A Sesto San Giovanni, a Milano Santa Giulia, il sistema Lombardia come quello di Bari o di Imperia e altri scandali ancora; l’urbanistica in giro per l’Italia è divenuta (è più giusto dire continua a essere) il luogo di scambio e di mercimonio: tangenti in cambio di metri cubi, soldi ai partiti in cambio di varianti urbanistiche con gli architetti mediatori che al telefono promettono la luna in cambio di un “progettino”.
Si dirà, come da sempre! Sì, ma con qualche elemento di novità dato dalle particolari condizioni di debolezza in cui sono ridotte le regole dell’urbanistica: oggi si può legittimare qualsiasi operazione, non c’è più l’obbligo della conformità al piano e nessuno più si straccia le vesti se bisogna giustificare qualche variante. E allora, perché le tangenti? Perché in assenza di diritti certi e di doveri altrettanto chiari l’edificabilità si concede al migliore offerente. Chi paga ottiene, e chi paga di più, ottiene di più.
Quanto emerge dalla cronaca segnala i comportamenti illegali, ma sotto a questi, nella prassi ordinaria e quotidiana, la sudditanza del soggetto pubblico agli interessi immobiliari dei privati è altrettanto evidente. Facciamo un esempio concreto. A Roma il Nuovo PRG, approvato nel Febbraio del 2008, prevedeva una certa quantità edificabile all’interno delle 18 centralità. Molti ricorderanno che le centralità furono descritte come la principale scelta strategica del nuovo piano. Nella centralità Romanina è consentita una edificabilità di 352.935 mq, il 58% è pubblica e il 42% privata. Nel settembre del 2011, l’operatore privato, proprietario anche delle aree, presenta all’amministrazione comunale una nuova proposta che prevede di edificare 600.777 mq, con un incremento del 70%. Ancora più rilevante è la variazione della ripartizione tra quota pubblica e quota privata che ora è rispettivamente del 5%, invece del 58%, e del 95%, invece del 42%. Tutto questo, a scanso di equivoci, è legale e si è svolto nell’ambito delle regole che l’amministrazione si è data. Infatti, la nuova proposta avanzata dal privato segue due “indirizzi operativi delle memorie di giunta” del 4 e del 20 ottobre del 2010 che portano la firma dell’assessore all’urbanistica della giunta Alemanno, Corsini. La questione quindi è: quali sono le ragioni che giustificano una variante così consistente a favore del privato, per altro dopo pochi mesi dall’approvazione definitiva del piano? Qual è l’utilità sociale che si ricava dall’autorizzare un nuovo intervento che prevede ora circa 10.500 abitanti in una delle zone più densamente costruite della periferie Est di Roma?
Le ragioni contenute nei due atti dell’amministrazione comunale sono di una debolezza sconfortante. Nel “considerato” della memoria di giunta del 20 ottobre si legge: “che tale istruttoria ha evidenziato una serie di criticità diffuse e comuni alle differenti situazioni, consistenti prevalentemente nella difficoltà sia di adeguamento e di realizzazione delle infrastrutture per la mobilità, sia di selezione e di allocazione delle funzioni urbane e metropolitane di pregio, sia di reale fattibilità finanziaria e gestionale dell’operazione complessiva;”. Si aggiunge, subito dopo, che un ulteriore elemento di criticità è rappresentato dalle ridotte potenzialità edificatorie, l’indice medio di edificabilità territoriale nelle centralità private è di 0,28 mq/mq, e che pertanto “appare, altresì, necessario, a questi stessi fini, verificare la possibilità di incrementare la potenzialità edificatoria delle Centralità da pianificare, con una quota di Sul premiale da attribuire ai proprietari promotori delle Centralità, quale corrispettivo per il contributo offerto ai fini del conseguimento e del buon esito degli obiettivi pubblici e di interesse pubblico prefissati, attraverso il superamento delle summenzionate criticità;”. E’ il caso di tornare sui numeri e sulle parole. I numeri, si cita l’indice medio di edificabilità delle centralità private, comprese quindi quelle con funzioni diverse, ad esempio le superfici commerciali, al solo scopo evidente di fare riferimento a un valore medio basso, ma si omette di dire che la centralità per cui si sta decidendo la variante ha un indice edificabile di 0,38 mq/mq, superiore a quello medio. E poi le parole, una “Sul (superficie utile lorda) premiale.. quale corrispettivo per il contributo offerto .. al conseguimento degli obiettivi pubblici..”. Quali obiettivi? E come misurare il loro conseguimento? Si manipolano i numeri e si ricorre alla più banale retorica pubblica per conseguire, in definitiva, solo l’interesse del soggetto privato! Come detto non c’è nulla di illegale ma atti di questa natura sono anche più gravi e fanno luce sul problema reale che le città, e quindi anche Roma, vivono: la politica ha abdicato alle sue responsabilità verso la collettività a favore dei soli interessi privati e i documenti tecnici “apparecchiano” numeri e retoriche allo scopo.
La questione ovviamente non è mettere all’indice il ruolo del privato ma ristabilire una verità che dovrebbe essere ormai acquisita: l’intervento privato è tanto più importante e contribuisce all’ordinato sviluppo della città, quanto più esso si svolge all’interno di precise regole del gioco. Regole che hanno lo scopo di innalzare la qualità dell’intervento privato, di produrre ricchezza e, nello stesso tempo, contribuire alla costruzione di beni pubblici e conservare le risorse non riproducibili.
La questione quindi è come costruire un quadro di regole certe nel rapporto tra prerogative del soggetto pubblico e interessi dell’operatore privato. Pubblico e privato nella storia urbanistica italiana, soprattutto in quella del dopoguerra, si sono dati battaglia, e alcune sono state anche di particolare rilievo. Molti ricorderanno il tentativo di riforma della legge sui suoli proposta dall’allora ministro democristiano Sullo, una vicenda che non fu estranea, com’è stato accertato poi dagli storici, al tentativo di golpe del generale De Lorenzo, il famigerato Piano Solo. La riforma Sullo proponeva, copiando quanto già avveniva in altri paesi europei, il diritto di superficie: il comune espropria le aree da edificare, le urbanizza e successivamente le cede al privato in diritto di superficie, eliminando così la rendita fondiaria. Un’altra battaglia fu la legge Bucalossi, la legge 10 del 1977, che istituì la concessione edilizia e sancì il principio che l’atto di edificare era una potestà che spettava al soggetto pubblico il quale, attraverso le previsioni di piano, lo “concede” al privato. L’ente pubblico decide dove e quanto edificare e tramite la concessione edilizia concede al privato il compito di realizzare l’intervento e di conseguire il profitto che spetta all’imprenditore. Con la deregulation urbanistica, cominciata già nei primi anni ’80, il tentativo di affermare il primato del pubblico nella costruzione della città viene progressivamente meno e si afferma, sempre di più, il primato del privato, tanto che ancora oggi l’Italia non ha una norma sul regime dei suoli. Citare questi fatti sa di antico, di obsoleto, ma quelle sconfitte oggi pesano e la città nella quale viviamo è anche conseguenza di quelle vicende. Oggi la situazione è del tutto diversa, intanto perché la questione dei suoli connessa alla sola espansione della città è, almeno dal punto di vista quantitativo, meno rilevante. La città oggi è tutta costruita e le principali trasformazioni riguardano il territorio urbanizzato negli ultimi sessant’anni. La questione più rilevante è l’intervento nella città esistente. A questa condizione si lega poi il bisogno di ridurre il consumo di suolo salvando i brandelli di territorio ancora agricolo e non urbanizzato.
Affrontare una riforma seria e profonda del rapporto tra pubblico e privato nella costruzione della città che assicuri l’affermazione di principi comuni e consegua una migliore abitabilità della città, richiede diversi livelli di intervento. Non serve qui dilungarsi troppo sui diversi livelli (urbanistico, fiscale, giuridico,…) ci soffermiamo, invece, su quello che si potrebbe fare subito, a regime normativo invariato. Come insegna l’esempio di Roma la questione centrale è rafforzare la valutazione tecnica delle richieste di variante e rendere il processo decisionale tutto trasparente. Rafforzare l’istruttoria tecnica separandola dalle considerazioni politiche vuol dire fare la valutazione dei vantaggi concessi al privato e contemporaneamente avere la valutazione di merito dei vantaggi che il pubblico deve conseguire. Perché una tale valutazione possa essere fatta è necessario avere politiche pubbliche espresse con obiettivi chiari e soprattutto misurabili (quanti alloggi sociali si intende realizzare nell’arco di tempo considerato, quanti in quel settore urbano, quali infrastrutture per la mobilità sono necessari, quali servizi pubblici, ecc…). L’amministrazione comunale potrà definire così i modi e soprattutto i tempi della procedura di negoziazione che deve essere condotta coinvolgendo associazioni, comitati di quartiere rappresentanze locali al fine di svolgere una vera propria contrattazione territoriale. Spetta all’amministrazione pubblica decidere quando dichiarare concluso il processo negoziale; il fattore tempo può essere un aspetto decisivo tale da portare il privato ad accettare condizioni più gravose purché la decisione sia presa in tempi brevi. Una procedura trasparente, senza retorica e ipocrisie, che guarda il merito, che coinvolge le parti interessate e che si attiva solo quando è necessario modificare ciò che prevede il piano. Infatti, se non si dovesse raggiungere l’accordo il privato potrà sempre realizzare quanto previsto dal Piano regolatore generale.
Quello che si propone è che ogni variazione di piano sia riportata entro un quadro decisionale che guardi al complesso delle scelte che la città si trova a fare e che valuti le compatibilità complessive della variazione proposta, che ristabilisca quindi il quadro di coerenze che attribuiamo a una decisione quando questa è inserita dentro il Piano regolatore generale. Ogni variazione puntuale, se necessaria, deve seguire quindi una procedura di valutazione tecnica indipendente e un processo negoziale a guida pubblica che coinvolga tutti i soggetti interessati. Procedure negoziali di questa natura sono in vigore in città come Londra (si veda la procedura 106 della legge urbanistica) o in Germania; Roma non è necessariamente figlia di un Dio minore. Per farlo servirebbe però il primato della politica sui meri interessi particolaristici dell’economia immobiliare romana. Serve coraggio politico! Se si volesse intraprendere questa strada si troverebbero di certo altri alleati, come le tante piccole e medie imprese edili, schiacciate anche loro dai soliti noti, e poi si ritroverebbero soprattutto gli abitanti. Dovrebbe essere questo un criterio per decidere chi votare alle prossime elezioni comunali: chi ha questo coraggio?