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Andrea Manzella
La devolution in salsa italiana
18 Agosto 2005
Articoli del 2004
La riforma costituzionale della destra è insensata (e lo studioso di diritto parlamentare li analizza con efficacia, su la Repubblica del 20 agosto 2004), ma anche quella del centro-sinistra aveva i suoi difetti. Se si imparasse a riflettere un po' più prima di agire...

La storia recente del rapporto tra il nostro Stato e le regioni, è una storia europea in salsa italiana. Negli ultimi 10 anni non c´è Stato europeo che non abbia, come si dice, "decentrato". Il confine più largo, quello dell´Unione, ha allentato gli storici confini più ristretti: quelli degli Stati nazionali. I Larnder, le comunidades, le nostre regioni, hanno stabilito da tempo, legami e rappresentanze a Bruxelles come loro seconda "capitale". Si sono moltiplicate intese transfrontaliere tra regioni contigue appartenenti a Stati diversi.

D´altra parte il potere di far leggi, la qualità costituzionale decisiva, le nostre regioni l´avevano fin dal 1948, con la Costituzione repubblicana. Nel 2001 furono le stesse regioni - e i loro potenti presidenti eletti direttamente - che, all´unanimità, spinsero a espandere contenuti e soprattutto la logica del loro potere legislativo. Nacque così la riforma approvata con il referendum del 7 ottobre di quell´anno. La concezione generale dell´impianto non era cattiva. Ma rivelò subito due errori. Uno sul piano legislativo. Affidare alle regioni competenze, sia pure concorrenti, in certe specifiche materie - ricerca scientifica e tecnologica, grandi reti di trasporto e navigazione, produzione e distribuzione nazionale dell´energia - contrastava con esigenze di azione unitaria dello Stato nell´ordine europeo. L´altro difetto era sul piano amministrativo. La riforma non era (non è) accompagnata da un piano di fattibilità con costi, tempi e risorse ben determinate.

Comunque, è da quella riforma che si deve partire per correggerla, per migliorarla, per completarla. Per bilanciarne pesi e vantaggi. Il progetto governativo si è invece mosso al largo di tutto questo. E parla soprattutto d´altro.

In primo luogo, si accanisce ad aggiungere qualcosa alla fitta lista delle competenze regionali: la devolution. E ne ha fatto la sua bandiera che tutto copre, e che quindi, tutto rischia di travolgere. È infatti disastrosamente antinazionale l´idea che nella stessa Costituzione possano ammettersi differenziazioni territoriali per programmi scolastici, per assistenza e organizzazione sanitaria, e addirittura per il servizio di polizia. (Quest´ultimo è anche il punto più ambiguo della riforma: si vogliono far convivere nello stesso testo costituzionale due formule diverse. Una parla, semplicemente, di polizia "amministrativa". L´altra, rischiosamente, di polizia "locale"?).

Poi, come da sempre previsto, si sta tentando di costruire una Camera parlamentare dove i governi territoriali si confrontino con lo Stato, trovino coordinamento tra loro e reciproche compensazioni, nella ripartizione delle risorse: insomma lo sbocco delle autonomie regionali e locali al centro della Repubblica. I cattivi riformatori l´hanno però costruito come il non-luogo di certe favole, dove tutto è a rovescio.

Dovevano inventare un sistema di rappresentanza territoriale? Avevano dietro la storia, concreta di insegnamenti, della Conferenza Stato-regioni istituita dal 1983 come "sede per un rapporto permanente con gli organi centrali dello Stato". La Corte costituzionale l´ha dichiarata (nel ´94): "sede privilegiata del confronto e della negoziazione politica tra lo Stato e le regioni". E ancora (nel ´97): "sede di raccordo per consentire alle regioni di partecipare a processi decisionali che resterebbero altrimenti nella esclusiva disponibilità dello Stato". Niente. Hanno ignorato una buona esperienza ventennale. Avevano un modello, già approvato con la legge costituzionale del 2001, di partecipazione di rappresentanti di regioni e governi locali alle decisioni delle Camere? L´hanno lasciato irresponsabilmente cadere. Non l´hanno mai provato. Hanno immaginato che far svolgere contemporaneamente le elezioni dei senatori e quelle dei consiglieri regionali porterebbe a "regionalizzare" il Senato (e non a "nazionalizzare" le elezioni regionali, come i più credono). Hanno ridotto il ruolo in Senato dei presidenti delle regioni a semplici compiti elettorali. Hanno vistosamente compromesso - fissando un numero elevato dei senatori (250) - il principio di tendenziale parità delle regioni nella Camera "federale".

A questo punto, come combinare questo Senato "federale " con la Camera dei deputati? Nel progetto s´è costruito un sistema di competenze legislative basate, secondo le materie, sulla prevalenza di una Camera sull´altra e non piuttosto sull´intreccio dei loro poteri di decisione.

Comunque, sempre a rovescio. Così al Senato è affidato, salvo revoca del governo, il compito di determinare i principi fondamentali della legislazione di competenza mista Stato-regioni. L´assemblea di rappresentanza territoriale approverebbe dunque le leggi di principio: quelle a cui sono affidati gli interessi unitari del Paese. Con illogica inversione, alla Camera dei deputati è affidata invece la parola definitiva per la disciplina dell´esercizio dei diritti fondamentali dei cittadini. Dove sarebbe necessario che il Senato, ricco di esperienze più vicine alle comunità territoriali e soprattutto più "libero" nei confronti del dettato governativo, fosse posto in condizioni di parità legislativa.

Al Senato, sempre all´incontrario, spetterebbe proporre l´annullamento di leggi regionali per conflitto con l´interesse nazionale. La Camera dei deputati viene invece espropriata di questa delicatissima competenza dove, per definizione, deve valere la rappresentanza dell´interesse generale della Repubblica, e non la cura d´interessi territoriali. Ancora, con estrema contraddizione, l´"interesse nazionale" viene espresso come formula politica astratta. Non ancorata cioè a precisi parametri già presenti in Costituzione: come l´unità giuridica ed economica dell´ordinamento, la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, il rispetto della normativa comunitaria. Sarebbe questo infatti l´unico ancoraggio che può garantire l´autonomia regionale come vera autonomia da affidare alla tutela del giudice costituzionale e non all´arbitrio di una maggioranza politica congiunturale.

Il mondo a rovescio, si è detto. Così avviene che i presidenti delle regioni dovrebbero partecipare alle elezioni dei componenti del Consiglio della magistratura. E davvero non si capisce perché; a meno che non si voglia mettere in dubbio il carattere nazionale dell´ordine giudiziario. Dal lato opposto, a danno delle regioni, è stato abusivamente nascosto tra le norme transitorie (senza il minimo aggancio a modificazioni introdotte nel progetto) un incredibile incentivo alla loro disgregazione territoriale. Si vuole aprire una finestrella di cinque anni per consentire la frammentazione delle regioni esistenti, "sentendo" solo le popolazioni che vogliono la secessione, senza curarsi di quelle che dovrebbero subirla. Una norma ideale per la proliferazione regionale.

Eppure la via per un regionalismo ben temperato c´è. Come logico sviluppo degli elementi che già sono introdotti nell´esperienza costituzionale nostra e in quella europea (per la prima volta nel progetto, che sarà firmato a Roma il 29 ottobre, i governi territoriali entrano formalmente nella costituzione dell´Unione). La via è quella di concepire le autonomie territoriali come punti di una rete nazionale che sostiene tutti e non abbandona nessuno. Disegnare lo Stato come comunità di regioni e le regioni come federazioni di comuni e d´associazioni di comuni. Costruire le procedure per le decisioni come vincoli di partecipazione e non come momenti di gelosa separazione localistica.

La Corte costituzionale supplendo al legislatore moroso ha già indicato questa direzione: una rete di governi del territorio libera da blocchi, secondo il principio d´intesa e coordinamento e soprattutto, secondo il fluido principio di sussidiarietà (lo spostamento di competenze a seconda delle dimensioni e della intensità operativa dell´intervento). Imprenditori e lavoratori hanno già fatto capire che sarebbe il colmo se l´attuale confuso approccio - federalismo, regionalismo, devolution - creasse impedimenti ("antieuropei") alle imprese e al lavoro. E se, per di più, con i suoi costi finanziari e burocratici, facesse saltare i nostri conti pubblici comunitari.

Sarebbe allora saggio un momento di riflessione comparata con le esperienze regionali nell´Unione. Se, infatti, la salsa italiana prevalesse sulla storia europea, sarebbe, di tutti i finali possibili, il più stupefacente.

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