Un ampio saggio sulla città, in occasione del congresso della Società dei territorialisti "Ricostruire la città" (Roma, 17-18 gennaio 2014), preludio a una serie di articoli sulle città italiane. Il manifesto, 17 gennaio 2014
Anche allorquando gli studiosi prendono in considerazione una delle risorse naturali più ovvie, condizione imprescindibile per la nascita e la vita di un aggregato di popolazione, l'acqua di un fiume, ne sottolineano il rilievo quale infrastruttura ideale per i flussi di mercato. E' il caso, ad esempio, di un studioso come Lewis Mumford, pur attento agli aspetti sistemici del mondo urbano . Nella sua monumentale La città nella storia – meritoriamente riproposta ora da Castelvecchi - egli considera il fiume esclusivamente come « il primo veicolo efficace per il trasporto di massa ». E aggiunge: « Non è un caso che le prime città siano sorte nelle valli fluviali, e che la loro ascesa sia contemporanea ai progressi della navigazione, dal fascio galleggiante di giunchi o di tronchi alla barca mossa dai remi e dalle vele » Mumford non è solo in questo richiamo del fiume che dimentica la risorsa acqua:« Londra dipende dal suo fiume », afferma perentoriamente Braudel, ma si riferisce ai traffici che esso rende possibili, all'intensa vita economica che si svolge lungo il Tamigi e soprattutto nell'area della sua foce.
Naturalmente, non si tratta di negare il ruolo di mezzo di trasporto dei corsi d'acqua, peraltro dotati di una loro energia motrice e dunque, per più versi, prezioso per i bisogni delle popolazioni urbane in età preindustriale. Ma il trasporto e il commercio rappresentano già una forma economicamente evoluta della stanzialità urbana, funzionalmente separata dalla vita agricola. E tuttavia a lungo insufficiente a rendere le città autonome dalle loro fonti di approvvigionamento, costituite dai territori agricoli dei loro dintorni.
D'altra parte, prima di commerciare e di spostarsi, i primi cittadini ( ma anche i secondi e i terzi) dovevano vivere e dunque avevano assoluto bisogno di bere. Eppure non c'è traccia, anche in grandi storici che si sono occupati di città, di accenno a tale elementare bisogno della vita, risorsa imprescindibile dell' umana esistenza. Quasi che il commerciare fosse la prima condizione della vita urbana e non un suo complemento, spesso uno stadio successivo di evoluzione. La vita, nella ovvietà dei suoi bisogni e delle sue manifestazioni, diventa degna di nota quando acquista un rilievo economico. Anche Fernand Braudel, nel vasto affresco del suo Mediterraneo, che ha insegnato a tutti noi come la storia si svolga negli spazi fisici delle montagne e delle pianure, non ha occhi che per le condizioni commerciali dell'esistenza urbana. « Non c'è città senza mercato e senza strade: esse si nutrono di movimento. »
Forse Braudel è l'autore più esemplare di questa sussunzione dei bisogni primari e dunque della natura entro le categorie dell'agire economico. Perché è lo storico più attento ai quadri territoriali in cui si svolge la storia umana, ma conserva sempre uno sguardo filtrato, che incorpora la natura e la rende visibile solo come fenomeno economico. Il bere e il mangiare, elementi fondativi della vita biologica, resi possibili dalla presenza dell'acqua e del cibo, cioé da fonti, sorgenti, fiumi, pozzi e da superfici più o meno vaste di terra fertile, sono nella sua ricostruzione e rappresentazione storica inglobati in rapporti spaziali di commercio o semplicemente sussunti dentro i meccanismi dell'attività produttiva. E' sempre l'attività economica dei cittadini o dei contadini a rendere possibile la vita della città. Ma non accade mai che le risorse naturali presenti nel territorio costituiscano la condizione perchè quella stessa attività possa svolgersi con successo.
Non sottolineo tali aspetti per la pretesa saccente di rimproverare a Braudel di non essere stato uno storico dell'ambiente. Ogni epoca ripesca dal proprio passato il presente di cui avverte più acutamente il bisogno. Tanto più che Braudel anticipa talora, a modo suo, cioé entro il bozzolo delle dinamiche economiche, “scoperte” che si renderanno evidenti alla ricerca storica solo qualche decennio più tardi. E' questo il caso, ad esempio, dell'approvvigionamento delle fonti di energia calorica. Scrive lo storico francese: « la legna da bruciare, materiale ingombrante, deve essere a portata di mano: oltre i trenta chilometri di distanza è rovinoso farla viaggiare, a meno che il trasporto non avvenga per via d'acqua».
Da quando si è cominciato a fare storia dell'energia, abbiamo appreso che le città preindustriali in genere non potevano letteralmente vivere se non avevano a disposizione, a distanza ravvicinata, le risorse legnose di un bosco. « Una città di 10.00 abitanti – ricorda Paolo Malanima – doveva disporre per i soli usi domestici di una riserva forestale di 50-80 chilometri quadrati.»
Riscoprire il sistema
Anche da questi brevi cenni appare evidente come lo sviluppo delle relazioni commerciali che, nel corso di diversi secoli, hanno finito col rendere le città relativamente indipendenti dalle risorse collocate nel loro territorio, hanno occultato i vincoli sistemici su cui esse sono sorte e a lungo vissute. Esattamente l'estensione delle reti del mercato - l'elemento di connotazione urbana più enfatizzato dagli studiosi - hanno cancellato le reti che le legavano alle risorse naturali. Ma in realtà esse hanno solo trasferito e diluito gli ecosistemi che ne rendevano possibile l'esistenza su un territorio sempre più vasto. La Londra dell'età moderna, che da tempo si riforniva di grano, cibo e legname prodotti anche fuori dai suoi confini e dalla stessa 'Europa, aveva in realtà moltiplicato intorno a sé i territori da cui trarre le risorse naturali consumate dai suoi cittadini. Nell''800 il suo ecosistema aveva assunto dimensioni mondiali, dal momento che, ad esempio, le élite londinesi consumavano correntemente te, cacao, zuccherro di canna e caffé provenienti dalle colonie. Esso ormai costituiva il centro di una immensa periferia che era il suo impero coloniale, si reggeva e si occultava grazie alle reti di dominio e di sfruttamento dei territori delle colonie.
Ma oggi, nella fase storica in cui il mercato mondiale penetra negli anfratti più reconditi della vita locale, è ancora visibile un ecosistema come intelaiatura fondamentale della vita urbana? Mentre le città ricevono tutto ciò che è loro necessario da territori lontani e anche lontanissimi, possiamo guardare ad esse come a nuclei di realtà materiale condizionati, se non dominati, da vincoli naturali costanti e necessari? Si tratta, in verità, di domande retoriche. L'ecologia urbana della seconda metà del '900 ha messo da tempo in evidenza i caratteri ecosistemici dell'ambiente urbano con approcci e contributi molteplici. In realtà oggi si presenta ai nostri occhi una rete ambientale che avvolge il mondo (non diversa da quella, in continua espansione, delle comunicazioni) ma tenuta insieme da regole e vincoli ecosistemici. La osserviamo distintamente man mano che ci liberiamo della scorza dell'economicismo di cui è incrostato il pensiero sociale contemporaneo. Allorché scorgiamo l'universalità di beni comuni di cui si compone la città, là dove prima l'osservatore non scorgeva che un paesaggio di res nullius, o solo un sistema di domini privati. E a tal fine appare indispensabile liberare la figura dell'uomo cittadino dalla sua sovrastruttura ideologica di essere sociale, mero prodotto della storia, fabbro di se stesso tramite il dominio tecnico sulla natura.
E' tale operazione di disvelamento che ci consente di guardare agli uomini quali soggetti viventi, membri della “comunità biotica” che popola la foresta urbana. La città è un ecosistema innanzitutto perché gli uomini non hanno mai cessato di essere natura.
E' infatti il paradosso del successo totalitario dell'uomo tecnico a disvelare i legami non resecabili con la realtà biologica. Pensiamo al rapporto tra città e dinamiche del clima. Sono ormai parecchi anni che gli episodi climatici estremi ( alluvioni, tornado, ecc) in varie città del mondo, dagli USA all'Europa, mostrano come le città non sfuggano al sistema climatico generale e al suo crescente disordine. E' ormai di dominio popolare che la crescente copertura del suolo con le strutture dell'edificato impedisce in maniera crescente l'assorbimento dell'acqua piovana. In caso di pioggia intensa – fenomeno che appare ormai sempre più regolare a tutte le latitudini- le strade diventano fiumi, rovinosi corsi d'acqua e gli abitati vengono allagati come comuni golene di espansione.
D'altra parte, tali fenomeni svelano un legame prima invisibile tra gli uomini e l'habitat urbano. Ma al tempo stesso fanno emergere alla consapevolezza generale l'esistenza di alcuni beni comuni per effetto della loro violazione, della loro messa in pericolo. E' evidente che l'edificazione diffusa, l'occupazione degli spazi incolti e coltivati, la restrizione dei territori agricoli periurbani, hanno riflessi crescenti su un diritto fondamentale dei cittadini: quello della sicurezza, dell'incolumità della persona. Sicché una occupazione del bene comune suolo per mano dei singoli privati, che edificano per loro specifico interesse, si configura sempre più nitidamente come in conflitto con il bene comune della sicurezza di tutti. In caso di piogge intense le città diventano pericolose per tutti i suoi abitanti. Il danno particolare che l'uso privato del suolo genera nei confronti dell'universalità dei cittadini disvela così uno specifico carattere ecosistemico dell'azione umana in città. Non si possono mutare gli equilibri naturali di un habitat pur artificiale senza effetti e rotture in qualche punto del sistema. E soprattutto senza conseguenze sul Dedalo ingegnoso che quel sistema ha costruito. Non si può pensare al territorio come a un mero supporto neutro sopra il quale “poggiare” qualunque edificio: esso non è nudo suolo, appartenente a vari proprietari che pretendono di ricavarvi una rendita, ma è il frammento di una rete ecosistemica entro la quale siamo tutti impigliati.
Il rapporto sistemico della città con il suo territorio più o meno prossimo emerge oggi anche dalla rottura di un equilibrio millenario con la campagna, cui abbiamo già fatto cenno. Il mutamento drammatico, in qualità e quantità, della massa dei rifiuti urbani ha creato fenomeni ignoti a tutte le società del passato. Se un tempo la gran parte delle deiezioni cittadine veniva utilmente consumata dalle agricolture circostanti in forma di fertilizzanti, esse formano oggi un'appendice urbana che occupa e inquina territori più o meno prossimi, con danni alle acque, all'aria, alla salute degli animali e dei cittadini nelle varie casistiche osservabili in giro per il mondo.
Il cielo è di tutti
Non meno noto è diventato il legame sistemico tra il cielo della città, vale a dire la qualità dell'aria che in essa si respira, e la sua manipolazione, insieme privata e collettiva, a scopi produttivi e di varia altra natura. Il sorgere di un rischio per la salute umana, esploso in maniera allarmante negli ultimi decenni, ha fatto emergere quale bene comune una risorsa vitale irrinunciabile, fino a pochi decenni fa da tutti ignorata in quanto illimitata e relativamente integra. L'aria è un common. Noi tutti respiriamo l'aria che ci circonda senza pensare ai nostri polmoni, ma anche senza badare al fatto che essa è natura, che da essa dipende la nostra vita, e certamente senza chiederci a chi appartiene. Ma l'apparire della scarsità di questa risorsa, la sua violazione e alterazione ( che corrisponde a una appropriazione privata dei singoli) fa emergere l'elemento naturale che rende possibile l'esistenza di tutti e al tempo il suo carattere di bene collettivo e indivisibile.
In questo specifico caso appare assai difficile separare l'interesse privato di chi immette smog nello spazio urbano, usando un proprio mezzo di trasporto, da chi respira l'aria inquinata mentre cammina per la città. In un gran numero di casi quel pedone costretto a respirare il cocktail fotochimico di anidride carbonica , di solfato di zolfo , di particolato e vari altri inquinanti, il giorno dopo, a bordo della sua auto, sarà tra la schiera degli inquinatori. Il bene comune dell' aria salubre e il diritto universale alla salute vengono violati sistematicamente anche da chi quel danno subisce, a sua volta, in quanto abitante di una città, utente dello spazio pubblico. Appare qui evidente che la rappresentanza e la difesa del bene comune salute è affidata a una autorità terza in grado di comporre il diritto e il bisogno della mobilità dei cittadini con quello di respirare un'aria non inquinata.
E tuttavia appare anche in questo caso ben visibile la configurazione del mondo urbano quale ecosistema: l'uso privato e collettivo dell'habitat ha conseguenze sugli attori naturali che lo manipolano e lo abitano, non diversamente da quanto accade in natura, allorché un qualche agente rompe un equilibrio consolidato. Se un ambiente acquatico si prosciuga a causa di un intervento dell'uomo o per una prolungata siccità, la vita degli uccelli, dei pesci e dei mammiferi che l'abitavano ne viene sconvolta.
Intanto,senza che nessuno lo notasse, senza sofisticate elaborazioni teoriche, sotto il cielo delle città un bene comune fondamentale è stato storicamente ripartito e regolato con criteri egalitari fra i suoi innumerevoli fruitori. Com'è noto, lo spazio adibito alla libera circolazione di uomini e veicoli non conosce significativi impedimenti e domini privati e particolari. Al contrario lo spostamento su strada è reso possibile da regole universali che danno pari diritto di movimento a tutti gli utenti. Quello spazio pubblico è stato infatti ripartito in un reticolato di possibilità e divieti in cui ciascuno esercita il proprio diritto a spostarsi rispettando quello degli altri. Il semaforo rosso che impedisce al singolo utente di transitare all'incrocio è un obbligo che lo costringe a non considerare lo spazio urbano come un dominio particolare che può utilizzare a proprio arbitrio. Qualunque sia la potenza e il lusso del veicolo che guida, qualunque sia il ruolo sociale, la ricchezza, la potenza gerarchica del guidatore, quel rosso è un impedimento da rispettare. E' condizione della sua sicurezza e di quella degli altri. Si è tutti alla pari nello spazio aperto delle strade cittadine. Una grammatica universale si impone su tutti. Ed è grazie a tale egalitarismo che viene protetto il bene comune dell'incolumità fisica dei cittadini. Solo i pari diritti di spostamento di cui godono tutti consentono l'uso ottimale del bene comune del territorio urbano. Forse e' qui il modello di uso egalitario della città, del suolo, dell'aria, delle risorse a cui occorrerà uniformarsi in futuro.
Il tetto che scotta
Lo scenario climatico che le conoscenze scientifiche del nostro tempo hanno squadernato davanti a noi ci mostrano oggi un altro aspetto di legame sistemico tra la città, i suoi attori naturali, e il più vasto spazio planetario. Le città ci fanno sperimentare la nuova mondialità del locale. Mai come oggi esse erano apparse così nitidamente quali punti interconnessi di una rete a scala globale. Com'è largamente noto, è lo smog cittadino, sono gli scarichi urbani e i fumi industriali per produzioni destinate alle città a determinare una percentuale rilevante di immissione di gas serra nell'atmosfera.Tutte le città del mondo, centri energivori di varie dimensioni e potenza, consumano in maniera crescente petrolio e carbone, alterando il clima atmosferico, surriscaldando il nostro comune tetto di abitanti della Terra. Il riscaldamento globale, potremmo dire, è figlio del metabolismo urbano.
Val la pena inoltre osservare che il riscaldamento urbano tende a rafforzare i suoi effetti per via della stessa manipolazione territoriale che espone le città agli allagamenti periodici. La scomparsa degli orti periurbani, il taglio di alberi, la cementificazione diffusa, la cancellazione progressiva del verde, tutta la multiforme e molecolare attività di consumo dei suoli incolti, non solo contribuisce alla produzione di carbonio e alla cancellazione di fonti produttrici di ossigeno, incrementando così il riscaldamento globale. Essa ha anche un effetto locale e ravvicinato.