Anche oltre il problema sociale e morale evocato dalla scrittrice, un esempio di vero e proprio consumismo per decreto, frutto perverso della lobby alimentare. Corriere della Sera, 13 maggio 2013 (f.b.)
Ogni anno fino al 50% del cibo commestibile viene sprecato nelle case degli europei, nei supermercati, nei ristoranti e lungo la catena di approvvigionamento alimentare, mentre 79 milioni di cittadini dell'Unione Europea vivono al di sotto della soglia di povertà e 16 milioni di persone dipendono dagli aiuti alimentari.
Secondo una ricerca del Politecnico di Milano, in Italia sono 6 milioni di tonnellate, pari a un valore di 12,3 miliardi di euro, le eccedenze alimentari generate per oltre il 55% dalla filiera agroalimentare e per il restante nell'ambito del consumo domestico. Di questo, quasi il 50% è recuperabile per l'alimentazione umana con relativa facilità, indicando in circa 3,2 milioni di tonnellate annue quelle definite «ad alta e media fungibilità», ossia rapidamente e perfettamente recuperabili per il consumo umano. Ma solo il 6% delle eccedenze viene recuperato per essere donato e distribuito agli indigenti e quando il surplus ancora buono non viene recuperato diventa spreco. Le cifre più difficili da recuperare riguardano gli sprechi di piccole attività commerciali e alimentari, tipo bar e piccole tavole calde, che comunque si attestano su 100 kg di cibo annuali per ogni singola attività.
L'importanza di queste cifre è notevole, e dunque appare notevole la follia legislativa che impedisce a questo cibo di arrivare sulle tavole di chi ha bisogno. Basta guardare una qualsiasi strada di una città europea per rendersi conto che la moltiplicazione di questi 100 kg produce montagne di cibo vertiginose che finiscono tutte nell'ambiente sotto forma di spazzatura, trasformandosi in grande fonte d'inquinamento. Una volta, venivano contemplati i peccati che gridano vendetta al cielo. Ora, in tempi d'indifferenza consumistica, nessuno sembra più scandalizzarsi di questo scialo. Eppure, sono convinta che non ci sia nulla di così profondamente scandaloso quanto il cibo sprecato.
Tra le tante iniziative lodevoli — come ad esempio l'impegno del professor Andrea Segrè con il suo Last Minute Market e l'Emporio della Solidarietà delle Caritas — esiste anche un'associazione che dal 2007 cerca di ovviare a questo scandalo — perché di scandalo si tratta — con gesti concreti e logisticamente efficienti ma, per una perversione burocratica — che investe ogni ambito del nostro Paese, rendendo facile la vita ai disonesti e impossibile agli onesti — questo progetto non riesce a decollare.
Il progetto Pasto Buono — sostenuto da Qui Foundation (www.quigroup.it) e che conta già 120 mila esercizi di ristorazione in tutta Italia — ha appunto lo scopo di rendere usufruibile il cibo già preparato e rimasto invenduto, impedendogli di finire nella spazzatura.
Oltre alla burocrazia eccessiva, si sovrappongono delle clausole legate all'igiene che ne rendono quasi impossibile la realizzazione. I donatori virtuosi, infatti, — che esporrebbero nelle loro vetrine una vetrofania apposita per dimostrare la loro partecipazione — dovrebbe rifornirsi, oltre che di contenitori di alimenti a norma, di furgoni refrigerati per il trasporto del cibo e anche di un costoso «abbattitore di temperatura». La cosa paradossale è che tutti noi, come clienti della rosticceria possiamo comprare il cibo e portarcelo a casa, magari lasciandolo anche due ore in macchina, ma, per donarlo, è necessario abbattere la temperatura. Sarebbe dunque importante semplificare la legge, permettendo alle persone che hanno bisogno di poter mangiare questo cibo civilmente e non accalcandosi ai cassonetti nei quali viene gettato, cosa che accade attualmente.
È una questione di dignità del cibo e di dignità della persona, e dunque di tutta la società civile. Purtroppo sempre più spesso si vedono persone, soprattutto anziani, che frugano nella spazzatura alla ricerca di qualcosa da mangiare e, con questa terribile crisi che stiamo vivendo, il fenomeno si sta allargando anche alle famiglie monoreddito e di coloro che hanno perso il lavoro. Il cibo c'è, e anche in abbondanza, ma non lo si può mangiare perché non sono igieniche le condizioni di trasporto. Perché, mangiare dal cassonetto è forse igienico?
Chi ha provato a fare una qualsiasi cosa in questo Paese — non per interesse personale ma per il bene della collettività — sa che i bastoni tra le ruote sono infiniti perché, nel sadismo paralizzante della burocrazia, c'è sempre un desiderio di perseguitare chi agisce con onestà, correttezza e senza avere tornaconti personali. Il nostro è il Paese del cartelli del «severamente vietato». Mi sono sempre chiesta cosa voglia dire «severamente». O una cosa è vietata o non lo è.
Perché non sognare un cambiamento che ci faccia andare tutti verso la semplicità, la convivialità, la responsabilità condivisa da tutti? Nel caso del cibo sprecato, abbiamo un problema e abbiamo anche la soluzione, ma da questa soluzione nessuno ci guadagna niente, tranne la civiltà e l'umanità. Forse l'inciampo è proprio questo.
Se il problema risiede, come probabilmente sarà, in una legge della Comunità europea — questa Comunità che, a furia di proteggerci, ci farà tutti morire un giorno per un banale batterio — perché, per una volta, non fare una bella figura e lottare per il bene comune in sede di Parlamento europeo, cercando di modificare le clausole che permettono questo scandalo?