Qui il file scaricabile in formato .pdf
La città nasce con lo spazio pubblico
Si può dire che la città nasce con gli spazi pubblici. L’ uomo, nel suo sforzo di costruire il proprio luogo nell’ ambiente, genera quella sua meravigliosa invenzione che è la città a un certo momento della sua vicenda: precisamente quando, dal modificarsi del rapporto tra uomo, lavoro e natura, nasce l’ esigenza di organizzarsi (come urbs, come civitas e come polis) attorno a determinate funzioni e determinati luoghi che possano servire l’ insieme della società.
Decisivo è stato il ruolo delle piazze: le piazze come il luogo dell’ incontro tra le persone (i ricchi e i poveri, i cittadini e i foresti, i proprietari e i proletari, gli adulti e i bambini). Le piazze come i luoghi della mixitè e della libertà.
Nelle piazze i membri delle singole famiglie diventavano cittadini, membri di una comunità. Lì celebravano i loro riti religiosi, si incontravano e scambiavano informazioni e sentimenti, cercavano e offrivano lavoro, accorrevano quando c’ era un evento importante per la città. E il ruolo che svolgevano era sempre correlato alle condizioni della società, al tempo e al contesto cui erano riferiti: un allarme o una festa, la celebrazione di una vittoria o di una festa religiosa, la pronuncia di un giudizio o una sanguinosa esecuzione.
Le piazze non erano solo dei luoghi aperti. Erano lo spazio sul quale affacciavano gli edifici principali, gli edifici destinati allo svolgimento delle funzioni comuni: il mercato e il tribunale, la chiesa e il palazzo del governo cittadino. Il loro ruolo sarebbe stato sterile se non fossero state parte integrante del sistema dei luoghi ordinati al consumo comune dello scambio e del giudizio, della celebrazione dei valori comuni e del governo della polis..
Non è pubblico solo il sistema degli spazi, aperti e costruiti, d’ uso collettivo, ma è pubblico, comune, anche qualcos’ altro. Qualcosa che determina il modo in cui i luoghi peculiari al privato (la casa, il capannone, la bottega) vengano ordinati.
Sono pubbliche, insomma, anche le regole che guidano l’ intervento delle famiglie, degli abitanti, delle imprese.
Dalla fabbrica al welfare
Il conflitto tra dimensione privata e dimensione collettiva, tra momento individuale e momento collettivo si è sempre manifestato nella storia – come quello tra esclusione e inclusione. Con il trionfo del sistema capitalistico-borghese esso assume una configurazione particolarmente rilevante per la città.
Il prevalere dell’ individualismo porta a due conseguenze, entrambe negative. Sul versante della struttura, conduce alla frammentazione e privatizzazione della proprietà del suolo urbano, minando una base della capacità regolativa della polis. Sul versante dell’ ideologia conduce all’ affievolirsi dei valori sociali impliciti nel concetto di cittadinanza.
Ma dall’ altro lato le caratteristiche proprie della produzione capitalistica provocano effetti di segno opposto. L’ inclusione di tutti i portatori di forza lavoro, i servi sfuggiti alla miseria delle campagne e accorsi alla città “la cui aria li renderà liberi” pone le premesse materiali all’ allargamento della democrazia. Contemporaneamente il conflitto di classe che di quel sistema è l’ inevitabile prodotto conduce al formarsi di una nuova solidarietà nel campo del lavoro. S’indebolisce la solidarietà cittadina ma nasce e s’irrobustisce la solidarietà di fabbrica e da questa, progressivamente, germoglia una nuova domanda di spazio pubblico.
Dal movimento culturale, sociale e politico scaturito dalla solidarietà di fabbrica nasce la spinta a ottenere il soddisfacimento di bisogni antichi negati dal prevalere del nuovo sistema e, soprattutto, di nuovi bisogni nati dall’ affermarsi della democrazia: attraverso le loro azioni e le loro rappresentanze entrano nel campo dei decisori le grandi masse fino allora escluse.
L’ incontro tra la pressione organizzata del mondo del lavoro e il pensiero critico e costruttivo degli intellettuali riuscì a incidere in modo consistente sull’ allargamento dello spazio pubblico, nella città e nella società.
Lo vediamo nell’ affermarsi del diritto socialmente garantito all’ uso di un alloggio adeguato alle necessità, e alla capacità di spesa, delle famiglie degli addetti alla produzione. Come lo vediamo nella nascita, e poi nel consolidamento, di servizi che soddisfano collettivamente alcuni dei bisogni che nel passato erano svolti nell’ ambito familiare
Le parole dello spazio pubblico
Nel quadro di questa riflessione, nell’avviare la Scuola abbiamo presentato una serie di approfondimenti e specificazioni del termine “spazio pubblico”, e ne abbiamo verificato ed esteso l’analisi nel corso delle tre giornate. Diamo sempre grande importanza alle parole. Don Lorenzo Milani diceva: “Chiamo uomo chi è padrone della propria lingua”, e sosteneva che chi ha più parole (chi controlla meglio l’uso delle parole e dei loro significati) ha più potere.
In questa occasione l’analisi delle parole ci ha permesso di ragionare sulla molteplicità dei significati del termine e sulla molteplicità dei suoi usi.
Abbiamo esaminato le diverse definizioni di spazio pubblico: a partrire da quella più ampia e intuitiva (luogo in cui a tutti è concesso qualche diritto di accesso, e regolato da un insieme di norme e convenzioni), allo spazio della partecipazione alla vita collettiva, allo spazio dei servizi collettivi orientati al “consumo comune”, allo spazio come “sfera pubblica (cioè area dove si forma l’opinione pubblica, dove si confronta e si discute), allo spazio non intenzionale, anarchico (quello che viene occupato dagli immigrati delle varie etnie, nazionalità, lingue culture, dai non rappresentati, da quelli che non hanno voce, i giovani), come spazio della rappresentazione, come luogo del conflitto e delle differenze (là dove i conflitti si manifestano e trovano la loro composizione, dove le differenze si manafestano e trovano la loro con-vivenza).
Abbiamo poi prroposto alla discussione le condizioni che possono influenzare il carattere pubblico di uno spazio e aiutare a definirne il gradiente di “pubblicità”. Ci sono sembrati rilevanti l’accessibilità/inclusività, la proprietà, l’intersoggettività.
Particolarmente rilevante ci è apparso il primo. Ma abbiamo sottolineato che un luogo può apparire accessibile e inclusivo, ed essere invece condizionato da sottili forme di esclusione e oppressione: esclusione di determinate le attività (protesta, comizi…) o di certi comportamenti o persone, monitoraggio e controllo, ecc. E le barriere possono essere fisiche; visuali e simboliche; sociali, culturali e finanziarie. Il criterio dell’accessibilità/inclusività rappresenta in definitiva la relazione tra potere di accesso e potere di esclusione, tra diritti privati e diritti della collettività in quanto il diritto di accedere esteso a tutti implica la necessità individuazione dei limiti per tutelare il sopruso di potere da parte degli altri.
L’attribuzione di uno spazio pubblico alla proprietà privata o a quella pubblica ha importantiimplicazioni e conseguenze su tipo di restrizioni ed esclusioni che possono essere applicate (in termini di accesso, di attività che si possono esercitare, e del grado di libertà di espressione consentito). Certamente se la proprietà è privata l’accessibilità è a discrezione del proprietario che ha il diritto di disporre di quel bene come meglio crede.
Il terzo criterio, l’intersoggettività, riguarda l’interazione che lo spazio pubblico potenzialmente consente. Esso può porre i partecipanti principalmente come consumatori (di merci o di eventi), può porti come membri di un’audience (lo stadio, il teatro, il festival, ecc.), come co-creatori di uno spazio condiviso (la piazza, la strada, ecc.), oppure infine (ed è il livello più alto) può consentire ai soggetti di avere un dialogo e svolgere un ruolo critico, e quindi di concorrere alla modellazione dell’ecosistema in cui vivono (arene di dibattito culturale e politico).
Abbiamo riflettuto sulla regolamentazione dello spazio pubblico. Questo deve essere sempre regolato, per trovare un giusto equilibrio tra libertà e diritti: tra la libertà per tutti di esprimersi e il diritto di ciascuno di non essere privato della sua voce. Le regole devono essere condivise: un sistema effficace di regole è quello che va sotto l’espressione di “buona educazione”; ma non possono essere le regole di una comunità di eguali, devono aiutare la con-vivenza di soggetti caratterizzati da differenze.
Se le regole condivise non esistono, le testimonianze recate alla Scuola rivelano che prevale o la “legge del branco”, oppure l’ultra-regolazione, a base di divieti, ordinanze, ukase..
Il declino dello spazio pubblico
Dopo l’analisi del significato di “spazio pubblico”, l’analisi del declino. I diversi interventi hanno testimoniato come oggi la situazione della città e l’ orientamento delle politiche urbane siano radicalmente diverse da quelle che la storia della città ci suggerisce, sia che le osserviamo nel lungo periodo che se ci riferiamo ai secoli più vicini.
Il carattere pubblico della città è profondamente in crisi: è negato in tutti i suoi elementi. A cominciare dal suo fondamento: la possibilità della collettività di decidere gli usi del suolo, o attraverso lo strumento patrimoniale (proprietà pubblica dei suoli urbanizzabili o appartenenza pubblica del diritto a costruire), oppure attraverso quello di una pianificazione urbanistica efficace, autorevole, condivisa da chi esercita il governo in nome degli interessi generali.
Gli standard urbanistici, lo strumento di base per ottenere una quantità ragionevole di aree da dedicare agli spazi, alle attrezzature, ai servizi d’ interesse comune, sono in decadenza, e se ne propone addirittura l’ abolizione o la “regionalizzazione”: come se il diritto di disporre di scuole, parchi, piazze, mercati, attrezzature sanitarie, biblioteche, palestre fosse diverso per gli abitanti della Puglia e quelli del Veneto.
Le aree già destinate dai piani a spazi pubblici, e quelle già acquisite al patrimonio collettivo, sono erose da utilizzazioni private, o distorte nel loro uso dalla commercializzazione. Il gettito finanziario originariamente rigorosamente destinato dalla legge alla realizzazione degli spazi e delle attrezzature pubbliche, gli “oneri di urbanizzazione”, viene dirottato verso le spese correnti dei comuni, utilizzato per pagare gli stipendi o le grandi opere di prestigio.
Alle piazze reali, caratterizzate dall’ essere luoghi aperti a tutti, disponibili a tutte le ore, e per diverse attività (passeggio, incontro, gioco, ecc.), luoghi inseriti senza discontinuità negli spazi della vita quotidiana, si sono sostituite le grandi cattedrali del commercio, caratterizzate dalla chiusura ai “diversi” (in nome della sicurezza), dall’ obbligo implicito di ridurre l’ interesse del frequentatore all’ acquisto di merci (per di più sempre più superflue). La piazza, luogo dell’ integrazione, della varietà, della libertà d’ accesso, è sostituita dal grande centro commerciale, dall’ outlet, dall’ aeroporto o dalla stazione ferroviaria (da quelli che sono stati definiti “non luoghi”). Parallelamente il cittadino si riduce a cliente, il portatore di diritti si riduce a portatore di carta di credito.
Le ragioni del declino
Ci siamo ovviamente domandati perché tutto questo sia successo. La ragione di fondo sta nel mutato rapporto tra uomo e società. L’aspetto centrale è la rottura dell’ equilibrio che lega tra loro le due essenziali dimensioni d’ ogni persona: la dimensione pubblica, collettiva, comune e la dimensione privata, individuale, intima. E’ quell’ equilibrio che si esprime fisicamente nei nostri centri storici e nei nostri paesi, là dove vediamo la strada (dove non è invasa dalle auto) e la piazza costituire il naturale prolungamento della vita che si svolge nell’ abitazione.
In effetti negli ultimi decenni è giunto a un punto di svolta un processo avviato molti secoli fa. Mentre da un lato, infrangendo i tabù dell’autoritarismo e del controllo sociale, si sono liberate le energie derivanti dalla piena esplicazione dei diritti individuali, dall’altro lato si e smarrita la consapevolezza dell’essenzialitò, per lo stesso equilibrio della persona, della dimensione sociale.
Contemporaneamente, l’ uomo è stato ridotto alla sua dimensione economica: prima alla condizione di mero strumento della produzione di merci, poi a quella di mero strumento del consumo di merci prodotte in modo ridondante, opulento, superfluo. L’alienazione del lavoro prima, l’alienazione del consumo poi. Il lavoratore ridotto a venditore della propria forza lavoro prima, il cittadino ridotto a cliente poi.
Infine, la politica è diventata a sua volta serva dell’ economia, si è appiattita sul breve periodo, è divenuta priva della capacità di costruire un convincente progetto di società: priva della capacità di analizzare e di proporre.
Le politiche urbane del neoliberalismo accentuano tutti i fenomeni di segregazione, discriminazione, diseguaglianza che già esistono nelle città. Lo smantellamento delle conquiste del welfare urbano ne è una componente aggressiva, soprattutto nel nostro paese dove – a differenza che altrove – non c’ è mai stata un’ amministrazione pubblica autorevole, qualificata, competente, e dove salario e profitto sono stati sistematicamente taglieggiati dalle rendite. Un’ altra componente è la tendenziale privatizzazione d’ ogni bene comune che possa dar luogo a guadagni privati: dall’ acqua agli spazi pubblici, dall’ università alla casa per i meno abbienti, dall’ assistenza sanitaria ai trasporti. La città diventa una merce: nel suo insieme e nelle sue parti.
Una ulteriore componente è la progressiva riduzione degli spazi di vita collettiva e di partecipazione sociale, soprattutto a partire da due momenti: quando l’ obiettivo della “governabilità” è diventato dominante rispetto a quello della “partecipazione”, e si sono impoveriti alcuni decisivi momenti della democrazia nell’ ambito di tutte le istituzioni, dallo stato ai comuni; quando il crollo delle Twin Towers e il riemergere, in Italia, della xenofobia e del razzismo hanno fornito la giustificazione – o l’ alibi – alla pratica della priorità assoluta della sicurezza su qualunque altro bisogno, esigenza, necessità sociale.
Nei confronti degli spazi pubblici si produce quindi una devastazione che ne colpisce l’ uno e l’ altro versante: la loro consistenza fisica e la loro consistenza sociale. Si riducono sempre di più gli spazi pubblici nei quali vivere insieme, come si riducono gli spazi, reali e virtuali, per la discussione, la partecipazione, la critica o la condivisione della politica.
Collocarci nella storia
Lo spazio pubblico è stato, ed è tuttora, il risultato di un processo storico caratterizzato da faticose conquiste e sofferte sconfitte. Lo sarà anche in futuro. Per costruire un futuro accettabile è necessario collocarci nella storia: avere consapevolezza di ciò che è alle nostre spalle, comprendere la condizione che viviamo oggi e scoprire in essa i germi di un futuro possibile.
Per comprendere in che modo esercitare la difesa e la riconquista dello spazio pubblico è stata utile la riflessione a più voci sugli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Discorrendo con gli studenti ci siamo resi conto del grave danno provocato da quella rimozione della memoria che è stata compiuta negli ultimi decenni. Cancellare il passato, la nostra storia, è particolarmente grave se ci proponiamo di costruire un futuro diverso dal presente.
Nella narrazione a più voci che abbiamo fatto sugli eventi che hanno condotto al decreto degli standard urbanistici, alla politica della casa con tutto l’arco dei provvedimenti che vanno dalla legge 167/1962 fino alla legge per l’equo cannone, alla generalizzazione della pianificazione urbanistica, all’acquisizione di rilevanti beni pubblici come l’Appia antica. Si è ragionato sulle condizioni che, allora, resero possibili i risultati positivi.
Illuminante è stato il ruolo allora svolto dai movimenti di massa: l’Unione donne italiane e il movimento per l’emancipazione della donna dalla condizione d’inferiorità, negli anni dal 1962 al 1968, le lotte studentesche e quelle operaie dopo il 1968. É apparso significativa la testimonianza del modo in cui nuove esigenze sociali (la liberazione dal lavoro casalingo) abbiano trovato negli esperti le parole mediante le quali esprimersi, nella politica e nelle istituzioni gli strumenti per tradursi in norme e politiche.
Come tener conto oggi dei suggerimenti della storia?. Occorre in primo luogo individuare i nuovi bisogni che nascono dalla società di oggi, e che esprimono la necessità di una società nuova. E bisogna nutrire la speranza che essi possanno essere soddiafetti anche nei tempi che viviamo.
Aiuta in questa direzione il confronto con le esperienze di altri paesi europei. Quelle che sono state illustrate nella Scuola testimoniano come le istituzioni, là dove la politica assume la questione dello spazio pubblico come tema cenetrale, possono fare molto, sia a livello statale che a livello locale. L’Italia appare molto in ritardo al confronto, sebbene non manchino interessanti esperienzedi gestione intelligente degli standard urbanistici, anche nell’indispensabile dimensioe dell’area vasta e del coordinamento intercomunale.
Esistono già domande che si esprimono nel terreno specifico dell’azione della pianificazione delle città e dei territori. L’aspirazione a difendere le qualità del territorio in quanto tali, in quanto “beni comuni” di cui a atutti deve essere garantita una fruizione rispettosa delle regole dettate dalla necessità di difenderne consistenza e valore. Estendere il concetto di “standard urbanistico” ai beni culturali e a tutti i luoghi dotati di particolari qualità è parso un’indicazione utile. Vi sono due insiemi di aree che vanno tutelate e aperte all’uso pubblico: quelle necessarie per lo svolgimento di determinate funzioni urbane, e quelle che meritano la tutela e l’accessibilità pubblica per le loro caratteristiche intrinseche. Due insiemi, che possono anche coincidere in talune parti, in uno dei quali prevale l’esigenza della funzionalità del servizio reso, nel’altro la tutela e la fruizione responsabile delle qualità intrinseche.
Che fare oggi
Infine ci siamo chiesti che cosa fare oggi per uscire dal declino, per difendere e riconquistare lo spazio pubblico.
É alla politica – alla dialettica tra le parti che essa esprime – che spetterebbe configurare e proporre un “progetto di società”, e in relazione a questo, un progetto di città e di territorio. Sono esistiti tempi in cui è stato così. Oggi non si può fare affidamento alla politica dei partiti. Nessuno dei partiti esistenti ha le carte in regola.
Oggi dobbiamo ricostruire la politica. Per farlo bisogna lavorare su due fronti, guardare a due tipi di interlocutori.
In primo luogo, i movimenti che affiorano dalla società, e che aspirano a un superamento delle condizioni date. Essi crescono mese per mese: sono fragili, discontinui, spesso abbarbicati al “locale” da cui sono nati. Eppure, nonostante la loro fragilità, testimoniano una volontà di impegnarsi in prima persona per cambiare le cose, e sempre più spesso, riescono ad aggregarsi in reti più ampie, a inventare strumenti per consolidarsi e dare durata alla loro azione, a comprendere meglio le cause da cui nascono i guasti contro i quali si ribellano.
Costituiscono un possibile modo di ricostituire la politica. Sono già “politica”, nel senso proprio di volontà e, non raramente, la capacità di partecipare al governo della cosa pubblica. Le testimonianze già emerse nelle prime tre giornate della Scuola e quelle che emergeranno oggi ci raccontano di questa capacità, degli ostacoli e dei rischi che ne caratterizzano il cammino.
L’ altro interlocutore sono le istituzioni: i comuni, le province, le regioni, il parlamento. Naturalmente con maggiore attenzione per la prima, perché più sensibile al “locale”, cioè al luogo ove finora si manifesta la maggior pressione dei movimenti, ma non dimenticando mai che occorre avere una visione multiscalare: dal locale al globale, attraverso tutte le scale intermedia. Una visione corrispondente alle molteplici “patrie” di cui ciascuno di noi è cittadino: dal paese e dal quartiere, dalla città alla regione e alla nazione, all’ Europa e al mondo.
Siamo convinti che un compito grande spetti agli intellettuali, soprattutto a quelli che hanno nella città (come urbs, come civitas e come polis) il loro specifico campo d’ azione. Siamo intellettuali, depositari d’ un sapere che dobbiamo amministrare al servizio della società. Dobbiamo saper ascoltare la società, individuare le esigenze che sollecitano alla costruzione di una città bella perché buona, perché equa, perché aperta. E a quelle esigenze dobbiamo saper dare risposte: come hanno saputo fare i nostri padri negli anni Sessanta.