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Ida Dominijanni
La crisi e il gioco dei post
10 Marzo 2009
Articoli del 2009
E’ finita l’era postmoderna? Rimane la nostra incapacità di analisi. Da il manifesto, 10 marzo 2009 (m.p.g.)

Periodicamente qualcuno proclama la fine dell'era postmoderna, con questa espressione approssimativa intendendo cose altrettanto approssimative quali la rivincita del materiale sul virtuale, del reale sull'immaginario, dell'etica collettiva sul desiderio individualistico eccetera. Accadde ad esempio nell'immediatezza dell'11 settembre, quando il trionfo dell'immaginario sul reale parve toccare il suo apice e cominciare perciò la sua parabola discendente: quei due aerei-cyborg che si infilavano nelle torri gemelle, improvvisa materializzazione dell'incubo hollywoodiano dell'invasione degli alieni, per un verso segnalavano la potenza dell'immaginario, per l'altro verso lo riportavano alla dura realtà della morte, del terrorismo, della guerra. Si disse allora infatti che quelle immagini ossessivamente ripetute dalle tv di tutto il pianeta, che peraltro si aggiungevano ai primi segnali di crisi dell'economia virtuale, segnavano la fine del postmoderno. E negli anni successivi, campagne morali, ideologie nazionaliste e belliciste e «guerre culturali» dell'America di Bush jr. si sono variamente scagliate contro il postmodernismo (e contro i campus universitari rei di averlo cavalcato), sinonimo di lassismo morale, individualismo, nichilismo, disinvestimento dai valori «veri» eccetera. Una campagna che, se ha avuto i suoi bastioni nei neocons, ha trovato sostenitori anche in alcuni settori «leftist» legati alla tradizione più ortodossa e da sempre diffidenti verso l'ideologia postmodernista.

Ma un conto è l'ideologia postmodernista, un conto sono le trasformazioni reali che marcano una discontinuità senza ritorno fra modernità e tarda modernità e che è pura fantasia nostalgica pensare di poter periodicamente cancellare. Per stare ancora all'esempio dell'11 settembre, il seguito della vicenda storica si è incaricato di dimostrare l'ovvio, e cioè che non era in corso un derby fra virtuale e materiale, immaginario e reale, soggetti morali e soggetti amorali eccetera, ma un conflitto globale che coinvolgeva tutti questi campi e ciascuno di essi, ridisegnando i confini mobili e sottili che nella tarda modernità li separano. Basta pensare al gioco di cruda materialità e cinica virtualità tipico delle guerre scatenate dopo l'11 settembre per capirlo.

Adesso la storia si ripete sulla scia della crisi economica e delle sue prevedibili e imprevedibili conseguenze sul piano politico, sociale, antropologico. Sul Corriere della Sera di ieri era la rubrica settimanale di Francesco Alberoni a intonare il mantra della fine del postmoderno, dandone, va detto, una versione alquanto caricaturale: postmoderna sarebbe una società in cui «spariscono non solo le ideologie ma tutte le certezze»; in cui «realtà e illusione si confondono, non conta più la realtà oggettiva ma solo l'immagine e l'apparenza»; in cui «perde importanza lo stato», i cittadini diventano consumatori, «non ci si arricchisce facendo buoni prodotti ma con astute operazioni finanziarie, tutto è provvisorio, liquido, dominano l'individualismo e l'edonismo».

Caricature a parte (Lyotard si rivolterebbe nella tomba), andiamo al sodo delle conclusioni di Alberoni, che come sempre raccolgono e riecheggiano un senso comune facile e diffuso: «Oggi ci rendiamo conto che continua ad esserci differenza fra reale e immaginario, fra realtà e apparenza. Ci sono banche e imprese che falliscono realmente, ci sono disoccupati veri, poveri veri, occorrono investimenti veri. Bisogna fare davvero delle scelte, prendere davvero delle decisioni. Il consumatore non è più il re capriccioso di ieri, deve fare i conti con precisione. E tutti torniamo a guardare allo stato, per prime le banche e le imprese».

Ora è indubitabile che la crisi economico-finanziaria stia avendo questo effetto di disvelamento della cruda realtà dei numeri e delle disuguaglianze occultata dall'ideologia delle magnifiche sorti del neoliberismo e del capitale finanziarizzato. Ma è altresì indubitabile primo, che questa cruda realtà era perfettamente leggibile anche quando era coperta da quell'ideologia a chi solo lo volesse, secondo, che raccontarsela in modo tanto semplice sul confine fra realtà e apparenza così come sul ritorno alla retta via dell'homo oeconomicus fin qui coccolato nelle nostre democrazie a destra e a manca, è - questo sì - illusorio e non ci aiuta a capire granché di quello che sta capitando. In primis, l'impasto di virtuale e reale che è proprio della finanziarizzazione del capitale e che fa saltare la linea di demarcazione fra economia reale e economia finanziaria, fra comportamenti virtuosi del risparmiatore e soddisfazione egoistica del desiderio del consumatore, fra sfruttamento del lavoro materiale e sfruttamento del lavoro immateriale, fra profitto e rendita e via dicendo. Forse, se invece di proclamare ogni settimana la fine di un'era e l'inizio di un'altra ritrovassimo il gusto di analizzare pazientemente continuità e delle discontinuità il senso della realtà ne trarrebbe giovamento.

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