Se il Carroccio tradisce la vecchia anima di Milano
Curzio Maltese – la Repubblica
Al presidente Fini viene da rispondere che la proposta leghista di riservare posti per indigeni nella metropolitana di Milano, prima ancora di offendere la Costituzione, ferisce l’orgoglio di noi milanesi.
Per chi è cresciuto nella Milano degli anni Settanta, la metropolitana era la prova più fiera dell’internazionalità della città, della sua modernità, del suo essere "vicina all’Europa". Nessuna capitale italiana aveva una metrò decente. Quella romana era ed è rimasta un ghetto sociale sotterraneo. Quella di Milano è uguale a quelle di Parigi o Londra o Monaco. Quando l’Italia era lontana dall’essere una nazione multietnica, la metropolitana milanese era il luogo più interculturale e interclassista del paese. È la rete che collega tutti i simboli internazionali della città, la Borsa e la Fiera, il Piccolo e la Scala, la Triennale e lo stadio di San Siro. Ma una volta alla meta la gente si divideva. I sedili della metropolitana erano l’unico luogo della società italiana dove tutto e tutti s’incontravano. L’operaio di Sesto seduto accanto alla modella svedese, il broker della finanza e lo studente, la casalinga e l’intellettuale, l’immigrato e il barone universitario, il turista giapponese, l’hooligan e il violinista. Un crocevia di autentica urbanità. Perché poi si parlava, in un modo o nell’altro, molto più di quanto sia mai accaduto nei famosi capannelli di piazza del Duomo, dove vanno da sempre soltanto i pensionati.
Ora, la proposta di umiliare questo simbolo con l’affissione di cartelli più adatti all’Alabama degli anni Quaranta o alla Germania degli anni Trenta, dovrebbe far riflettere. È chiaro che non passerà mai. Per la maggioranza dei milanesi rimane ripugnante. Questa sì, straniera. Non c’entra con la storia di Milano. È roba venuta da fuori, una malapianta coltivata nelle aree dell’eterno fascismo pedemontano, che ha sempre visto con misto di rabbia provinciale e invidia la vocazione cosmopolita della capitale. I milanesi non sono razzisti per storia, cultura e anche per convenienza. Alla fine lo sanno che la ricchezza della città, rispetto alle altre capitali italiane, è frutto della sua internazionalità, del lavoro di immigrati italiani e stranieri, di soldi portati da fuori. Milano da sola attira il quaranta per cento di tutti i capitali stranieri investiti in Italia. Già questa notizia, rimbalzata sulla rete in giro per il mondo, è un danno enorme.
Eppure sarebbe sbagliato liquidare la proposta di Salvini come un delirio xenofobo. Si tratta piuttosto di un astuto ballon d’essai per tastare il livello di degrado civile del Paese e magari lavorarci ancora sopra. Salvini non è una camicia verde di seconda fila e nemmeno un personaggio pittoresco alla Borghezio. È il giovane capo dei leghisti milanesi, lanciato ai vertici di un partito che si prepara a festeggiare, sondaggi alla mano, il più grande trionfo elettorale della sua storia. E quanto più conquista consensi al Nord, nelle aree decisive del Paese, tanto meno si modera, anzi spinge sul pedale dell’estremismo xenofobo. Due passi avanti e uno indietro, è la tattica. Oggi vengono riconsegnati dei clandestini africani, che avrebbero diritto d’asilo, nelle mani dei loro aguzzini libici. La proposta dei posti riservati ai milanesi verrà ritirata. Ma intanto la reazione della società milanese lascia perplessi. Silenzi, timidezze, imbarazzi da tutti i palazzi del potere economico e politico. Uno non può credere che arrivi il giorno in cui i milanesi assisteranno senza vomitare alla scena di un anziano immigrato o di una donna africana incinta costretti a cedere il posto a un ragazzo bianco. Ma mese dopo mese, qualcuno ci sta abituando a trattare con gli incubi.
Una risata ci seppellirà
Alessandro Portelli – il manifesto
L'ultima volta che sono stato in metropolitana a Milano i posti erano tutti occupati - anche se non so da chi e se con adeguato diritto di sangue - per cui sono stato in piedi. Se non altro, tenendomi agli appositi sostegni, non ho dato occasione a nessun padano di prendersela anche per questo con Roma ladrona. Almeno su questo, ho la coscienza a posto, adesso che, nella "capitale morale" del paese, il capogruppo in consiglio comunale di un partito di governo - non il primo che passa, insomma - se ne esce dicendo che bisogna riservare ai nativi un congruo numero di posti a sedere. E nessuno lo caccia fuori a calci.
La domanda politica principale in questi giorni è la seguente: "Ci sono, o ci fanno?" Diceva Carlo Marx che la storia avviene in tragedia e si ripete in farsa. Se fosse così, non avrebbe senso disturbare il fantasma di Rosa Parks, la signora afroamericana che consapevolmente decise di sfidare le leggi razziali dell'Alabama rifiutando di cedere il posto a un bianco. E ancora meno ne avrebbe evocare la memoria delle leggi razziali come hanno fatto Franceschini e Amos Luzzatto. In fondo, diciamo, quella del dirigente leghista milanese è solo una delle solite boutade, lo sa anche lui che non è destinata a essere messa in pratica.
Il problema però è che - come sapeva benissimo William Shakespeare - tragedia e farsa invece sono inseparabili e si specchiano fra loro. La tragedia può scadere in farsa, ma la farsa prepara la tragedia. E a forza di dire che le sparate dei leghisti, del loro leader Bossi e del loro guru Gentilini (e del loro compare Berlusconi) sono folklore, colore locale, spiritosaggini che non vanno prese sul serio, intanto non ci accorgiamo che queste buffonate stanno diventando realtà in spazi assai più vasti e cruciali dei vagoni milanesi: è l'intera Italia che si trasforma in territorio segregato, con scuole e ospedali riservate agli indigeni, e galera per chi ne varca gli inviolabili confini. Le schifezze folkloristiche locali si allargano e diventano politiche governative nazionali: Gentilini propone di prendere a fucilate gli immigrati come leprotti a Treviso, e tutti ridono; il suo capopartito Calderoli propone di prendere a cannonate le barche dei migranti senza permesso nell'Adriatico, e ci cominciamo a preoccupare; il loro ministro Maroni lascia le barche alla deriva, rispedisce i migranti al mittente e se ne vanta, e la gente comincia a morire. La farsa milanese si fa tragedia nei campi di concentramento dei migranti in Libia, nei suicidi nei centri di detenzione ed espulsione in Italia. Non "ci fanno": ci sono, e fanno finta di non esserci.
Il nostro paese è dominato della terribile serietà del poco serio. Berlusconi che fa cucù alla Merkel, che vuole palpeggiare l'assessora trentina, che dice ai terremotati di considerarsi in campeggio, che racconta sadiche barzellette sui campi di sterminio e sui desaparecidos non fa ridere non solo perché non è spiritoso, ma soprattutto perché questi sono discorsi seri, in cui ridefinisce la correttezza politica nella nuova Italia: sono il linguaggio che dà forma alla pratica dei rapporti fra gli stati, fra i generi, fra le classi, fra la vita e la morte. E' tutto uno scherzo, è tutta una farsa - che si porta via con un ghigno le cose poco serie come i soldi della ricostruzione in Abruzzo, le politiche per la crisi, i morti sul lavoro, i posti di lavoro, i diritti e i salari, la dignità delle donne e dei migranti, la bambina ammazzata dai nostri ragazzi in Afghanistan, e altre pinzillacchere. Forse "ci fanno" e non "ci sono" solo perché in questa commedia sta tutto il loro esserci. Dicevamo "una risata vi seppellirà". Avevamo torto. La risata sta seppellendo noi.