Qui, tutti i concorrenti alle prossime elezioni mentono. Ci rintronano con le stesse parole, prima fra tutte “innovazione”, nauseante da tanto che ce la ripetono in salse diverse invece uguali; poi “attrattività”. Politici di destra e di…, ce ne sono altri? Insomma, Milano già adesso attraente - vedremo chi e cosa - deve aumentarla immantinente, appunto, la famosa propensione a tener le porte aperte. Infatti, è riuscita a cacciar fuori di esse oltre mezzo milione di milanesi, in parte sostituiti, solo per numero e non per funzione, da immigrati per lo più non comunitari.
Quale innovazione? Se la volessero davvero e conoscessero la vicenda storica milanese dovrebbero perorare una curva a U: tornare indietro e ritrovare la condizione della Milano primatista assoluta per la produzione in un gran numero di settori, per il rapporto fra le classi sociali dialetticamente egemoni (numerosa classe operaia «per sé» e forte borghesia produttiva, dominante ma con giudizio, se così possiamo dire), per la cultura della sinistra antidogmatica: come fossero pungolati dal ricordo di un Karl Marx che studiava i primitivi, da cui il principio che il più alto livello di società moderna consisterebbe nella riproduzione in forma superiore di un tipo arcaico di società[i]. Dunque ritorno alla proprietà comunitaria collettiva e ai conseguenti rapporti sociali. Una forma di arcaismo sociale del resto la offrono «luoghi di vita prodotti da una storia più antica e più lenta ove gli itinerari singoli si incrociano e si mescolano»[ii]: come avviene ancora nelle piccole città dove resiste la piazza medievale e il gruppo sociale vi si riconosce e vi pratica relazioni di ogni genere[iii].
Ricostruire ovunque quei rapporti e istituire urbanistiche per spazi coerenti sarebbe utopia rivoluzionaria (ossimoro dovuto)? Se bandissimo persino il solitario piacere di poter pensare sia l’utopia che la rivoluzione introdurremmo anche nel profondo del nostro cervello il germe dell’incurante consentimento verso i contraffatti poteri già penetrato nel cuore. Gli innovatori della domenica, quando un sopravvissuto di quella sinistra riuscisse a raschiare pazientemente il palinsesto della città e mostrasse al mondo la verità della passata superiorità milanese a fronte della loro menzogna, lo farebbero arrestare dai vigili urbani (detti, ora, polizia locale, chiara allusione a più ampi poteri) e carcerare per turbativa del nuovo ordinamento d’obbedienze milanese[iv].
L’attrazione effettiva della città non rientra nel significato che i nostri sembrano attribuire a una parola che non esiste nella lingua; intendono una certa dote speciale, probabilmente riferibile a risorse e a richieste cosiddette immateriali, prodromi di una nuova generazione di affari: tanto per gabellarsi da capintesta preparati, moderni business-leader. Intanto permane l’obbligo a sopportare un faticoso pendolarismo sia per i lavoratori del terziario espulsi nell’hinterland dall’impossibilità di trovar casa a costo ragionevole sia per i loro colleghi già insediati nello sprawl. Niente è cambiato con l’istituzione formale della città metropolitana. D’altronde il richiamo di Milano ha trasfigurato la sua natura: mentre attraverso le famose porte aperte si disperdeva una impareggiabile carica produttiva sociale culturale, vi avanzava inesorabile come jüngeriana tempesta d’acciaio la totale finanziarizzazione dell’economia e della società. Principale preziosa derrata, al posto della produzione di beni e servizi utili, il denaro, unica chiesa la borsa, unico rapporto quello commerciale: comprare e vendere, il denaro poi le merci tipiche del consumismo il più esagerato, in qualsiasi parte del mondo prodotte e confezionate meno che a Milano.
Così entra tranquillamente nella nostra città anche una enorme massa di capitali di mafia, ‘ndrangheta e affini. Denaro che va a ripulirsi mediante investimenti, ritenuti legittimi, nella speculazione finanziaria e soprattutto in attività commerciali aperte appartenenti al circuito di vendita/acquisti più ricco o più frequentato. La magistratura ha segnalato che la mano mafiosa detiene circa il 25% del valore commerciale milanese e che «sul mercato» operano intoccabili gruppi di comando potenti quanto e più della vecchia nomenklatura siciliana o calabrese (o napoletana, pugliese o perché no lombarda). La vox populi dice che quando mangiamo in pizzeria la probabilità di farlo in un locale acquistato o finanziato dalla mafia è almeno del 50%. Questo, tuttavia, è un dettaglio insignificante nel quadro formato da negozi, magazzini, in ogni caso locali per acquisti di merci o per consumi in sito.
Consigliamo di compiere con gli occhi ben aperti rivolti man mano lentamente verso destra e verso sinistra, rischiando il torcicollo, il percorso da Piazzale Loreto a Largo Cairoli, l’asse commerciale più importante e sfavillante della città: Corso Buenos Aires, Corso Venezia, Piazza San Babila, Corso Vittorio Emanuele II, Duomo, Via Mercanti, Piazza Cordusio, Via Dante: circa 4.200 metri. Ebbene, sarete tramortiti dalla visione di non sappiamo quante centinaia se non migliaia di vetrine (anche dehors) dedicate quasi esclusivamente all’abbigliamento e, secondariamente, ai bar-fittizi-ristoranti; ma prima di cadere per terra avrete giudicato impossibile che tutta questa esibizione corrisponda a una realtà di commerci e consumi umanamente usuali, onesti. Meritati diversi giorni di riposo, provate a ripetere l’esperienza limitandola ai 450 metri di Corso Vittorio Emanuele, se riuscirete a muovervi dentro il travolgente flusso di gente.
Ci dicono che è aumentato in modo esponenziale il turismo. È vero, la folla strascicata dei rutilanti percorsi commerciali comprende stranieri singoli o in gruppo, in maggioranza giapponesi, cinesi, sud-coreani, poi sudamericani, pochi europei… Comprano, spendono. È questo il turismo che vogliamo? Altro che turismo culturale, altro che turismo sociale. Nei luoghi monumentali, visitatori che dovrebbero far gara per goderseli all’esterno e all’interno non se ne vedono. Eccezioni: eccoli nella piazza davanti al Cenacolo, ma nessuno entra in Santa Maria delle Grazie; eppure lì la Tribuna del Bramante ti prende e ti trattiene a percepire quanto l’opera d’immensa arte contribuisca al tuo star bene nell’animo e nel cervello. Ah! il Duomo! Ci vanno in massa, incanalati fra indecorose transenne, pagano l’ingresso e nell’interno altre transenne li suddividono secondo diverse zone, per sorvegliarli e talvolta per concedere un misero diritto alle funzioni. Il milanese che voglia ripassare la propria conoscenza del grandioso spazio nell’insieme e nei particolari è svantaggiato per sempre.
La chiesa di Santa Maria Nascente appartiene in pieno, smaccatamente e volgarmente, al circuito commerciale, alla più vera Milano d’oggi. Sul fianco sinistro la curia ha fatto costruire un sensazionale volume in legno e vetro, sollevato dal suolo e dotato di scalinata. Magliette e gli altri capi d’abbigliamento più appetiti sono appesi ben in vista dietro le vetrate. Una grande scritta sottolinea la destinazione del manufatto, semmai qualcuno dubitasse: DUOMO SHOP. Non basta: raccontano che la forma sarebbe quella delle imbarcazioni che per secoli hanno trasportato i blocchi di marmo dalla Cava di Candoglia per la costruzione della Cattedrale. Su internet si può leggere addirittura: «un punto vendita carico di storia, all’ombra della Madonnina».
Allora, si accomodi Santa Maria Nascente, lasci spazio alla divinità pagana Mercurio, lei autentica protettrice del commercio e delle attività mercantili.
Carla Ravaioli, l’indimenticabile saggista critica del whirl capitalism strangolatore del mondo, non perdonava ai politici e agli amministratori locali l’incapacità o la contrarietà a liberare il turismo dalla soggezione, anch’esso come ogni altra attività individuale e sociale, al processo di assimilazione alla merce, «che sempre più definisce sotto ogni aspetto l’attuale forma del sistema capitalistico, cioè il neoliberismo; il quale solo all’aumento del prodotto finalizza il proprio agire, del tutto trascurandone i contenuti, la qualità, le conseguenze». E osò affermare che anche il turismo inquina (riferendosi, come esempio, allo stravolgimento delle coste italiane causato da un’enorme quantità di costruzioni private)[v].
Concludiamo ritornando ai personaggi in mostra per le elezioni. La loro storia professionale-politica e le prospettive di governo annunciate si conformano senza forzature alla condizione di una città tutta volta alla finanza, al commercio, all’edilizia, questa pur essa commercializzazione, compravendita o affitto in un sistema tutto privato, grazie all’indifferenza degli enti pubblici verso la costruzione di case sovvenzionata. Identici davvero i nostri, edilizia (speculativa) e connessa urbanistica (nemmeno riformista) attrazioni fatali. Sala avocherà a sé l’urbanistica, fra gli scopi un nuovo piano di governo del territorio; Parisi ripartirà dal piano e dalle pratiche dell’amministrazione Moratti-Masseroli (l’assessore che rinunciò nel 2013); intanto Albertini, capolista per Parisi, rivendica un «enorme processo di riqualificazione» della città al tempo di lui sindaco, quando parlava dei «suoi» architetti i migliori del mondo, «i Brunelleschi e i Bernini dei nostri giorni» (Hadid, Isozaki, Lebeskind…) o denominava «nostro Central Park» il verde sparpagliato fra i grattacieli sull’area dell’ex Fiera (futura City Life)[vi]. Poi, a rafforzare la figura di una Milano priva di industria manifatturiera e già diventata, al posto di una Roma del passato prossimo, «città della cazzuola», contribuisce il presidente della Triennale De Albertis, numero uno dell’Assimpredil e presidente dell’Associazione nazionale costruttori edili (Ance). Tutto si tiene in una evidente collocazione o spostamento a destra dei (mediocri) maggiorenti.
Terminiamo con la recitazione dei due candidati principali nel ridicolo teatrino di provincia, altro che metropoli. Parisi: Sala è più a destra di me. Giornalista: entrambi sono manager, entrambi sono stati direttori del Comune con amministrazioni di centrodestra, Parisi con Albertini, Sala con la Moratti. Sala: io sono uno che lavora, ha sempre lavorato mentre lui occupava i palazzi romani. Lui è più burocrate, io sono più operativo[vii]. Se questi sono i protagonisti…
[i] Cfr. L. Krader, Quando Marx studiava i primitivi, in «Rinascita», n. 10, 1978, p. 21.
[ii] M. Augé, Nonluoghi. Introduzione a una antropologia della surmodernità (orig. Non-lieux, Seuil, Paris 1992), Elèuthera, Milano 1993, p. 63.
[iii] Cfr. L. Meneghetti, Alla ricerca dello spazio perduto (Discorsi di piazza), in eddyburg, 25 novembre 2006, in «il Grandevetro», novembre-dicembre 2006, poi in Libere osservazioni non solo di urbanistica e architettura, Maggioli, politecnica, 2008, p. 15.
[iv] Sulla trasformazione sociale di Milano vedi anche L. Meneghetti, Com’era Milano e com’è al tempo dell’Esposizione, in eddyburg, 11 aprile 2015.
[v] C. Ravaioli, Il turismo inquinante, in eddyburg, 11 aprile 2005. Cfr. anche L.Meneghetti, Coraggiosa Carla Ravaioli. Turismo inquinante, in eddyburg, 22 aprile 2005, poi in L’opinione contraria, Libreria Clup, Milano 2006, p. 11.
[vi] Dal «Corriere della Sera - Milano», 20 aprile 2006, p. 3.
[vii] Da A. Gallone e O. Liso in «Repubblica - Milano», 3 marzo 2016.