LA DEMOCRAZIA della paura ha vinto in Francia con l’arma della retorica xenofoba del Fronte Nazionale. È temuta in tutti i paesi occidentali. Lo si intuisce dalle parole tranquilizzanti usate da Barack Obama nella conferenza stampa tenuta due giorni fa. Il Presidente ha sentito il bisogno di rassicurare gli americani che farà tutto quanto è in suo potere per proteggere la democrazia, aggiungendo che «la libertà è più potente della paura» e deve essere difesa a tutti i costi. Alla sua destra, i candidati repubblicani, Donald Trump in testa, lanciano allarmati proclami di chiusura delle frontiere e perfino di Internet.
E Marine Le Pen lo sa e usa proprio l’argomento dell’emergenza per chiedere più radicale emergenza. La strada è aperta a esiti terribili. La leader del Fronte Nazionale, oggi primo partito in Francia, invoca passioni ancestrali dell’unità del corpo mistico della nazione contro i nemici interni, gli emigrati,i rifugiati: tutti identificati con i terroristi, con i musulmani. La semplificazione è una retorica spietata che taglia corto sui dettagli e le specificazioni. È per questo potente nell’immaginario collettivo, facile da capire e da reiterare fino al parossismo. Dove il Fronte Nazionale ha stravinto è infatti nelle regioni di confine: a Calais ha superato il 50%, approfittando delle pressioni contro le migliaia di rifugiati — la “nuova giungla” — che sperano di salpare per l’Inghilterra.
La democrazia liberale non ha armi potenti contro la paura perché la libera competizione delle idee vuole ed esige la pace civile e la tranquillità. È debole contro la paura radicale perché la sua regola è quella di riuscire a unire le opinioni senza azzerare le differenze, senza mettere tutti i diversi in un fascio. È debole, soprattutto in Europa, dove si è impiantata sulla nazione, su un corpo che può essere rappresentato in chiave identitaria estrema. Giuseppe Mazzini lo comprese molto bene e insistette nel tenere distinta la nazionalità del corpo politico democratico dalla religione nazionalista. Si tratta di una distinzione raffinata tuttavia, agevole da articolare in tempi di tranquilla politica dell’ordinario. La storia del vecchio continente ce lo insegna: la paura ha travolto le giovani e deboli democrazie del primo dopoguerra. Bastò a pochi demagoghi speculare sull’impoverimento delle masse e la paura fece il suo corso: armando prima i nazionalismi guerrafondai poi i fascismi che imposero regimi a partito unico in nome della salvezza della patria. Quel che venne poi lo sappiamo fin troppo bene.
Da quelle ubriacature nel mito della purezza della nazione ne siamo usciti addomesticando la nazione con i diritti individuali, e la democrazia con il pluralismo dei partiti e la limitazione dei poteri. Ma queste regole, questi diritti non sopravvivono in solitudine, senza il sostegno di un’opinione larga e diffusa, senza un senso comune. Questo è essenziale proprio perché le democrazie non possono evitare che si esprimano idee liberamente, non possono chiudere la bocca ai demagoghi. La loro forza è sotterranea e deve saper emarginare questi rischi senza reprimerli. Questo dovrebbe a maggior ragione succedere in tempi ardui, per non lasciare che astuti capipopolo soffino sul fuoco della paura e aggreghino larghe maggioranze.
postilla
Il fatto è che le democrazie "liberali", in un mondo dominato dalla prevalenza degli interessi finanziari della globalizzazione capitalistica, sono passate via via dal rispetto delle regole della democrazia rappresentativa (forma della democrazia liberale) al loro sgretolamento. Questo le ha fortemente indebolite nel rapporto tra governanti e popolo. La Francia di Hollande e l'Italia di Renzi ne sono un esempio clamoroso, per tacere dell'Unione europea. Non dimentichiamo che la conquista del mondo da parte del finanzcapialismo, oggi egemonico, è avvenuta con episodi abbastanza violenti, come l'eliminazione fisica di Salvador Allende e del suo regime democratico in Cile.