». il manifesto, 26 ottobre 2016 (c.m.c.)
Se dovessi lasciare la tua casa in una notte cosa porteresti? Se le uniche opzioni fossero il fuoco di un cecchino o un destino da scudo umano cosa sceglieresti? Domande a cui nessuno di noi è costretto a pensare, ma che sono i dubbi martellanti di un milione e mezzo di persone. È il dramma di Mosul, stretta tra la prospettiva della battaglia finale e una fuga fatta di campi minati e campi profughi.
Fuggono in pochi dalla città, sotto l’assillante controllo dello Stato Islamico intenzionato a difendere ad ogni costo la sua roccaforte. Qualcuno ce la fa: secondo l’Onu sarebbero 6mila i civili scappati dalla periferia di Mosul, con peshmerga e truppe governative a 5 km dalla città.
Dove vanno? I timori delle organizzazioni umanitarie oggi sono cruda realtà: non c’è posto per gli sfollati in un paese che in due anni ne ha accumulati quasi 4 milioni su 33, il 12% della popolazione. Ma bisognosi di assistenza, dopo decenni di guerre globali, sono molti di più: secondo l’Onu, oltre 8.5 milioni necessitano di cure mediche, 6.6 di acqua, 2.4 di cibo.
Di campi fuori dalla città di Mosul ne sono stati messi in piedi pochi perché le risorse mancano. «Stiamo mobilitando risorse importanti per fornire aiuti gli sfollati. C’è grande incertezza intorno alla situazione militare. La protezione dei civili è l’elemento più importante di questa operazione», è il commento di Filippo Grandi, alto commissario Onu ai rifugiati.
L’Unhcr ha aperto 5 campi per 45mila persone e ne ha pianificati altri 6 per un totale di 120mila sfollati. Fornirà anche 50mila kit per costruire rifugi d’emergenza per altre 30mila persone, ma il problema restano i fondi: il budget dell’agenzia Onu per Mosul richiederebbe quasi 200 milioni di dollari ma al momento solo il 38% è stato finanziato. Da tempo l’Onu soffre per carenza di fondi, promessi dagli Stati membri ma versati solo in minima parte: è stato donato solo il 58% dei 861 milioni chiesti per l’Iraq.
Ma l’inverno è vicino e la convinzione è che la battaglia sarà lunga. E allora dove si va? A Baghdad è impossibile, la capitale è lontana e off limits per i sunniti. A Erbil lo stesso: dopo l’iniziale politica delle porte aperte, le autorità kurde hanno sigillato i confini e entra solo chi ha uno sponsor. O sei kurdo o sei cristiano.
E allora si scappa verso ovest, la frontiera con la Siria, un’altra trappola. Subito oltre il confine, in territorio siriano, c’è il campo di al-Hol. Zona rossa: qui gli scontri sono quotidiani, tra combattenti peshmerga da un lato e kurdi siriani dall’altro e miliziani islamisti che tentano la via della fuga o l’ultima carta, l’attentato suicida. Da 10 giorni centinaia di iracheni sono bloccati qui, senza poter raggiungere al-Hol, già strabordante di profughi siriani. Solo 912 iracheni sono riusciti a passare ma di posto non ce n’è.
I funzionari dicono agli sfollati di aspettare: devono controllare che tra loro non ci siano infiltrati. Le famiglie attendono sotto il sole ancora cocente di ottobre e usano coperte per ripararsi dal caldo di giorno e dal freddo di notte. Il loro numero aumenterà: è possibile che a breve saranno 100-200mila gli iracheni che tenteranno di raggiungere la Siria, un paese – se possibile – ancora più devastato. Cinque milioni di siriani sono profughi all’estero, altri 7 sfollati all’interno. Metà della popolazione non vive più nella propria casa, nella propria comunità.
Gli occhi di tutti sono oggi concentrati su Aleppo, ma qui la fuga di massa è stata precedente alla battaglia di questi ultimi mesi: ora andarsene è quasi un sogno. Dai quartieri est non si esce, vuoi per timore delle rappresaglie del governo vuoi per i missili delle opposizioni. Se vivi ad Aleppo, poi, l’unica via di fuga concreta è il confine turco, ma è sigillato: le pallottole della gendarmeria di Ankara hanno ucciso decine di rifugiati, ricordando ai siriani che non sono i benvenuti.
Chi è già dentro, 2.2 milioni di persone che guardavano all’Europa, vivono in condizioni miserabili. Condizioni alimentate, di nuovo, dall’Occidente: se da una parte la Ue paga profumantamente il presidente Erdogan perché non faccia passare nessuno, dall’altra le multinazionali fanno affari sul lavoro sottopagato di chi ha poca scelta.
La denuncia è nel rapporto dell’organizzazione britannica Business and Human Rights Resource Center: molti marchi europei d’abbigliamento sfruttano indirettamente i rifugiati siriani ignorando «abusi endemici» in Turchia. Lavoro minorile, nessun diritto, salari irrisori.