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Giuseppe Campione
La città interrotta e il ponte della nuova marginalizzazione
25 Maggio 2008
Altre città italiane
A cento anni dal terremoto, Messina fra elaborazione urbana incompiuta e il ponte, segmento isolato di una visione trasportista. Scritto per eddyburg, 25 maggio 2008 (m.p.g.)

“…-Messina- disse con lamento una donna; e fu una parola detta senza ragione; solo una specie di lagnanza…"

Elio Vittorini, Conversazione in Sicilia, 1941

“ Ricca grassa seduta…la povera Messina.

…terra e il mare sommossi…

E la guerra.

E chi successe alla guerra

e chi succede a chi successe

e non fa succedere…”

Bartolo Cattafi, L’aria secca del fuoco, Mondadori, 1972

“…sarebbe come una mattina

svegliarsi ed essere a Messina,

città ch’è degna d’ogni stima,

ma che vuoi che ci faccia io a Messina…”

Roberto Vecchioni, Messina, CGD spa, 1973

A Messina, “claves insulae”, come dice Edrisi, non solo, ma anche “nobilis Siciliae caput”, e, soprattutto, “emporio delle genti”, arrivavano le navi dagli estremi lidi della terra. Per questo gli abitanti ”quasi non ponnu viveri senza mercantii et esercitii marittimi”, essendo la città, appunto, “situata in loco sterili di terreno“.

Le fortune del sito, della posizione e delle professionalità marittimo-commerciali saranno causa ed effetto di cospicui privilegi “concessi per rimunerazione di servigi prestati dalli Serenissimi reggi”. E forse i molti privilegi “con i quali si è gloriata la città di Messina di essere arricchita (addirittura ne furono inventati altri “falsi e irregolari”, al punto che “nella ‘caparbietà’ di difendere tali ‘imaginarie chimere’, si precipitarono, “all’ultimo scopo della loro meritata rouina”, scrisse il Masbel), furono sempre causa che la medesima si rendesse nauseosa ...alle altre città del Regno”.

La rivolta antispagnola vide la città assolutamente sola, proprio al termine di una lunga controversia, con Palermo, sul privilegio “di estrarre la seta solo da Messina”. Temeraria ambizione quella, si chiede ancora con il Masbel, Massimo La Torre, o un “voler vivere in libertà, quasi in forma repubblicana”? Forse Messina, analogamente ad altre repubbliche cittadine, ritenuta “inevitabilmente sediziosa”, vede la sconfitta delle sue ambizioni municipalistiche e si arrende a poteri autocratici, perde la voglia di comunicazione dei cittadini, che resteranno solo vassalli, intorno agli affari pubblici, “la civile conversazione”. Se, ci ricorda ancora La Torre, il ‘rex’ è Leviathan, unità, indissolubilità, concordia di parti, il ‘populus’ è Behemoth, ribelle aggregato di mostri, sedizione, plurale. Così Messina, allora città temeraria senza accortezza, andrà incontro alla sua rovina, speculare all’aurea mediocritas che si accontenta. Città vinta e sottomessa, vivrà come esempio, ‘ universitad del mundo’.

Ma il paesaggio e le anche memorie sono tutte lì. Messina era stata letta, dice Alberto Samonà, come un teatro e il suo doppio: la città, dal mare-platea, come insieme di quinte, un palcoscenico che dalla palazzata-spettacolo si innalza sulle colline, con l’Etna come fondale; invece, tornata anfiteatro, con, sulla scena, il mare tagliato dalla falce, come nelle crocifissioni di Antonello, e, in fondo, l’ondulato disegno degli ultimi contrafforti dell’Aspromonte. Poi solo memoria e lamento. La cesura sarà più evidente dopo il terremoto del 1908, e non sarà solo virtuale.

Nella logica interna del suo impianto gli avvenimenti, le epidemie, i disastri sono state come ferite profonde del tessuto sociale e delle strutture urbane, che si rimarginano con modalità e tempi diversi: scansioni temporali entro cui i vari elementi della struttura si ricombineranno alla ricerca di un disegno. E perciò è come se sempre si fosse guardato al tempo dello spazio della lunga durata e gli avvenimenti, tra storia ed eventi.

Senza, è ovvio, trascurare l’avvenimento-mostro (l’evento-problema), la rivolta antispagnola, ma soprattutto il terremoto, a partire dal quale si riproblematizzerà tutto.

Per Messina si è a lungo pensato che il terremoto avesse azzerato le memorie, determinando una condizione di cittadini senza storia. L'avvenimento terremoto segnò infatti un taglio deciso, spietato, non solo nella struttura urbana e nella vita economica, ma soprattutto nella composizione demografica e sociale.

Messina appariva dopo la sua Iliade funesta, come un mondo livido e informe, tra cui vagavano le ombre degli scampati, e il resto della Terra leggeva, atterrito, il numero pauroso delle vittime, e contemplava la straordinaria visione di una città crollata in pochi secondi, come i castelli che i ragazzi fanno con le carte, scriveva Guido Ghersi. E sarà il momento dionisiaco della "lieta baraonda da fiera" della "resurrezione" post-terremoto che caratterizzava Messina "un po' cantiere, un po' bivacco, un po' mercato". Una città abitata anche da “un miscuglio di gente forestiera assillata dal desiderio di far fortuna”, intenta alle “più ingegnose speculazioni”. Città di "sventagliante fantasmagoria" nelle cui sale da pranzo e da convegno arrangiate si affollavano "funzionari, costruttori, legali, giornalisti, rappresentanti dei comitati di soccorso nazionali e stranieri, mondane, tutta una folla varia e strana, mutevole e gioconda fra la quale capitava spesso in raccolto atteggiamento qualche gruppo di persone a lutto”(P.Longo). E questa Messina a poco a poco assumerà forma, contemplerà gli effetti del maremoto, del terremoto, gli incendi, lo sciacallaggio, l’arrivo dei primi soccorritori, la nave russa, la partecipazione dei sovrani, la durezza dello stato d’assedio, le prime leggi per l’emergenza, la municipalità che risorge, i drammi di orfani e vedove, le sedute dei civici consessi. I futuristi cantano la volontà prometeica della ricostruzione, quella che viene enfatizzata, spettacolarizzata quasi, dal poeta Jannelli: tendere spasmodicamente verso la ricostruzione… un leggere il passato-presente…attraversato da un fil di ferro…poi l’avvenire che cresce… e il sorridere-mondo etc.etc. Dal "grumo di sentimenti e di irrazionalità, si tengono però lontani gli altri, gli scienziati alle prese con i problemi delle cause e degli effetti. Il primo pensiero, come si legge nella relazione del piano, avrebbe dovuto essere quello di conservare il mantenimento della vecchia città, conservandone, per quanto possibile, l’impronta generale, ed il ripristino della forma originaria.

Invece l'impianto del Borzì, il tecnico della municipalità, sarà solo imposto da necessità, urgenze e ‘particulari’. Un’ icona senza invenzioni e proiezioni. Così la forte, commovente volontà dei superstiti sembrerà esaurirsi nel mantenimento del sito, ma da questo non deriveranno ritorni di ruolo o di antiche funzioni. E’ la cittadinanza che finisce, sottolinea ancora La Torre. I diritti si collassato, restano solo concessioni di favori, mediate da suppliche, intercessioni, minacce: la contrattazione impropria dello scambio sarà la “costituzione materiale” di un patto sociale non sottoscritto ma comunque vigente.

Poi, dopo il terremoto, la guerra. “Sotto la gragnuola aerea si compì lo scempio...”(1945), sottolinea il Longo, in un articolo titolato “Messina: vita apparente di una città abituata a morire”.

Anche quest’ultima rottura sembra confermare la tesi di Gambi, poi ripresa dalla Rochefort, sul ripopolamento di Messina, avvenuto ad opera “in più saliente misura di famiglie provenienti dai comuni rurali delle aree prossime … di mediocri impresari e trafficanti provenienti da regioni settentrionali

Resta perciò incompiuto il disegno di città. I ‘ Working Papers’ di Sociologia e di Scienza della politica (E.Tuccari) fanno discendere l’”inaridirsi” dei “messaggi pervenuti da un passato non lontano”, da un uso del potere “spregiudicato ed obliquo”; un potere che si è andato formando in modo quasi separato dalla città, con logiche di tipo familistico (così presente in alcune aree meridionali) con forti ed esclusivi vincoli di appartenenza e di solidarietà. Si potrebbe forse ricorrere a ragionamenti maturati altrove, come nelle analisi della Becchi, per convenire che, anche alla scala messinese, prevalgono le ragioni del riprodursi di una società urbana come società divisa.

Innanzitutto il blocco politico, gli affari, poi il difficile sbozzolarsi di nuovo ceto produttivo, poi una rara intellettualità indipendente, di valore, purtroppo fragile.

Poi ancora l’Università che, pur con presenze di conclamato livello, viene descritta come in rapido declino (non sarà un caso, che in quindici anni si siano avuti tre rettori su quattro inquisiti, sospesi, uno addirittura agli arresti domiciliari, e poi gambizzazioni, addirittura omicidi). Il declino non riuscirà ad essere ovattato dagli abbellimenti dei comunicatori “integrati”. E’ proprio necessario che l’università, ci si chiede, debba avere anche funzioni criminogene?

Poi le periferie, che, hanno strutturato in sé, accanto alle tradizionali microcriminalità suburbane, penetrazioni connotate da cultura di tipo mafioso: così sociologi urbani hanno riscontrato quasi l’insorgenza di situazioni di cittadinanza parallela e alternativa.

La chiesa, infine, solo a volte consapevole della lezione conciliare e di connotazioni profetiche. Come nella lezione di Mazzolari: una chiesa senza popolo?

Allora Messina come idealtipo della condizione civile, della politica.

Dice ancora La Torre: resterà il “fiume turchino” di Verga, resteranno i miti di Omero, ma sopravviverà soprattutto “l’instabile equilibrio tra forma politica e ordine naturale”. Con tutti i secolari veicoli di evidenza produttiva di giudizio: le “dande del giudizio” di Kant, appunto, gli schemi dell’intelligibilità, e della conoscenza.

Non deve perciò sorprendere che non si siano attivate “funzioni capaci di propiziare la modernizzazione”, ripeteva Lucio Gambi.

Il futuro sarà, acriticamente svincolato dalla storia, affidato al permanente uso patrimoniale dello stretto, nell’ignoranza di ricadute produttive e di valori territoriali anche simbolici? E allora possono ancora immaginarsi funzioni che si colleghino ai processi di un territorio, letto come storia sedimentata? Si riproporrà, il disegno di una città che si disisola e che potrebbe agganciare la nuova rete di relazioni prodotte dall’”arco etneo”, quello indotto dalla progressiva intermodalità catanese e dalla dirompente novità di Gioia Tauro?

O questo è solo nello zigzagare della “esigente” che si crogiuola tra malinconia e impotenza.

Anche la nostalgia del luminoso talento visuale dello stretto non sembra più varcare il grigio delle assuefazioni. In una recente prefazione ad un volume su Gambi -curato in Emilia-Romagna da M.P. Guermandi- Ezio Raimondi, che fu del Maestro “compagno di discussioni, in una entusiasmante fase di elaborazione culturale”, scriveva dell’avventura di un una geografia che avrebbe, occupandosi del territorio, dovuto introdurre l’analisi degli uomini in un condiviso rapporto tra natura e cultura, senza schematismi disciplinari, senza le ‘paratie’ di cui parlava Bloch.

E invece le fumisterie “riparazioniste” della nuova Sicilia, quella che ri-parla “con la bocca piena di sole e di sassi”, immagina percorsi più accentuati e ancora più rimunerativi di rinnovato mal-fare, senza “ uomini” per un “condiviso rapporto tra natura e cultura”.

Così sarà per il ponte?

Conciliate, pur in modo problematico, le questioni di sostenibiltà ambientale, il ponte avrebbe potuto avere senso territoriale, proprio perché consolidava ipotesi di nuova epifania della regione dello stretto, quella che ci raccontò Gambi, motivata da forti, antiche ragioni?

Ma adesso, nella sostanziale indifferenza del progettato percorso nord-sud, -che, di fatto bypassa Calabria ulteriore e Sicilia nord-orientale e ne determina una più accentuata periferizzazione e marginalità- non potrebbe apparire “estraneo”, solo straripante sovrastruttura, puro segmento di una visione trasportista?

L’ ineludibilità del ponte, disancorata da probanti apparati concettuali, non finirebbe per degradare verso una sostanziale insignificanza, proprio perché smarrisce -in una oggettivazione di puro, anche se mirabolante, consumo- ipotesi di produzione e/o di riscrittura territoriale?

Dalla “nuova geografia dei luoghi” alla banalità dell’intendenza?

L'autore è docente di Geografia economica e politica presso l'Università di Messina

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