Il bello dello studiare B., notavo la settimana scorsa, è che le ipotesi analiticamente giuste risultano sempre confermate a opera sua: salta sulla preda, la inghiotte e digerisce, indi ripete l’operazione; fenomeni naturali, come le cacce del coccodrillo o la digestione del pitone. Tout se tient nella sua storia. I paleontologhi ricostruiscono l’intero dinosauro da una vertebra. Idem qui. Persi i protettori salta in politica e non perché gliene sia venuto l’estro: impadronendosi dello Stato vuol salvare una terrificante ricchezza in crescita continua; siccome ha la cultura dei caimani, non gli passa nella testa che esistano poteri separati; e non stia bene diluirsi i falsi in bilancio, ai quali risulta piuttosto dedito, o storpiare la disciplina delle rogatorie affinché prove d’accusa spariscano dai processi milanesi, o codificare stramberie utili alla fuga da Milano. Racconta d’avere speso 500 miliardi nella difesa. Tre mesi fa, vista l’ombra d’una possibile condanna, viene nell’aula (era contumace) dichiarando d’avere cose da dire, senza contraddittori e nei tempi compatibili col gran daffare: sbraita, suda, gesticola davanti ai giudici allibiti; nessuno credeva possibili spettacoli simili; nel monologo non vola una sillaba sul tema dell’accusa (avere comprato delle sentenze) ma scoppierebbe l’inferno se gli fosse tolta la parola; e forse conveniva che l’abominevole messinscena avvenisse. Dall’accusa gemella s’era fortunosamente salvato grazie a una svista legislativa e al decorso del tempo. Quanto poco sia piaciuto, lo dicono le urne domenica 25 maggio.
Il mese rubato con la pantomima gli serviva a combinarsi un’immunità: le Camere la votano sul tamburo, subito promulgata, sull’illusorio presupposto che sia meno peggio della guerra tra poteri, specie nel semestre europeo; e così le soperchierie diventano diritto. L’Italia non vi guadagna niente. Munitosi del salvacondotto, esporta le sue chiassose anomalie. Lo pretendeva pieno, applicabile anche alle indagini e utile ai correi, uno dei quali gli sta addosso, nient’affatto incline alla parte del capro espiatorio: l’alleato ex-nero pareva d’accordo ma sarebbe stato un mostro d’incostituzionalità; spirando moral suasion, è nato qualcosa d’appena meno abnorme. L’articolo galeotto ignora i coimputati e parla solo dei "processi", lasciando fuori gli atti anteriori: così declamano nelle rispettive aule i relatori, lo ripete un sottosegretario.
Uscito B., la musica s’indiavola. L’on. P., condannato a 11 anni nel dibattimento parallelo, aspetta l’immunità alla quale ritiene d’avere diritto, se ne gode il committente. Nell’attesa perde tempo: un nuovo articolo su misura gli garantisce 45 giorni, quanti ne occorrono all’imputato affinché mediti se gli convenga pattuire la pena; ed esauriti i cavilli, tira in ballo un fascicolo contro ignoti, aperto 8 anni fa. Cosa ci sia dentro, non è chiaro dal feuilleton avvocatesco: la prova della sua innocenza, grida; o almeno del fatto che non sia competente Milano ma Perugia. Fosse un imputato qualunque, tutto finirebbe lì. Quale stretto sodale del premier, interessato a salvarlo (simul stabunt, simul cadent), merita riguardi. L’ingegnere padano, ministro d’una giustizia burlesca, manda due ispettori a inquisire sul misterioso fascicolo 9520: vanno, guardano, tornano, non avendo scovato niente. Ne partono altri due, come nelle favole, e stavolta il referto soddisfa le attese: c’è del losco; nel Giornale 18 luglio un patrono invoca soccorso dal Quirinale paragonando l’on. avvocato d’affari, ricchissimo, protetto, influente, al povero capitano Alfred Dreyfus spedito nell’Isola del Diavolo da un complotto; "Il potere giudiziario minaccia lo Stato". Raccoglie l’appello un brancaleonesco comitato, sulla cui denuncia interviene la procura bresciana, competente ex art. 11 c.p.p. L’obiettivo tattico è rimuovere i due requirenti "accaniti": vecchio e grossolano espediente; l’onorevole li vuole sensibili all’aria, complimentosi, dormienti, quasi fossero già al servizio del governo (una delle riforme annunciate).
Qui pullula l’ennesima storia, sporca. Dal 2001 la procura milanese indaga su Mediaset: tema una frode fiscale (80 milioni d’euro) e relativo falso in bilancio nell’acquisto hollywoodiano dei diritti televisivi su dei film, attraverso società off-shore; due mesi fa v’incappa anche lui; l’ipotesi è che sapesse del trucco, anzi fosse lo stratega. Gl’indaganti chiedono una rogatoria negli Usa, 15 maggio: martedì 10 giugno il ministero comunica d’avere trasmesso la richiesta (l’art. 727, c. 2., contempla uno stop nei 30 giorni, motivato dalla "sicurezza o altri interessi essenziali dello Stato"); l’11 luglio giace ancora; come mai, domanda Milano; lo sanno al governo, risponde l’ambasciata americana. Sabato 18 arriva un plico da via Arenula: "il signor ministro" l’aveva inoltrata ma dal 23 giugno i cinque presidenti sono immuni e siccome tra gl’imputati futuribili ne figura uno, quello sulla cui misura l’articolo era tagliato, se l’è fatta restituire dall’ambasciatore; secondo un "parere pro veritate", tale norma vieta anche d’indagare; perciò S.E. restituisce le carte con l’invito a meditarvi. Il testo della legge richiede profonde riflessioni, confida al popolo leghista venerdì sera 25 presso Pontida: «Io stesso fatico a interpretarlo»; e lo sappiamo laureato, nonché esperto dei rumori. François Rabelais, monaco-medico-mago linguista, formidabile pasticheur, inventava diavolerie simili 471 anni fa nel "Gargantua". Al pragmatico padano riescono naturalissime: aveva una consegna, castigamatti della magistratura; e l’adempie coniugando nefandezze, mimiche esilaranti, indumenti verdi, facezie da teatrino dell’assurdo.
Stavolta la Cdl litiga: quando anche B. fosse intoccabile, non lo sarebbero i coimputati; e non lo è; l’immunità vale solo rispetto agli atti processuali; niente impedisce d’indagare. Cos’hanno da spartire i cinque presidenti con i manager Mediaset? Domanda plausibilissima, se ne togliamo uno, seduto a Palazzo Chigi. Dal Colle arrivano segnali inquieti. Fonti soi-disantes neutrali conducono il coro dello sdegno, notando però "l’eterna caccia" al presidente del Consiglio (lo lascino tranquillo). Quel sottosegretario ventila le dimissioni: sarebbe la prima volta che un democristiano alza le suole spontaneamente, sogghigna l’ingegnere, rimbeccato dal leader della bianca conventicola. Il beneficiario dell’imbroglio plana signorilmente sopra la mischia. I suoi avvocati rispondono a colpo sicuro: l’immunità copre tutto; "processo" significa anche indagini. Ancora l’altro ieri chi l’avesse detto nell’esame guadagnava una fulminea bocciatura. Divus Berlusco trasforma le categorie culturali. Il discorso ha una logica, gangsteristica, quindi chiara: non fingano virtù tardive; salendo sul carro, sapevano dove andasse; se lo disturbano, li scarica; è sua la fabbrica dei voti. La morale della favola sta nelle seguenti massime. Primo, chi parlamenta col caimano presto o tardi gli finisce tra le fauci. Secondo, lo specialista dei rumori non muove dito senza ordini e l’ordine presumibile ci vuol poco a concludere donde venisse. Terzo, anche i più creduli ridono dell’idea che Sua Signoria ignori gli affari Mediaset, come postula il vaniloquio sul conflitto d’interessi votato o difeso da chi oggi s’indigna. Quarto, nel regime berlusconiano il malaffare non ha l’aria del mero accidente. Quinto, lui s’arricchisce e noi affoghiamo: mentre i paesi d’Europa fanno due passi, commenta Bankitalia, l’arrancante Italia ne muove uno; viene dopo Grecia e Portogallo. L’affluent society berlusconiana esiste nel mondo d’Arcore e annessi paradisi fiscali. Ai poveri diavoli che l’hanno votato resta "Beautiful". Cos’altro vogliono?