. il manifesto, 10 novembre 2012
Tornare a leggere Marx oggi non può che significare farsi carico della discontinuità che la storia politica del Novecento ha determinato. Lo scacco dei «socialismi reali» (di stampo sovietico, nazionalista o socialdemocratico) è infatti coinciso con una crisi dei marxismi che non ha risparmiato neppure quelli che si erano costituiti nel corso del secolo come «eretici» - e che pure avevano mostrato una straordinaria vivacità teorica e politica. Ben prima dell''89, del resto, un insieme di movimenti (dalla presa di parola delle donne a quella di una molteplicità di soggetti «subalterni») aveva prima attraversato problematicamente il marxismo, poi contribuito a farlo esplodere. Se da più parti sembra annunciarsi un «ritorno a Marx», è bene auspicare che questo «ritorno» non si esaurisca nella soddisfatta constatazione della lucidità con cui Marx aveva annunciato la globalizzazione del capitalismo e la sua crisi, né nell'immediata riproposizione di una qualche variante di «marxismo». Tanto più dopo che i progressi della nuova edizione critica delle opere di Marx ed Engels (la cosiddetta Mega2) ci hanno in qualche modo consegnato l'immagine di un «altro Marx»: l'immagine cioè di un autore certo dominato da una fortissima «volontà di sistema», ma costretto al tempo stesso dall'urto con la materialità della storia e della politica a riaprire continuamente e a sviluppare in direzioni contrastanti la sua ricerca. L'immensa mole di manoscritti e frammenti di teoria che Marx ci ha lasciato fa della sua opera un vero e proprio cantiere aperto. E come tale è bene oggi considerarla ed esplorarla: a me pare che sia questo il modo più produttivo di leggere Marx oggi, nella prospettiva di una riappropriazione creativa del suo pensiero per la comprensione e la critica del nostro presente.
Il libro di Basso affronta anche un gran numero di manoscritti redatti da Marx negli ultimi dieci anni della sua vita, quando il suo lavoro di ricerca, anziché concentrarsi sul secondo e terzo libro del Capitale (ricavati da Engels dai suoi manoscritti), intraprese appunto direzioni molteplici: Marx esplorò gli sviluppi contemporanei di una serie di scienze (dalla geologia alla chimica), si soffermò sull'opera di etnologi e antropologi e allargò ulteriormente l'orizzonte della sua riflessione al di là dell'Europa occidentale (l'interesse per la Russia è qui in particolare decisivo).
L'«ultimo Marx» è da tempo al centro di un vivace dibattito, che si concentra in particolare sugli ultimi due punti richiamati, ovvero sul confronto di Marx con gli etnologi a lui contemporanei (una traduzione parziale dei Quaderni antropologici del 1881-1882 è uscita per Unicopli nel 2009) e sul suo giudizio sulla «comune agricola» russa. Uno degli elementi di maggiore originalità del libro di Basso consiste nella decisione di ricomprendere nell'«ultimo» Marx anche gli scritti solitamente considerati come emblematici della produzione teorica del Marx «maturo»: in particolare il primo libro del Capitale. C'è qui in primo luogo una scelta interpretativa, quella di smarcarsi dalle infinite polemiche che all'interno del marxismo si sono determinate attorno alla questione del rapporto tra il «giovane» Marx e il Marx appunto «maturo»: questo libro muove piuttosto dalla «convinzione di una sostanziale, anche se non aproblematica e lineare, continuità nel percorso marxiano». Sono in primo luogo i problemi affrontati da Marx all'inizio della sua riflessione a rimanere costanti, anche se continuamente sottoposti a verifica, a «rettifica» e a torsioni concettuali con il passare degli anni. Il problema dell'«alienazione» (o «estraneazione»), in particolare, trova secondo Basso una originale riformulazione nell'analisi del «feticismo» delle merci nel primo libro del Capitale, dove è del resto ben presente la traccia della riflessione giovanile sul concetto di «ideologia».
La specificità del feticismo, l'«inversione» che conduce gli uomini a considerare come proprietà «oggettive» delle merci i «caratteri sociali» del loro lavoro, costituisce per Basso una sorta di «filo rosso» che corre attraverso l'intera critica marxiana dell'economia politica.
Oltre l'oggettività L'«opacità» che caratterizza il modo di produzione capitalistico si determina proprio dall'interno del continuo gioco di rimandi tra apparenza, realtà e rappresentazione che Marx analizza in modo rigoroso a proposito del feticismo delle merci (ma che ritorna nella sua analisi del denaro, del diritto, del capitale). Ne deriva, per riprendere una formula marxiana, un'«oggettività spettrale», che ha delle ripercussioni molto precise sul modo in cui la soggettività è costruita nel capitalismo - e che, scrive Basso, deve essere percorsa criticamente fino in fondo per fare emergere il profilo della stessa «soggettività operaia», su cui si esercita lo sfruttamento e che tuttavia è sempre in eccesso rispetto alla «misura» capitalistica.
Il modello dell'universaleQuesto rapporto non è del resto in alcun modo assimilabile a quello che caratterizzava le formazioni sociali pre- o non capitalistiche. Resta tuttavia il fatto che l'«ultimo Marx» mette in discussione la rigidità con cui, con l'obiettivo di fare emergere i caratteri di dirompente novità del modo di produzione capitalistico, aveva caratterizzato tali formazioni sociali negli anni Cinquanta (in particolare nei Grundrisse), riconducendole a un generico «organicismo». L'interesse crescente per le società extra-europee e per il lavoro degli etnologi suoi contemporanei determina indubbiamente uno scarto in Marx: l'idea secondo cui il mercato mondiale è il presupposto del capitalismo moderno si carica di sempre maggiore concretezza, mentre viene progressivamente messa in discussione l'immagine di una transizione al capitalismo costruita univocamente sul modello inglese e presentata come «universale».