Internazionale, 10 Novembre 2017. Le accattivanti soluzioni tecnologiche del Google Urbanism mascherano un urbanistica basata su libero mercato e profitto, dove le decisioni sono determinate dalle domande di mercato. (i.b.)
Un’astuta provocazione? Forse. Ma la Alphabet, la società madre di Google, prende sul serio la questione. I suoi dirigenti hanno accarezzato l’idea di prendere alcune città in difficoltà e di reinventarle sulla base dei servizi della Alphabet: mappe, informazioni sul traffico in tempo reale, connessione wifi gratuita, auto che si guidano da sole e così via. Nel 2015 la Alphabet ha creato una divisione dedicata alle città, i Sidewalk Labs, diretti da Daniel Doctorof, ex vicesindaco di New York e veterano di Wall street.
Il passato di Doctorof fa capire le intenzioni di Google Urbanism: usare i dati per allearsi con immobiliaristi e investitori istituzionali. Da questo punto di vista, Google Urbanism ha poco di rivoluzionario. I dati e i sensori hanno un ruolo secondario nel determinare cosa viene costruito, perché e a quale costo.
Potremmo chiamarla urbanistica alla Blackstone, in omaggio a uno dei più grandi protagonisti finanziari del mercato immobiliare statunitense. Visto che Toronto ha scelto la Alphabet per trasformare Quayside, un’area non edificata di 48mila metri quadrati sul lungomare, potremo finalmente vedere all’opera la natura pseudo-rivoluzionaria di Google Urbanism e la sua resa
alle forze finanziarie che modellano le nostre città.
L’obiettivo a lungo termine della Alphabet è sostituire regole e divieti formali con obiettivi flessibili meno rigidi e basati sui feedback. Parlando di città, anche luminari del neoliberismo come Friedrich Hayek e Wilhelm Röpke erano d’accordo con forme di organizzazione sociale slegate dal mercato. Consideravano la pianificazione una necessità pratica: non c’era altro modo per gestire le infrastrutture o costruire le strade in modo economico. Per la Alphabet non ci sono ostacoli simili: i lussi di dati possono sostituire le regole del governo con quelle del mercato.
Google Urbanism presuppone l’impossibilità di ampie trasformazioni del sistema come per esempio la limitazione del possesso straniero delle proprietà immobiliari. Anticipa la fine della politica, promettendo di usare la tecnologia per far adattare i cittadini alle tendenze globali immutabili come la disuguaglianza crescente.
Queste tendenze significano che, per la maggior parte di noi, le cose peggioreranno. Ma la Alphabet è convinta che le tecnologie possono aiutarci a sopravvivere, per esempio un’app può aiutarci a trovare del tempo libero nelle nostre vite di genitori carichi di lavoro. Indebitarci per comprare un’auto, visto che nessuno ne possiederà più una, non avrà più senso. E l’intelligenza artificiale farà abbassare i costi dell’energia.
È qui che sta la promessa populista di Google Urbanism: la Alphabet può democratizzare lo spazio personalizzandolo grazie ai flussi di dati e ai materiali prefabbricati a basso costo. Ma questa democratizzazione delle funzioni non sarà seguita da una democratizzazione delle risorse urbane. È per questo che la democrazia algoritmica della Alphabet si basa sulla “domanda del mercato”. Poco importa se l’urbanistica della Alphabet non piacerà agli abitanti di Toronto. Il suo obiettivo è impressionare i futuri residenti, per esempio i milionari cinesi che si riverseranno sul mercato immobiliare canadese.
L’urbanistica alla Blackstone continuerà a modellare le nostre città anche quando sarà la Alphabet a smaltire i rifiuti. Google Urbanism è un modo accattivante di nascondere questa realtà.