ROMA - Ci sono le ville e le villette, i capannoni industriali e i centri commerciali, i magazzini e gli spazi espositivi. C’è un reticolo di cemento che invade silenziosamente il territorio, si chiama tecnicamente "dispersione urbana" o, più ottimisticamente, "città diffusa". È la fine della divisione tra città e campagna a cui si assiste ormai da anni, è l’avvento della città unica, senza confini. Milano, Roma, Napoli, Torino sono gli agglomerati più vasti dove si assiste all’espansione continua nello spazio circostante. Una trasformazione geografica epocale che dilaga senza incontrare ostacoli, un’aggressione dei terreni dovuta anche alla svendita incontrollata di pezzi di territorio messa in atto dai comuni, autorizzata dai sindaci per fare cassa.
In Italia l’80 per cento della popolazione vive ormai nel 5 per cento del territorio, lo sottolinea il rapporto 2008 della Società geografica italiana "L’Italia delle città, tra malessere e trasfigurazione". In duecento pagine i curatori fanno un’analisi di quello che sta accadendo sul suolo, ai paesaggi. Le città sono cambiate, dicono i geografi, per l’immaginario collettivo sono ancora quelle di un secolo fa, ma a quell’idea corrispondono ormai solo i centri storici, al posto della vecchia urbs ci sono agglomerati senza confini e senza gerarchie.
«Il 5 per cento del territorio italiano è occupato da agglomerazioni urbane dove vive l’80 per cento della popolazione mentre il 7 per cento degli abitanti occupa il 20 per cento», spiega Giuseppe Dematteis, coordinatore del rapporto e professore di Geografia urbana al Politecnico di Torino. «Fuori dalle grandi agglomerazioni c’è una dispersione che consuma suolo con danni rilevanti per la campagna e il paesaggio, per la mancanza di infrastrutture. È una devastazione permessa dai comuni che danno le autorizzazioni pur di ricavare risorse, i comuni infatti concedono autorizzazioni per costruire case in zone agricole o mettere fila di capannoni lungo le strade, per questo incassano gli oneri di urbanizzazione e l’Ici, sono cifre enormi, a cui si aggiungono tutte le collusioni tra costruttori e amministratori». Su questa svendita del territorio non ci sono dati: «Il grosso del cambiamento c’è stato fino agli anni 70, con le ondate migratorie, ma non è mai terminato e continua l’aggressione di terreni sempre più rari».
La città diffusa, è scritto nel rapporto, è una realtà non soltanto italiana ma nel nostro Paese ha assunto una pervasività e un’intensità uniche, come nelle aree di industrializzazione nel Centro-Nord. Città che si ramificano, si dissolvono dando vita a un altro fenomeno incontrollato, quello della dispersione abitativa. «È terribile vedere le aree di pianura invase da case», dice Edoardo Salzano, urbanista che ha dedicato molte analisi e battaglie allo sprawl. È questo il termine inglese usato già negli anni Cinquanta per la crescita urbana senza regole. «Nelle altre città europee c’è una linea netta tra città e campagna, da noi c’è una linea continua autorizzata dalle leggi. Il fenomeno, che è sempre esistito, è andato via via peggiorando, un decreto alcuni anni fa, consentì di utilizzare i finanziamenti derivanti dagli oneri di urbanizzazione per il bilancio comunale, da quel momento i sindaci con difficoltà di cassa hanno aumentato il numero delle concessioni edilizie. Ora come se non bastasse c’è stato il decreto legge del giugno scorso, di cui nessuno ha parlato, che impone a comuni, province e regioni di fare l’elenco delle proprietà immobiliari per venderle o metterle a reddito, risorse pubbliche devono essere trasformate in qualcosa che renda». Intanto il territorio si trasforma e diventa altro. Addio quindi alla città e addio anche alla campagna. Al loro posto ecco le aree metropolitane, la regione-urbana, le città-regioni, termini burocratici per esorcizzare il fantasma della megalopoli.