A furia di pensare i flussi di mobilità in modo meccanico e sconnesso rispetto alla qualità degli spazi, dei soggetti, dei comportamenti, si combinano un sacco di evitabili guai. Due aspetti diversi da due articoli di Ivan Berni ( la Repubblica) e Marta Ghezzi (Corriere della Sera Milano), 6 luglio 2014 (f.b.)
la Repubblica
CHE AVVENTURA RISPETTARE I LIMITI
di Ivan Berni
Fra le notizie, diciamo così minori, delle ultime settimane mi ha particolarmente colpito quella del numero delle multe per eccesso di velocità «prodotte» dai nuovi sette autovelox installati da Comune e Prefettura lo scorso 10 marzo. Sono 9000 infrazioni al giorno, di cui 4349 inflitte ai trasgressori del limiti sul Cavalcavia Ghisallo. Per chi non lo sapesse, il cavalcavia Ghisallo è il grande raccordo che porta alle autostrade dei Laghi e alla Milano Venezia. Siccome sono fra chi percorre, un paio di volte al mese, quel raccordo — e dato che mi è quasi certamente capitato, senza accorgermene, di violare i limiti — mi sono impegnato in una prova di autodisciplina: rispettare rigorosamente la segnaletica, senza sgarrare di un solo chilometro rispetto alle indicazioni. Sono sopravvissuto, ma ho corso il rischio di essere travolto da un paio di camion, da una decina di furgoni e da un numero incalcolabile di auto. Nessuno andava piano come me. Sono stato sorpassato da sinistra e da destra — e strombazzato — da camioncini carichi di macerie, compattatori dell’Amsa, una Panda con quattro suore e persino da un carro funebre. La quantità di contumelie, insulti, esibizioni di dito medio e vaffa assortiti la lascio, facilmente, immaginare a chi legge.
È stata una pessima e pericolosa avventura perché chi ha posizionato gli autovelox — segnalati, è vero, da appositi (ma piccoli) cartelli — se ne è allegramente sbattuto di «armonizzare » la segnaletica verticale (sui pali) e orizzontale (sulla strada). Sicché imboccando viale De Gasperi, che precede l’inizio del Cavalcavia Ghisallo vero e proprio, i cartelli indicano un limite di 50 all’ora, mentre sulla carreggiata è dipinto un limite di 70 chilometri orari. Quando inizia la rampa ecco apparire i cartelli con i 70 all’ora, ma un centinaio di metri più avanti — mentre le corsie disponibili per senso di marcia sono quattro, come in una highway di Los Angeles — ecco ricomparire nuovamente un limite di 50 all’ora. Poco dopo si torna a 70, ma è un’illusione che dura un attimo, perché in corrispondenza di una immissione da destra tornano in vigore i 50. La tortura dura all’incirca tre chilometri e l’automobilista ligio alle regole ne esce con una doppia convinzione: non ripetere mai più l’esperienza per non subire un tamponamento rovinoso e che anche a Milano i limiti di velocità, come più in generale le regole in Italia, funzionano, per così dire, a la carte. A seconda della convenienza di chi li impone. Non sappiamo, infatti, quante delle 4349 infrazioni quotidiane registrate sul «Ghisallo » vengano realmente perseguite. Sappiamo, però, che chi si propone di non violare le regole lo fa a suo rischio e pericolo.
Per uscirne basterebbe stabilire un limite unico — i 70 all’ora citati dagli assessori al momento della messa in servizio degli autovelox, (ma perché non i 90 all’ora di qualsiasi strada provinciale a due corsie?) — togliere la segnaletica verticale contraddittoria e, magari, mettere un pannello a segnaletica variabile all’imbocco del cavalcavia con una indicazione chiara. E a quel punto punire severamente chi sgarra. Gli automobilisti ligi, ma anche quelli discoli, ringrazierebbero. E comincerebbero a pensare che i limiti di velocità, nelle strade urbane di grande scorrimento, non sono un trucco per far cassa. Ma sono un provvedimento sensato, che serve alla sicurezza di tutti.
Corriere della Sera
UNA CITTà A MISURA DI TUTTI
di Marta Ghezzi
I conti sono stati fatti partendo da dati concreti. Nelle ultime edizioni di Expo i visitatori con disabilità erano 800 mila. La differenza, questa volta, la farà la crisi. Ma secondo le associazioni di settore, «Nutrire il Pianeta, Energia per la vita» attirerà il prossimo anno almeno 300 mila disabili. All’inizio di Expo mancano 300 giorni. Pochi per mappare l’accessibilità del capoluogo lombardo, sufficienti per testare una decina di percorsi «sensibili». Itinerari ad alto tasso di interesse artistico-culturale, arterie dello shopping, zona del nuovo skyline che devono dimostrarsi friendly con chi ha mobilità o vista ridotta.
In un pomeriggio di sole, Marco Rasconi, presidente Ledha, ne verifica uno. E mentre da piazza Duomo si avvia verso la Loggia dei Mercanti, lancia subito una proposta. «Quando c’è carenza di risorse bisogna mettere in campo tutte quelle disponibili — dice —. La mappatura è un’operazione complessa, che richiede tempo ed energie: perché non coinvolgere Università e scuole superiori? Sarebbe anche un modo indiretto per creare cultura sulla disabilità». Parla e intanto le ruote della carrozzina faticano sul pavé. «È un problema, ovviabile asfaltando o rendendo piani i soli attraversamenti pedonali».
Lungo i marciapiedi del centro gli scivoli sono onnipresenti (anche se di frequente occupati da mezzi con le quattro frecce accese), e il percorso non risulta difficile. Il problema sono i negozi: un gradino di 3-4 centimetri è sempre presente, spesso anche più alto. «Un brutto biglietto da visita, a pochi passi dal Duomo», riflette Rasconi. È solo cattiva volontà: basterebbero piccole pedane». Poca sensibilità e zero spirito pratico. Mohamed Baidi, studente di Economia in Cattolica, ferma la carrozzina davanti all’insegna di una toilette per disabili di un bar. «Ma come la raggiungo se è in fondo a una rampa di scale?», osserva divertito. Abituato a girare sui mezzi pubblici, aspetta un tram con pedana estraibile. Salita perfetta, discesa rocambolesca: il pulsante per l’autista è rotto, bisogna affidarsi agli altri passeggeri, rischiando di non scendere in tempo. «Sono abituato — commenta — abito a Qt8, ma la prima fermata di metrò accessibile è Amendola, la distanza la copro in carrozzina».
Anche l’Unione Italiana Ciechi ha risposto all’appello del Comune sulla mappatura. Franco Lisi, referente Commissione Autonomia Lombardia, e Francesco Cusati, delegato Tavolo tecnico Expo, affrontano il percorso da via Vivaio ai Giardini di Porta Venezia. Si muovono rapidi, evitando angoli e ostacoli. «Non sarà così per chi viene per la prima volta», chiariscono. La riflessione davanti alle strisce pedonali di via Cappuccini. Un punto pericoloso: la curva del marciapiede, non in asse con le strisce, invita a una discesa sbagliata. «Gli attraversamenti sono la criticità: dovrebbero essere sempre indicati con l’apposito codice tattile a terra, in colore contrastante per gli ipovedenti», rilevano. Stesso problema per il semaforo. In corso di Porta Venezia mancano guide tattili a terra: affidarsi all’intuito? Fermare un passante? «Si pensa che il dispositivo sonoro risolva tutto, ma per attivare il pulsante di chiamata devo prima raggiungere il semaforo». Intanto fioriere, cartelli pubblicitari, moto, costringono chi cammina con il bastone a uno zig zag continuo e improvviso. Nuovo pericolo a pochi passi dall’ingresso del parco.
C’è la ciclabile, ma come scoprirlo? «Le bici sono mezzi silenziosi e veloci: è fondamentale segnalarne il passaggio». Nello stesso momento, Guido Marchetto e Paolo Parimbelli testano l’accessibilità nella nuova zona di Porta Garibaldi. E provano a individuare la fermata di un mezzo pubblico. Impossibile, senza un aiuto. «Basterebbe poco: guide a terra e segnalazione sonora, come all’estero», dicono. Expo è oramai dietro l’angolo, ma potrebbe essere il punto di partenza.