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La città un po’ meno temporanea
30 Gennaio 2012
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Scompaiono le sale d’attesa ferroviarie, e trionfa un modello aeroportuale-centro commerciale. Alessandra Mangiarotti e Gae Aulenti intervistata da Stefano Bucci. Corriere della Sera, 30 gennaio 2012 (f.b.)

La scomparsa delle sale d'attesa: le stazioni come aeroporti

di Alessandra Mangiarotti

Il caso Venezia è solo l'ultimo in ordine di tempo: la stazione di Santa Lucia è sotto restauro e quando si presenterà con un nuovo volto agli 80 mila passeggeri che ogni giorno lì salgono o scendono da un treno lo farà senza sala d'aspetto. Così è successo a Roma e Milano, dove al posto di un'unica sala sono stati piazzati sedili in tutta la stazione. Così sarà nel giro di uno-due anni a Verona, Firenze, Bologna, Genova. E poi in tutte le tredici «grandi» italiane. Perché la strada è segnata: addio sale d'attesa (in principio ce n'erano addirittura tre: di prima, seconda e terza classe), le stazioni ferroviarie assomiglieranno sempre più agli aeroporti. Con punti ristoro, negozi e poltroncine sparse nelle aree strategiche. Davanti ai tabelloni con gli orari o ai bar dove mentre si beve un caffè ci si potrà connettere alla rete wi-fi o ricaricare il telefonino. Le uniche a resistere saranno, come appunto negli aeroporti, le salette vip delle singole «compagnie», da Trenitalia a Ntv, fino a Deutsche Bahn.

A Venezia le proteste aumentano in modo inversamente proporzionale alle temperature: più fa freddo più salgono i toni della polemica. Perché lì la sala d'aspetto è già stata chiusa per lasciar spazio ai cantieri e i sedili sono stati distribuiti in aree di passaggio non riscaldate. Così che qualcuno, pensando anche al futuro, dalle parole è già passato ai fatti presentando un esposto alla Regione. Mentre i pendolari denunciano ancora una volta la diversità di trattamento tra passeggeri di serie A («i soliti dell'alta velocità) e B («noi comuni viaggiatori»).

In Italia ci sono 5.000 stazioni. Fabio Battaggia è l'ad di Grandi Stazioni — società controllata al 60% da Ferrovie e al 40% da Benetton, Caltagirone, Pirelli e dalla francese Société Nationale des Chemins de Fer — che gestisce le tredici «grandi» e sta portando avanti un progetto di recupero per 400 milioni di euro. «A Venezia — spiega — ci sono disagi perché il 70% della superficie è cantiere. Al termine dei lavori sarà come a Milano dove i posti a sedere (in due isole, davanti ai pannelli con gli orari e sparsi) sono quasi triplicati (da 150 a 400): non un'unica sala d'attesa (troppo a rischio degrado), ma più sedute distribuite nelle aree coperte e in piccole isole con bar e negozi, come alla Union Station di Washington o alla Grand Central di New York. Servizi moderni in stazioni storiche». Nel dettaglio: «Debutteranno poltroncine ergonomiche. E come negli aeroporti si creeranno isole vicino ai servizi dove sarà garantito un collegamento wi-fi».

Per i passeggeri a ridotta mobilità c'è sempre la Sala Blu: «È prevista dalla legge. E ogni operatore avrà la sua Sala club, come negli aeroporti».

Un sistema che non piace a Sonia Zarino, portavoce dei pendolari liguri: «Le ferrovie devono essere di tutti, non possono esserci passeggeri di serie A e B. Impariamo dalla Svizzera». E da architetto aggiunge: «Trasformati in centri commerciali (dove con la crisi si fatica ad affittare spazi) le stazioni stanno diventando un non luogo, non più il biglietto da visita». Concorda Cesare Carbonari, voce dei pendolari piemontesi, che prendendo a modello stazioni Usa e aeroporti va oltre: «L'ingresso va riservato solo ai passeggeri».

La direzione è segnata: «Con la riduzione dei contributi pubblici (tutti usati a far marciare i treni) si cerca di far fruttare ogni metro quadro delle stazioni, veri monumenti il cui restauro è costosissimo», afferma Oliviero Baccelli, vicedirettore del Centro di economia regionale trasporti e del turismo dell'Università Bocconi. «La promozione del modello (globale) c'è ma con due materie da recuperare: la limitazione della pubblicità e la creazione di isole di servizi. Se si vogliono usare la Grand Central o e i grandi aeroporti come modello lo si faccia fino in fondo. Il vero problema è però il destino delle piccole stazioni».

«Gli incontri possibili sostituiti dallo shopping»

Intervista a Gae Aulenti, di Stefano Bucci

Di stazioni trasformate Gae Aulenti, uno dei grandi nomi dell'architettura e del design made in Italy (la progettista della lampada Pipistrello ha appena compiuto 84 anni lo scorso 4 dicembre), se ne intende. E non solo perché tra i suoi progetti realizzati ci sono l'ingresso (lato Fortezza da Basso) alla Stazione di Santa Maria Novella di Firenze (1990) e quello della facciata del palazzo delle Ferrovie Nord di Milano (1998-2000). Ma ancora di più perché è lei ad aver firmato (tra il 1980 e il 1986) la mutazione della parigina Gare d'Orsay, ex stazione ferroviaria della linea Parigi-Orleans costruita per l'Esposizione universale del 1900, in qualcosa di inaspettato: il museo per eccellenza degli Impressionisti, due milioni e mezzo di visitatori all'anno, il Musee d'Orsay appunto.

Forse anche per questo l'idea delle grandi stazioni che cambiano faccia non è per la Aulenti così scandalosa:

«Far sparire le sale d'attesa — dice — rientra in una filosofia che oggi vuole fare assomigliare sempre più questi spazi a veri e propri centri commerciali, dove più che partire si deve prima di tutto comprare, luoghi di passaggio come il "corso" di un vecchio paese, pieno di negozi di ogni tipo, in cui però ci scontra solo con i carrelli, senza mai incontrarsi davvero».

Ma questa mutazione non servirebbe ad annullare il degrado?

«Più che altro così le stazioni finiscono per perdere uno dei loro compiti originari, quello dell'accoglienza e dell'incontro. Perché nelle vecchie sale d'attesa qualche brandello di conversazione si riusciva comunque ad intrecciarlo, magari anche solo per chiedere a che ora partiva un certo treno».

Eppure stazioni come quella romana di Termini sono rinate dopo questi ammodernamenti:

«Ma non sono più vere stazioni: la libreria nell'atrio di Termini è bellissima, ma utilizza l'atrio puntando su una struttura commerciale e non di accoglienza». Anche se, aggiunge l'architetto, «quella libreria è almeno più facilmente individuabile della nuova Feltrinelli alla Centrale di Milano».

La Aulenti propone un ulteriore motivo (o modello) per questa mutazione:

«Le stazioni stanno sempre più assomigliando agli aeroporti, i primi luoghi di viaggio ad essere diventati centri commerciali». Il tema delle stazioni è dunque affascinante ma difficile: «Belle stazioni? Subito mi vengono in mente la Centrale a Milano, Porta Nuova a Torino e tra le più recenti quella di Zurigo. Ma la più bella di tutte resta ancora quella di Firenze e mi appare difficile immaginare un progetto di ammodernamento che possa migliorarla, a cominciare da quella galleria che serviva di passaggio e di ingresso alla città, costruita appunto per evitare ogni possibile degrado».

Da sempre la stazione di Firenze (inaugurata nel 1935, progettata dal Gruppo Toscano guidato da Giovanni Michelucci) è considerata una sorta di museo a cielo aperto (il recupero dovrebbe concludersi a primavera, 19 milioni di euro il costo annunciato). Vicino forse alla mutazione imposta dalla Aulenti alla Gare d'Orsay ma lontano dal comune sentire dei viaggiatori di oggi:

«Chi passa ora dalla stazione? — si chiede l'architetto —. Sono i pendolari e chi deve rapidamente cambiare treno o destinazione. Nessuno di loro ha voglia di perdere tanto tempo. L'unica cosa che può succedere è comprare. E allora a cosa serve la sala d'attesa?».

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