati anche prima dell’approvazione degli stessi piani. Anche per quanto riguarda la “forma” del piano, in quegli anni si raggiungono risultati ragguardevoli. Cito per tutti il piano regolatore di Napoli approvato nel 1939 e, per alcuni aspetti di cui trattiamo in seguito, il piano di Roma del 1941. Il piano di Napoli del 1939 è forse il miglior piano di cui sia stato dotato il capoluogo campano [5]. A esso collaborò Luigi Piccinato, che probabilmente ne curò la stesura. E’ accompagnato da una relazione lucida ed esauriente, che analizza la documentazione statistica disponibile, individua i problemi fondamentali della città e propone idonee soluzioni. Per segnalarne l’attualità, basta ricordare che, nella relazione, ampio spazio è riservato all’inquadramento regionale: vi si legge che le questioni della città andrebbero “proporzionate e risolte” in un piano regionale; ma ipotizzare un piano regionale, in assenza di “una ossatura amministrativa” con i necessari poteri, “rimarrebbe uno studio puramente platonico”. Nonostante questa “forzata limitazione” il piano deborda in alcuni comuni limitrofi.
Fra i risultati sicuramente positivi dell’urbanistica di quegli anni vanno ricordati almeno altri due piani ai quali anche collaborò attivamente il giovane Piccinato: mi riferisco a Sabaudia e all’E42, ampiamente documentati [6]. Le esperienze cui abbiamo accennato sono tutte precedenti alla legge del 1942 e le stese ragioni culturali e pratiche che le avevano generate sono evidentemente all’origine della legge.
2. Di una nuova legge urbanistica si era cominciato a parlare nella “Commissione reale per la riforma della legge sull’esproprio per pubblica utilità”, istituita nel 1926 dal ministro dei Lavori pubblici Araldo Di Crollalanza [7]. Il 30 aprile 1932 Di Crollalanza insediò un’apposita “Commissione ministeriale per la riforma delle disposizioni di legge sui piani regolatori” che dopo pochi mesi, nel settembre 1932, aveva già predisposto un primo “Progetto di legge sulla sistemazione e sull’ampliamento degli abitati”, cui seguì, due mesi dopo, il “Progetto di legge generale urbanistica”, probabilmente elaborato da Virgilio Testa: progetto aggiornato più volte, fino alla stesura definitiva del maggio-giugno 1933 [8]. Quest’ultimo è un testo di indiscutibile importanza, anticipatore della legge del 1942 che, anzi, per certi versi, sembra che abbia fatto passi indietro rispetto al progetto di dieci anni prima. Per esempio, per quanto riguarda il rapporto fra piano regolatore e piano particolareggiato: il piano regolatore (o “piano di massima”, secondo l’ultimo testo del 1933) rappresenta “la trama sulla quale verranno sviluppate le varie sistemazioni edilizie, perciò non crea vincoli a carico dei proprietari all’infuori dell’obbligo di osservare le linee e le norme di zonizzazione. Ad esso si dà carattere di durata illimitata com’è richiesto dalla sua funzione ed estensione. Solamente i piani particolareggiati sono qui considerati come di pronta attuazione e con efficacia da costituire vincoli veri e propri di espropriazione sulle proprietà in essi comprese” [9]. Per la disciplina urbanistica di più comuni può essere disposta la formazione di un piano regionale che comprende, tra l’altro, anche “i vincoli per la tutela di bellezze artistiche o panoramiche”.
Il progetto non riceve però l’adesione della federazione nazionale fascista della proprietà edilizia e non è approvato in consiglio dei ministri. Poco dopo Di Crollalanza è sostituito. Di legge urbanistica non si parla più per quattro anni, fino al primo congresso nazionale dell’Inu del 1937, significativamente inaugurato da Giuseppe Bottai [10]. Si ratifica allora l’alleanza fra l’ideologia corporativa e la disciplina urbanistica e ricomincia la discussione per la nuova legge. Nell’ottobre 1940, l’Inu pubblica i “Criteri fondamentali di una legge urbanistica” elaborati da una commissione presieduta da Alberto Calza Bini [11]. Il ministro dei Lavori pubblici Giuseppe Gorla agisce con determinazione. Nel dicembre 1941 insedia anch’egli una commissione ad hoc che rapidamente elabora un testo di legge sottoposto al consiglio dei ministri nel marzo 1942. Interviene ripetutamente il ministero delle Corporazioni, rivendicando e ottenendo che la localizzazione dei nuovi impianti industriali potesse avvenire fuori delle previsioni degli strumenti urbanistici e altre agevolazioni. Alla Camera dei fasci e delle corporazioni e al Senato la discussione fu breve ma intensa, soprattutto fra i difensori a oltranza della proprietà e coloro che alla proprietà intendevano porre dei limiti [12]. Alla conclusione del dibattito, il ministro dei Lavori pubblici Giuseppe Gorla poteva dichiarare che la legge approvata “non può far timore ai galantuomini, ma solo a coloro che, attraverso il diritto di proprietà, vogliono difendere la speculazione”.
3. La nuova legge urbanistica fu promulgata nell’agosto 1942 da Vittorio Emanuele III a Sant’Anna di Valdieri dov’era in vacanza [13]. Non si può liquidarla come una legge “fascista”. E’ invece una legge moderna, che attribuisce all’urbanistica i connotati, ancora attuali, del governo del territorio, non quelli dell’architettura su grande scala. Non è certo un caso se la legge del 1942 è in vigore ormai da quasi sessant’anni, nonostante il nuovo modello costituzionale che ha direttamente inciso sulla materia urbanistica, trasferendone le competenza dallo Stato alle Regioni (mentre così non è stato, o lo è stato solo in parte, per le leggi di tutela del 1939), mentre i tentativi di riforma si susseguono inutilmente dalla seconda metà degli anni Cinquanta.
Al centro del sistema configurato dalla legge sta l’ambizione di includere nella pianificazione urbanistica l’insieme delle forme e degli istituti funzionali al governo del territorio. Nel commento predisposto dall’Inu subito dopo l’approvazione della legge si osserva che alla “nuova legge ha presieduto adunque un concetto di integralità della disciplina urbanistica; si è ravvisata la necessità di una regolamentazione degli aggregati urbani, ma anche delle campagne; e non soltanto degli elementi strettamente planimetrici dell’organismo cittadino e della sua zona di influenza, ma anche di tutti gli altri elementi dell’attività urbana” [14]. L’urbanistica, insomma, come disciplina che si estende alla totalità del territorio e delle trasformazioni che lo riguardano.
La legge è articolata su un sistema di piani urbanistici: i piani territoriali di coordinamento, che dovrebbero indirizzare e coordinare l’attività urbanistica in determinate porzioni del territorio nazionale ed alle cui direttive dovrebbero uniformarsi i piani regolatori intercomunali e comunali; i piani regolatori intercomunali, aventi per oggetto la sistemazione urbanistica di due o più comuni contermini con particolari caratteristiche di sviluppo; i piani regolatori generali (Prg), estesi all’intero territorio comunale, di cui stabiliscono le direttive per l’assetto e lo sviluppo urbanistico; i piani particolareggiati, che precisano tali direttive con riferimento a porzioni limitate del territorio comunale, per consentire l’attuazione dei piani generali. La formazione dei piani regolatori generali è obbligatoria per i comuni indicati in appositi elenchi ministeriali, è facoltativa per gli altri comuni che, se non intendono adottare un Prg, sono obbligati a dotarsi di un programma di fabbricazione, che è una specie di Prg semplificato nei contenuti e nelle procedure di approvazione e di attuazione.
Il sistema si fonda sulla presenza congiunta dei poteri statali e comunali. Secondo la legge del 1942, l’approvazione dei piani regolatori e dei programmi di fabbricazione è quindi un “atto complesso” alla cui formazione concorrono ugualmente la volontà del comune e dell’autorità statale (il ministero dei Lavori pubblici). Soltanto i piani territoriali di coordinamento sono di esclusiva competenza dello Stato. A essi si attribuiva un’importanza decisiva nella politica del fascismo. Secondo Alberto Calza Bini, i piani territoriali sono il “vero strumento di armonica disciplina, per il quale soltanto possono ordinatamente raggiungersi gli scopi che il Regime si prefigge: l’allontanamento dei disoccupati dai grandi centri cittadini, l’equa distribuzione del lavoro produttivo su tutto il territorio nazionale, la valorizzazione e il potenziamento delle naturali risorse del suolo” [15].
L’impostazione risente evidentemente delle tecniche giuridiche elaborate in età liberale riguardo ai rapporti fra l’amministrazione centrale dello Stato e i comuni, che il fascismo esasperò assicurando allo Stato un ruolo nettamente predominante. Al riguardo fu coniato dalla dottrina giuridica il concetto di autarchia, intesa come l’insieme dei poteri attributi all’ente pubblico locale al fine di perseguire gli interessi propri dello Stato [16]. Il ruolo dello Stato è evidenziato subito, all’articolo 1, dal potere di vigilanza attribuito al ministero dei Lavori pubblici e dall’istituzione di organi periferici con la specifica competenza a controllare l’attività urbanistica e a orientarla.
Al ministero spetta anche l’approvazione dei piani regolatori, dei piani particolareggiati e dei programmi di fabbricazione e di decidere riguardo alle osservazioni e alle opposizioni. Ciò dipende, evidentemente, dall’impianto ideologico del regime ma risponde anche alla sfiducia nelle possibilità per le amministrazioni comunali di gestire il proprio territorio in autonomia senza l’intervento attivo dello Stato [17].
Altro fondamentale elemento innovativo introdotto dalla legge del 1942 è la zonizzazione, cioè la suddivisione del territorio in zone, distinte per omogeneità di destinazione edilizia. E’ una modalità conformativa della proprietà privata, già ampiamente utilizzata dai piani regolatori approvati con leggi speciali prima del 1942, cui fanno riferimento anche le leggi, immediatamente precedenti, relative ai vincoli paesistici, ai beni artistici, al vincolo idrogeologico, alle servitù militari, alla bonifica integrale. E’ proprio l’attribuzione alle autorità urbanistiche del potere di zonizzare, e quindi di conformare le proprietà private, che consente di eliminare il ricorso alle leggi speciali, una per ogni nuovo piano.
4. Il centro della politica urbanistica è sempre costituito dai dispositivi di controllo della proprietà fondiaria. Fermiamoci a considerare quest’aspetto nella legge del 1942, cominciando dalla proposta dell’Inu del 1940, dove si legge che “il possedere e liberamente disporre della proprietà terriera non come strumento di produzione e ricchezza, ma come mezzo di arricchimento e di speculazione senza lavoro e senza merito mal si concilia con la funzione sociale della proprietà. Partendo da tali premesse e dalla considerazione dell’interesse pubblico che è insito nella destinazione del terreno ad uso urbano, si è provveduto a fissare la nuova disciplina giuridica dell’intera materia delle aree urbane”. La normativa proposta dall’Inu prevedeva perciò l’espropriazione delle “aree urbane”: l’indennità si differenziava fra le aree da considerare già urbane, anche in assenza del piano regolatore, prima dell’emanazione della legge, e quelle che lo divengono successivamente. Per queste “la legge, sin dal momento della sua emanazione avverte che il proprietario in caso di esproprio riceverà il prezzo ragguagliato al puro valore di mercato che il terreno, considerato nella sua ordinaria utilizzazione agricola o industriale, avrà alla data del decreto di espropriazione […]. In tal modo ciò che non si pagherà più dall’ente espropriante sarà il plusvalore, che sulle aree urbane già esistenti al momento dell’emanazione della legge o sui terreni agricoli o industriali, si formerà in avvenire. E’ dunque soltanto la speranza di un futuro guadagno del privato che la nuova legge toglierebbe ai privati. Ma questo “futuro guadagno” del privato non è frutto dell’attività produttrice del privato stesso bensì della collettività e della pubblica Amministrazione, cui sono dovuti l’espansione dell’abitato e l’attrezzatura urbanistica” [18].
Lo stesso obiettivo è perseguito dall’articolo 18 della legge del 1942, certamente quello più incisivo sul regime di proprietà dei suoli, che consente ai comuni di espropriare, dopo l’approvazione del Prg, i terreni destinati all’edificazione nell’ambito delle zone di espansione, a un prezzo che non tenga conto degli incrementi di valore derivanti dalle previsioni del piano. Questa norma avrebbe dovuto consentire la formazione di demani comunali, strumento indispensabile per indirizzare l’espansione urbana nelle zone ritenute più idonee, esercitando al tempo stesso un’azione calmieratrice sul mercato delle aree. A proposito dell’articolo 18, il ministro Gorla dichiarò che “fino ad oggi chi ha profittato delle espansioni che hanno avuto le nostre città è stato il privato, anzi, più che il privato, lo speculatore. Lo scopo della legge è proprio quello di impedire la speculazione, non di danneggiare il privato, di togliere al singolo il vantaggio di appropriarsi di tutto il plusvalore che i terreni acquistano per i lavori eseguiti dagli enti pubblici” [19].
Su questo argomento, la riflessione più utile mi pare che sia quella di Piero Della Seta e di Roberto Della Seta [20]. Essi contestano le interpretazioni correnti circa la continuità fra l’urbanistica del fascismo e quella del primo dopoguerra sostenendo, tra l’altro, che “i governi democristiani dei primi decenni del dopoguerra nemmeno sfiorarono” i risultati che si produssero durante il fascismo, in particolare nel campo della legislazione. E ancora, “lo strapotere della grande rendita fondiaria è una novità del dopoguerra, non del fascismo”. Molto innovativa, “addirittura rivoluzionaria”, è considerata la politica del fascismo per Roma. Al riguardo gli autori ricordano il piano regolatore di massima per l’espansione di Roma verso il mare, già prima citato, approvato con regio decreto del gennaio 1941, decaduto nel 1943 per la mancata conversione in legge a causa della guerra e, probabilmente, per le proteste dei proprietari: certo è che le norme sulle espropriazioni di quel provvedimento penalizzavano la proprietà più di quelle previste da qualunque legge precedente [21], e non saranno confermate dalla legge urbanistica dell’anno successivo. Si prevedeva l’esproprio preventivo e generalizzato di tutti i 12 mila ettari appositamente perimetrati – a cavallo della via Imperiale, fino al Tevere – dov’era previsto lo sviluppo lineare della città verso Ostia che avrebbe dovuto ospitare 800 mila abitanti. Il perimetro del piano comprendeva l’E42, dove cinque anni prima erano già stati espropriati 500 ettari circa destinati all’Esposizione universale di Roma [22].
5. Se la politica fondiaria rappresenta il fondamento dell’urbanistica, la sua parte strutturale, non si devono però trascurare le altre componenti della disciplina, quelle relative alle strategie territoriali, alla forma degli insediamenti, alle conseguenze sul piano sociale, ai rapporti con l’edilizia storica, eccetera. E’ soprattutto su questi temi che si coglie l’ambiguità nota del fascismo, il contrasto fra indiscutibili elementi di modernità e ingombranti sovrastrutture retoriche: gli strumenti operativi straordinariamente efficaci del decreto del 1941, e della legge del 1942, sono a servizio dell’espansione di Roma verso il mare, una scelta urbanisticamente sbagliata, perché la più lontana dall’entroterra regionale, dalle principali reti di trasporto e inesorabilmente bloccata dalla linea di costa, destinata perciò a trasformarsi in un’altra, illimitata, direttrice di espansione perpendicolare alla prima. La scelta era, in effetti, esclusivamente ideologica, l’obiettivo era il ricongiungimento di Roma con il “suo” mare (sono gli anni in cui si consuma l’avventura etiopica).
La medesima ambiguità lega la formazione delle leggi di tutela alla pratica degli sventramenti che si sviluppa proprio in quegli anni, anch’essa prevalentemente motivata da ragioni ideologiche. Lo stesso elogiato piano di Napoli del 1939 proponeva pur limitati sventramenti e diradamenti.
6. Concludiamo con due rapide riflessioni. La prima, sul tema, ancora attualissimo, del rapporto fra la legge urbanistica del 1942 e le leggi di tutela del 1939. I progetti di legge del 1932 citati prima comprendevano, come si è detto, “i vincoli per la tutela di bellezze artistiche o panoramiche” fra i contenuti dei piani regionali. Il repentino stop imposto alla legge urbanistica nel 1933 sgomberò il campo a favore delle leggi del 1939, e del piano paesistico. Si stabilì allora una netta distinzione fra il regime delle tutele e quello delle trasformazioni urbanistiche. Distinzione che ha retto anch’essa al trascorrere degli anni e delle vicende storiche (nonostante ripetuti tentativi di riforma, e nonostante l’ambiguità dei “piani urbanistico-territoriali con specifica considerazione dei valori paesistici e ambientali” della legge 431 del 1985).
Il doppio regime è stato convalidato dalle numerose sentenze costituzionali che si sono susseguite, con indiscutibile coerenza, dal 1968 al 1999. Né può essere posto in discussione dalla apprezzabile tendenza delle più recenti leggi regionali – e dalla diffusione, nella formazione degli strumenti urbanistici – ad annoverare le tutele fra i contenuti essenziali della pianificazione urbanistica, a considerarle anzi in guisa di condizione prioritaria agli interventi di trasformazione. In questi casi si tratta, infatti, di contenuti aggiuntivi rispetto a quelli tradizionali dell’urbanistica. Mentre resta ferma la competenza esclusiva in materia di tutela di altre figure pianificatorie e di altri poteri statali e regionali [23].
La seconda riflessione conclusiva riguarda la lunga durata della legge del 1942, cui si è già accennato prima, nonostante le evidenti incompatibilità con la carta costituzionale del 1948 e, in specie, con il profondo processo di riforma che ha avuto inizio a partire dal 1990. Si è passati da un sistema nel quale allo Stato era assegnato un ruolo di assoluta centralità a uno nel quale convivono una pluralità di centri decisionali – non solo in materia di diritto urbanistico – titolari di proprie attribuzioni. E, quindi, non solo le competenze urbanistiche dello Stato sono, evidentemente, ormai residuali, ma la stessa materia urbanistica non è più quella totalizzante pensata negli anni Trenta, non riguarda più l’ universitas dello spazio fisico, ma è subordinata a un complesso di decisioni relative ad altri interessi pubblici specializzati insistenti sul territorio: la difesa del suolo (attraverso i piani di bacino), la protezione della natura (attraverso i piani dei parchi), la tutela dei valori estetici (attraverso i piani paesistici). E, accanto a questi, gli strumenti delle politiche di settore (i piani dei trasporti, dell’energia, dei rifiuti, delle cave, eccetera).
La legge del 1942 è insomma sopravvissuta al suo tempo, alle condizioni storiche, istituzionali e giuridiche che l’avevano determinata. Se continua a essere in vigore è per merito della sua eccellente fattura. Ma soprattutto per l’incapacità del legislatore repubblicano di mettere mano alla riforma della materia urbanistica.
Note
[1] Camera dei Deputati, quarta legislatura, disegno di legge presentato dal ministro dei Lavori pubblici Giacomo Mancini di concerto con altri ministri, recante Norme per una nuova disciplina della materia urbanistica, presentato alla Presidenza il 3 febbraio 1967. Atti Camera n.3774. Relazione, p.2.
[2]Ibidem.
[3] Relazione Pisanelli alla legge del 1865, citato in Camera dei Deputati, quarta legislatura, cit., p.3.
[4] Virgilio Testa, Politica e legislazione urbanistica. Cause di errori urbanistici e possibili rimedi, in Urbanistica, n.1, 1935, p.5.
[5] Cfr. Urbanistica, n.65, luglio 1976, p.5 sgg. Il piano del 1939 fu formato per iniziativa di Giuseppe Cenzato, presidente della Sme, industriale, promotore di iniziative importanti per Napoli e il Mezzogiorno (cfr. in proposito, Stefania Barca, L’etica e l’utilità: appunti sul “meridionalismo razionale” dell’ingegner Cenzato, in Meridiana, n.31, gennaio 1998).
[6] Cito solo, per Sabaudia, Riccardo Mariani, Fascismo e città nuove, Feltrinelli, 1976; per l’E42, Italo Insolera, Luigi Di Majo, L’Eur e Roma dagli anni Trenta al Duemila, Laterza, 1986.
[7] Di Crollalanza fu un protagonista, negli anni del fascismo, della politica del territorio, per usare un’espressione di oggi. Fu ministro dei Lavori pubblici dal 1926 al 1933 e poi presidente dell’Opera nazionale combattenti dal 1933 al 1939 quando si completarono la bonifica pontina e le “città nuove”.
[8] Sui lavori preparatori della legge del 1942, cfr. Pier Giorgio Massaretti, Dalla “regolamentazione” alla “Regola”: Sondaggio storico-giuridico sull’origine della legge generale urbanistica 17 agosto 1942, n1150, in Rivista giuridica dell’urbanistica, 1998, p.437 sgg. Vedi anche il saggio di Francesco Ventura, L’istituzione dell’urbanistica. Gli esordi italiani. Alfani, 1999, dov’è riportato integralmente il progetto di legge del novembre 1932 e la relazione di Virgilio Testa. Virgilio Testa (1889-1978) fu funzionario del Comune di Roma, poi del Governatorato, di cui fu nominato segretario generale da Giuseppe Bottai nel 1935; accademico di San Luca; nel dopoguerra, fino al 1973 è stato commissario dell’Eur ed esperto urbanistico della Dc.
[9] Relazione del ministro Di Crollalanza, in Massaretti, cit., p.449.
[10] L’Istituto nazionale di urbanistica era stato fondato il 25 gennaio 1930 per iniziativa dei componenti del comitato italiano per il XII Congresso internazionale dell’abitazione e dei piani regolatori – che si era svolto a Roma nell’anno precedente – utilizzando a tal fine l’avanzo di bilancio dell’iniziativa. Scopo dell’istituto era lo “studio dei problemi tecnici, economici e sociali, relativi allo sviluppo dei centri urbani e l’esame delle questioni relative all’organizzazione ed al funzionamento dei servizi pubblici di carattere municipale”. Si cercò in tal modo di recuperare il ritardo culturale dell’Italia rispetto ai paesi d’Europa più progrediti dove i problemi della pianificazione si dibattevano dall’inizio del secolo. Nel novembre del 1930 fu fondata la prima sezione, quella piemontese, che nel gennaio 1932 pubblicò la rivista Urbanistica, destinata a diventare, nell’anno successivo, l’organo ufficiale dell’istituto. Negli anni dal 1948 al 1976, quando direttore era Giovanni Astengo (1915-1990), Urbanistica raggiunse un insuperato prestigio internazionale. Nel 1943 l’Inu ebbe il riconoscimento di ente morale e di istituto di alta cultura e nel 1949 di ente di diritto pubblico. Fra i presidenti dell’Inu vanno ricordati Adriano Olivetti, Edoardo Detti, Saverio Tutino, Edoardo Salzano e Giuseppe Campos Venuti.
[11] Le proposte dell’Inu in Urbanistica, n.2, 1941.
[12] Interessante è l’esame degli emendamenti raccolti dalla legge rispetto al testo della commissione ministeriale. Cfr. Massaretti, cit., p.465 sgg.
[13] Legge 17 agosto 1942, n.1150, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 16 ottobre 1942, n.244
[14]Urbanistica, numero speciale, ottobre 1942, p.29.
[15] Alberto Calza Bini, Il “piano territoriale” come strumento della politica fascista del disurbanamento, in Urbanistica, n.1, 1941, p.3.
[16] Una ricognizione della dottrina giuridica in materia in Giorgio Berti, Caratteri dell’amministrazione comunale e provinciale, Cedam, 1969.
[17] Lo stesso può dirsi per non rare forme di recente centralismo regionale, almeno fino a tutti gli anni Novanta, impostato su rapporti con i Comuni di tipo gerarchico.
[18]Urbanistica, n.2, 1941, cit., p.7.
[19]Urbanistica, numero speciale, cit., p.27.
[20] Piero Della Seta e Roberto Della Seta, I suoli di Roma, Editori Riuniti, 1988.
[21] L’indennità di espropriazione era ragguagliata al valore venale del terreno del 1930, capitalizzato al tasso del 4% annuo, senza tener conto di “qualsiasi incremento di valore verificatosi in dipendenza dell’approvazione del piano regolatore o dell’esecuzione di opere pubbliche”.
[22] Il ricorso all’esproprio preventivo delle aree da trasformare era pratica corrente in quegli anni, in particolare a Roma e nell’area romana. Oltre a quelli per la realizzazione di Cinecittà, della nuova università, del Foro Mussolini, dell’Eur, della zona industriale (1.500 ettari lungo la via Tiburtina), vanno ricordati gli imponenti espropri, operati senza riguardo ai proprietari, per le grandi operazioni di bonifica: più di 1.200 ettari per la sistemazione del Tevere e ben 75.000 ettari per le bonifica delle paludi pontine (Della Seta, cit., p.111 sgg.).
[23] Il perseguimento di obiettivi di tutela attraverso il piano regolatore non è recente. Basta citare il decreto del ministro dei Lavori pubblici (che era Giacomo Mancini) di approvazione del piano regolatore di Roma del 1965, quello ancora vigente, che introdusse – per “preminenti interessi dello Stato” – una modifica d’ufficio al piano adottato dal Comune, destinando a parco pubblico gli oltre duemila ettari dell’Appia Antica e della campagna circostante, da porta San Sebastiano al confine comunale. E’ bene ricordare che precedenti proposte di piano paesistico prevedevano invece l’edificabilità a cavallo della regina viarum.